Goal

Passarono i giorni, prima, poi le settimane, infine i mesi.

Gli abiti che noi studenti indossavamo cambiarono, adesso dovevamo coprirci dalla testa ai piedi per sopperire all'inverno congelato di quell'anno, e così Eve ne approfittò per trascinarmi subito in un centro commerciale, dopo aver scoperto con orrore che, ahimè, io disponevo di una sola giacca – un piumino nero che mi aveva regalato Jesse anni prima – e di felpe dedicate a Crystal Ballerina.

Ma anche se non l'avesse scoperto, mi ci avrebbe trascinato comunque, la mia era una certezza.

Anche lei era cambiata insieme al tempo e ai vestiti. Adesso, quando i nostri compagni di scuola facevano battute sul suo corpo o le sue attività sessuali, rispondeva a tono, divertita. Si voltava verso quelle bocche che tanto amavano denigrarla e con tono giocoso domandava: «Almeno io scopo e non faccio male a nessuno, voi con questi insulti cosa ottenete, oltre a un posto all'inferno?»

La prima volta che l'avevo sentita, eravamo in pausa pranzo, io e lei soltanto, stavamo camminando per i corridoi quando la ragazza che avevo schiaffeggiato con la lattina si era permessa di fare i suoi soliti commenti sgraditi. Mi domandi se fosse il caso di prendere un'altra CocaCola, quando Eve intervenne. Sfoderò tutta la sua bellezza, il suo sorriso da diva, per umiliarla, per poi riprendere il cammino con me, trascinandomi per mano.

«Che è successo?» le domandai. «Di solito preferisci ignorarli.»

«Sì, è vero» ammise, per poi gongolare. «Diciamo che quella notte a Nicewood è stata proficua, non solo per te.»

«Ah sì?» le chiesi divertita. «Ora che ci penso, non mi hai detto com'è andata con James. Avete condiviso la stanza, no?»

Il suo sorriso si fece gigante, quasi iniziò a saltellare. «Temo di dover deludere le tue aspettative, niente notte di passioni come per te e la tua dolce metà» confessò, facendomi arrossire. «Abbiamo parlato tutto il tempo, fino all'alba.»

Sgranai lo sguardo. «Davvero?»

«Già. Di cose stupide. Veramente stupide. Chi l'avrebbe mai detto? James forse è persino più logorroico di tuo fratello e te messi insieme.» Davanti a quella battuta, scoppiammo a ridere entrambe. «Non ci siamo detti nulla di serio, nulla che importasse, e forse è stata questa la cosa migliore, sai?» Sollevò lo sguardo davanti a sé. «Sono abituata a ragazzi che inevitabilmente riportano la conversazione al mio corpo o al mio aspetto, che tentano in ogni modo di approcciarsi a me per ottenere qualcosa in cambio. James invece ha ascoltato tutte le stronzate che dicevo con una serietà inaudita, anche i miei folli discorsi sull'armocromia. La maggior parte delle volte, li smontava tutti.» Fece una smorfia, per poi ridacchiare ancora. «Ed è stato fantastico.»

Il loro rapporto, in effetti, era cambiato proprio come lei. Adesso quasi si sfidavano, quando si ritrovavano insieme, in una battaglia di commenti e battute che rendeva l'uno più felice dell'altra.

Anche James era cambiato, proprio come Eve, gli abiti che indossavamo e il tempo.

Adesso arrossiva molto di meno, trovava più volte il coraggio di esporre le proprie idee, anche quando andavano contro alle nostre. Non guardava più la mia Eve con quel misto di ammirazione e fascino per il suo aspetto, quando posava lo sguardo su di lei, quando battibeccava con lei, guardava Eve nella sua interezza. In tutti i suoi difetti e le sue assurdità.

Me ne accorsi io, e così se ne accorse lei. L'unico a non averlo notato fu proprio James.

«Mi piace James» dichiarò Eve ancora, quando raggiungemmo le macchinette del primo piano, perché avevamo deciso di prenderci dei brick di succhi di frutta. «Non so ancora in che modo, se da un punto di vista romantico o meno, ma mi piace parlare con lui, davvero tanto.»

Mi ritrovai senza volerlo a sorriderle sorniona e lei, quando se ne accorse, mi pungolò il fianco col gomito. «Sai» proseguì, dopo aver sfilato i nostri succhi dalla macchinetta e avermi passato il mio, «forse anche io ho sempre e solo guardato i ragazzi da un punto di vista unicamente sessuale.»

Infilai la cannuccia nel mio brick, attesi che continuasse.

«Credo che a furia di farmi usare da loro come oggetto di piacere, anche io, senza volerlo, abbia finito per considerarli così.» La sua voce era serena, il suo sorriso la rendeva una stella, forse ancor più bella della prima volta che l'avevo vista, davanti a quell'armadietto. «E che per questo motivo, ora, abbia difficoltà a guardarli con un filtro diverso. Perciò mi è difficile comprendere appieno sentimenti come infatuazioni o innamoramenti.»

«E la cosa ti preoccupa?»

Ci rifletté su, sorseggiando il suo succo. «No» concluse alla fine, con una risata. «In fondo, ho solo diciott'anni» mi spiegò. «Quella notte, quando parlavamo, James ha fatto tutto un discorso super complesso sull'emotività degli adolescenti, mi è stato difficile comprenderlo, ma una cosa l'ho capita eccome.» Sfoderò i denti. «Le emozioni sono molto più dei nomi con cui le chiamiamo. Forse, più che tentare di capirle in ogni loro aspetto, dovremmo semplicemente viverle e basta. Sarà così che le comprenderemo del tutto. Non ho più fretta, adesso» aggiunse. «Sento di potermi rilassare, ora, di non dover dimostrare più niente a nessuno, neanche a me stessa. Voglio solo godermi questa vita, Callisto. Basta con i rimpianti, basta con l'odio, basta con la paura. Vivo e basta, mi diverto con i miei amici, chiacchiero, faccio battute, ogni tanto soffro, ogni tanto sono felice. Cose così.»

Un pensiero tanto filosofico quanto inaspettato da parte sua, ma non potei che trovarmi d'accordo. Io più di tutti sapevo quanto fosse importante una semplice esistenza, quanto troppo spesso dessimo per scontato il valore di ciò che già possedevamo, di ogni singolo respiro che ci aiutava a vivere un secondo di più.

«E tu?» mi domandò a quel punto. «Come va con Mr Tsundere?»

Mi strinsi nelle spalle. «È cambiato anche lui, e mi piace così.»

Ed era vero.

La mia relazione con Ruben non era ancora stata definita, né da me né da lui. Da parte mia, non me la sentivo ancora di affibbiarle un nome, poiché, per quanto adesso fossi fuori dalla mia precedente esistenza di devota sorella, ero comunque ancora legata in maniera primitiva a Jesse. Sapevo di non esser pronta, sapevo di non poterci riuscire, non ora.

E Ruben questo sembrava averlo compreso. Non mi aveva mai messo pressione, mai aveva tirato fuori l'argomento. Continuavamo a comportarci tra di noi come al solito. La notte usciva di nascosto dai dormitori, tornava e io applicavo la pomata ai suoi lividi. Chiacchieravamo come sempre a modo nostro, con lui che mi insultava e mi colpiva sul capo e io che ridacchiavo e lo prendevo in giro.

L'unica differenza, adesso, era che ci baciavamo.

E facevamo anche altro.

Molto altro.

Era stato imbarazzantissimo agli inizi, perché avevo il terrore di svegliare gli studenti che dormivano nelle camere accanto, o che finissimo per essere beccati, ma Ruben, da bravo Bad Boy – come avrebbe detto Jesse – conosceva tutti i metodi per infrangere quelle regole senza mai farsi scoprire.

Di tanto in tanto, finivamo per parlare di cose serie. Lui mi mostrava qualche altro aspetto della sua vita al Dump, dettagli così dolorosi e violenti da stridermi nel cuore con la violenza di un urlo, e io, senza neanche accorgermene, finivo per confessargli i miei pensieri più segreti, quelli più umilianti, quelli che prima di allora non avevo mai neanche osato ammettere di avere.

Aveva preso l'abitudine di accompagnarmi alla clinica di Jesse, il pomeriggio. Non me lo aveva detto, tsundere com'era, ma sapevo che lo aveva fatto per assicurarsi che non rincontrassi i miei genitori. Aspettava sulla poltrona della sala d'aspetto, mentre io stavo con mio fratello, in silenzio, senza dire una sola parola.

Le infermiere avevano già aperto un fanclub per lui, indignando profondamente Jesse.

«Non solo spodestato dal cuore della mia sorellina!» dichiarò un giorno, con la sua espressione più offesa, mentre io lo aiutavo a rimettersi a letto, spostandolo dalla sua sedia a rotelle. «Adesso anche dal personale sanitario! Inizio davvero ad odiarlo!»

Ma non era vero, glielo leggevo negli occhi. Anche se non parlava mai con Ruben, sapevo che era felice che avessi qualcuno con cui tornare ai dormitori, uscita dalla clinica. Qualcuno che avrebbe potuto sorreggermi dal dolore che mi attraversava e non potevo mostrargli, quell'agonizzante terrore che aumentava di giorno in giorno, quando lo andavo a trovare, davanti alla consapevolezza di come il suo corpo stesse marcendo.

Perché era così.

Marciva, Jesse, inesorabilmente.

Com'era cambiato il tempo, i vestiti, Eve, James, così era cambiata la sua salute, di nuovo.

Adesso stava sprofondando inevitabilmente nel baratro della morte. Più i giorni passavano, più la leucemia lo consumava.

Ora aveva difficoltà ad espletare i suoi bisogni da solo, stava iniziando a perdere il totale controllo della sua vescica, si ritrovava a defecare senza accorgersene. Più e più volte finì per sporcare il suo letto e la sua sedia a rotelle.

E tutto ciò lo umiliava, lo sapevo bene. Lo umiliava tantissimo. Sapeva di star perdendo anche l'ultima goccia di autonomia che gli era rimasta, sapeva di star perdendo anche l'ultimo briciolo di salute. Lui non lo mostrava, continuava a fare battute, prendersi in giro, chiamarsi Senor Piscion, ma non poteva nascondermi l'agonia che gli squassava gli occhi e gli faceva tremare le mani. Non riusciva a celarmi la disperazione che gli gonfiava la gola nello sforzo di trattenersi dallo scoppiare in un pianto furioso.

Alla fine, dovette accettare di farsi mettere il catetere fisso. Uno dei suoi incubi più grandi. Non poté fare altrimenti, non poté ribellarsi.

E mai avrei dimenticato la violenza con cui si costrinse ad accettare quella realtà, il modo in cui aveva acconsentito a farselo inserire: aveva sbattuto con furia le palpebre, serrato la mascella, contratto tutti quei pochi muscoli che gli erano rimasti, nel disperato tentativo di non farsi travolgere dalla disperazione, dalla vergogna pura.

Quella prima volta, rimasi al suo fianco tutta la notte. Non ce n'era necessità, me lo disse, ma volli comunque farlo. Sapevo che aveva bisogno di me, in quel momento, sapevo che aveva bisogno che lo stringessi per mano tutto il tempo, perché il calore delle nostre dita unite confortasse la sofferenza della sua morte impellente, della sua autonomia ormai allo sbando.

Spesso anche Eve e James mi accompagnavano alla clinica, andavano a trovarlo. Jesse scherzava con loro, si divertiva come non mai, soprattutto a prendere in giro James. Lo chiamava Ron Weasley, per poi rassicurarlo che Ron era uno dei suoi personaggi preferiti. Oppure chiedeva ad Eve di presentargli qualche sua collega modella abbastanza caritatevole da accettare una notte di passioni con un malato terminale.

«Anche se» dovette ammettere, «temo che, nelle condizioni in cui sono, farei più cilecca di un uomo con l'ansia da prestazione.»

In uno di quei giorni d'inverno, prima che me ne tornassi ai dormitori con Ruben, mi fermai a parlare alla fine del corridoio con il suo medico, il dottor Thompson. Un uomo sulla sessantina, stempiato, dai ciuffi bianchi per capelli, il volto ovale irrorato da rughe di affaticamento e vecchiaia, un paio di occhiali tondi a coprirgli gli occhi nocciola.

Mi guardò in silenzio per qualche minuto.

«Quanto crede che manchi?» gli chiesi alla fine io.

Lui sbatté le ciglia, si abbottonò meglio il colletto del suo camice bianco. Avevo imparato con gli anni, ormai, che dare notizie del genere era doloroso forse quanto riceverle. «Purtroppo è difficile da stabilire» rispose alla fine. «Potrebbe accadere tra pochi mesi così come stanotte. Tutti i suoi organi stanno inevitabilmente cedendo, non importa quanto tentiamo di rallentare il processo. Basterà che uno solo collassi e non ci sarà più niente da fare. Sarà come un effetto domino: il primo a cadere trascinerà con sé tutti gli altri.»

Io accolsi quell'informazione con il mio sorriso più sereno, ma dentro mi sentii crollare proprio come sarebbe successo più tardi a quegli organi.

Il dottor Thompson sospirò, mi carezzò il capo con delicatezza, e allora mi ritrovai a porre l'ultima domanda, quella che ancora non avevo osato pronunciare, tanto mi terrorizzava: «Soffrirà?»

Lui ebbe un sussulto, tentò di mascherarlo, ma non fece in tempo.

Mi bastò quello.

Non chiesi altro, non ce ne fu bisogno. Lo salutai con un altro sorriso, per poi ritornare indietro e proseguire lungo il corridoio che mi conduceva alla sala d'aspetto dove si trovava Ruben, e nel camminare al suo interno mi sembrò di star attraversando il varco che conduceva all'inferno.

Mi fermai un attimo prima di giungere alla soglia della stanza aperta della sala d'aspetto, quando udii la voce di mio fratello provenire proprio dal suo interno.

«Ehi, Mr Bad Boy!»

Ero sorpresa. Quando l'avevo lasciato, era in camera sua. Non mi aspettavo che uscisse fuori per parlare con Ruben.

«Mia sorella» disse Jesse, la voce impregnata di una felicità così forte da otturarmi tutte le vene, «è fantastica, non è così?»

Ci fu silenzio per qualche secondo, e poi udii una risata. Una risata forte, che raramente mi capitava di ascoltare, quella di Ruben.

«Sì» rispose lui. «È proprio così.»

E Jesse scoppiò a ridere insieme a lui.

Andai a nascondermi in bagno, per trattenermi dall'urlare e scoppiare a piangere. Mi costrinsi ad aggrapparmi al lavandino, a guardare il mio riflesso allo specchio, il sorriso che mi marchiava le labbra.

La mia più grande cicatrice.

E per quanto mi sforzassi, per quanto sapessi che fosse inutile e vano, ad ogni secondo che si consumava non potevo far altro che supplicare in silenzio Dio, il cielo, la Terra, Lucifero in persona, se necessario, affinché tutto quello finisse.

In certe occasioni, li pregavo di rallentare il più possibile l'arrivo inesorabile della fine, di darmi più tempo, di darci più tempo. Solo un paio d'anni in più, solo un paio d'ore in più, solo un paio di secondi in più.

In altre, invece, li scongiuravo perché sollevassero subito mio fratello da quel dolore, in quell'istante. Perché se lo portassero via e gli permettessero, finalmente, di riposare dopo anni di torture e agonie, anche se questo avrebbe significato per me morire, perdere per sempre il mio cuore.

Non cambiò niente. Nessun miracolo, nessun conforto. Non la più piccola, minuscola briciola di speranza.

E anche se sapevo già che sarebbe stato così, dentro non potei che soffrirne.

Passarono i giorni, prima, poi le settimane.

Jesse iniziò a patire dolori ovunque, dappertutto. I medici furono costretti ad aumentare le dosi dei suoi antidolorifici. Più che vivere, dormiva sempre e quando non lo faceva raramente era abbastanza lucido da poter intrattenere una conversazione normale. Non appena se ne accorse, non appena capì che facendo così avrebbe vissuto i suoi ultimi giorni come un moribondo senza più cervello, rifiutò categoricamente quell'aumento del dosaggio.

Dichiarò di preferire la sofferenza del cancro, piuttosto che la serenità dell'incoscienza.

Io gli stetti accanto per quel che potevo.

Lo andavo a trovare e lo aiutavo a mangiare, a bere, a lavarsi, a sopportare i dolori, il vomito, la febbre, il sudore. Lo aiutavo a salire e scendere dal letto, a mettersi sulla sua sedia a rotelle. Camminavo con lui nel cortile della clinica, lui con le sue ruote, io con le mie gambe. Il suo volto era sempre più smunto, sempre più malato. La pelle prima bianca ormai era quasi trasparente, riuscivi a scorgere tutte le vene e i capillari, il sangue corrotto che faticava ad attraversarli.

Chiacchieravamo, parlavamo di cose inutili, insensate: le sue solite battute, gli ultimi libri trash che aveva letto, film che aveva visto da poco. A volte mettevamo semplicemente la musica, canzoni che non ascoltavamo da anni, e ci limitavamo ad assaporare quei suoni senza dire una sola parola.

Nemmeno Dio poteva immaginare cosa mi sentissi dentro.

Un dolore soffocante, un cappio alla gola che non riuscivo in alcun modo ad allentare e ogni giorno si faceva sempre più stretto.

Guardavo Jesse, mio fratello, il mio unico cuore, e ne scorgevo l'inevitabile fine.

La consapevolezza che non potevo più fare altro, che niente di quello che avrei fatto avrebbe mai potuto aiutarlo.

La dilaniante verità che tutto ciò che mi era permesso era stargli accanto, accompagnarlo passo per passo verso l'epilogo di quella sua tragedia nata tanti anni prima.

Stringergli la mano mentre i dolori della leucemia lo squassavano dentro, e allora lui vomitava, e imprecava, e bestemmiava, e piangeva, e mi abbracciava così forte da farmi credere di star marcendo con lui. E io gli sorridevo, e gli sorridevo ancora, e gli baciavo le guance, la fronte, gli carezzavo il viso distrutto e scavato dalla malattia, gli dicevo che era bellissimo, che era perfetto, che era forte, che quello era l'ultimo sforzo, l'ultimo scoglio da affrontare.

«Ce la farò» mi bisbigliava sempre all'orecchio, «manca poco, Callisto, manca poco al tuo compleanno. Ce la farò. Il tuo regalo... Il tuo regalo sarà fantastico, il migliore di tutta la tua vita.»

E io avrei solo voluto urlargli che non me ne fregava niente di quello stupido compleanno, non me ne fregava niente del regalo, della torta, delle candeline, che l'unica cosa che desideravo era un miracolo, che la leucemia all'improvviso svanisse, che il suo sangue tornasse ad essere pulito, che non ci fossero più lividi a divorargli tutta la carne.

Che continuasse ad essere mio fratello, che non smettesse mai di esserlo.

Ma sorridevo, invece, annuivo, gli rispondevo ogni volta: «Sì, ce la farai, ce la farai.»

Mentivo io e mentiva lui, mentivamo entrambi.

Fratelli bugiardi, fratelli codardi.

La notte, nei dormitori, nella mia stanza, mi rannicchiavo sul letto, la faccia nel cuscino, le mani a stringere la federa fino a strapparla. Ruben accanto a me, che in silenzio mi carezzava solo la schiena, mentre io stupravo tutti i miei muscoli facciali perché non crollassero, perché non permettessero al pianto di arrivare in anticipo, prima che il momento giungesse.

Non so dire cosa provai in quel periodo.

So che ad ogni respiro mi sentivo consumare dal rimpianto e la vergogna.

So che ad ogni battito di cuore il senso di colpa mi consumava, pregava perché quel dannato tumore si trasferisse a me, che consumasse il mio sangue, i miei organi e muscoli, la mia carne.

Che tutti quei lividi che Jesse indossava come gioielli si stancassero di lui e decidessero di rendere me la loro nuova preda. Li avrei sopportati meglio, li avrei meritati di più. Avevo già i miei bracciali, in fondo.

Ma non bastava, non bastava mai.

La notte del primo dicembre la passai sulla brandina, accanto al letto di mio fratello.

Mi chiamò nell'oscurità: «Callisto.»

Le nostre mani erano già intrecciate, le sue dita erano così scarne che potevo sentirne tutte le ossa.

«Cosa c'è?»

«Non l'hai ancora trovato?»

«Cosa?»

«Il tuo desiderio.»

Mi sentii corrodere tutti i polmoni, a fatica riuscii a respirare. «No» ammisi quasi con vergogna. «Ancora no.»

Lo sentii sghignazzare in quel nucleo di tenebre dentro cui pulsavano i nostri ultimi attimi.

«Lo troverai» dichiarò. «E sarà un desiderio bellissimo.»

«Come fai ad esserne così sicuro?»

La sua mano si strinse con più forza alla mia. L'unico calore che ci era rimasto, l'ultimo vincolo che lo legava ancora alla vita.

«Perché tu sei bellissima.»

Fui grata dell'oscurità, fui grata dell'oblio che ci circondava, perché così non poté vedere il modo in cui il mio volto si distorse, divorato dall'agonia.

«Mi scadi così nel romanticismo fraterno?» lo presi in giro.

Jesse rise ancora. «Ogni tanto ci sta, quel che basta per condire un po' la vita.»

Qualche minuto di silenzio, interminabili angosce.

«Callisto.»

«Sì?»

«Non diventerai figlia unica.»

Sorrisi, mentre l'anima piangeva.

«Io sarò per sempre tuo fratello e tu sarai per sempre mia sorella. Nemmeno la morte spezzerà mai questo legame.»

«Peccato» commentai, «e io che volevo approfittarne.»

Le nostre mani intrecciate tremarono.

«Ehi, ti ricordi il giorno della diagnosi, quando sono svenuto mentre giocavo a calcio?»

«Eccome. Ti sei lamentato per settimane dell'incisivo scheggiato.»

Soffocò una risata. «Volevo tanto fare goal, ci tenevo un sacco. Volevo dedicarlo a te.»

Mi morsi il labbro. «Beh, meglio così. Facevi davvero schifo a calcio, chissà che figuraccia mi avresti fatto fare.»

«Sadica donna» si lamentò. «Ma sai... credo di esser riuscito comunque a fare quel goal, nonostante tutto.»

«Ah sì?»

«Sì.» Anche se non lo vedevo, sapevo che stava annuendo. «E l'ho dedicato a te.»

Adesso le nostre mani erano così strette che a stento riuscivo a capire quali dita appartenessero a chi.

«Jesse?»

«Cosa c'è?»

«Anche io farò goal.» La mia voce risuonò mite nell'inchiostro di quella stanza dentro cui annegavamo. «E lo dedicherò a te senz'altro.»

Sorrise, non potevo vederlo, ma ero certa l'avesse fatto.

«Starò sugli spalti a guardare. Non vedo l'ora di vedertelo fare.»

Ridemmo di nuovo.

«Non permettere a nessuno di rubarti la palla, sorellina.»


*


Erano le tre e mezza di notte del 3 dicembre.

Tre giorni prima del mio compleanno.

Tre giorni prima che diventassi ufficialmente una donna, un'adulta.

La suoneria del mio cellulare, sotto carica sul comodino accanto a letto, prese a squillare con forza, interrompendo la mia conversazione con Ruben, seduto come me sul bordo del materasso.

Ma non era la classica suoneria già preimpostata dallo smartphone, quella che avevo lasciato per tutti i miei contatti.

No.

Era la canzone Singing in the rain, una delle preferite di Jesse, che lui mi aveva costretta a mettere per il numero della sua clinica.

E non appena udii la voce di Gene Kelly timbrare l'aria, non appena udii quella melodiosa sinfonia che festeggiava la vita in ogni sua forma, compresi all'istante che la mia, al contrario, stava per esser per sempre distrutta.

E non so spiegarmi come, in realtà. Non era la prima volta che la clinica di Jesse mi chiamava in quel modo, a orari così particolari, soprattutto in quell'ultimo periodo. C'erano state centinaia di occasioni diverse, a causa delle varie infezioni, febbri e ricadute che aveva avuto.

Ma stavolta c'era qualcosa di diverso.

Anche se la canzone era la stessa, anche se la voce era la stessa, anche se la situazione era la stessa, percepivo quella differenza in maniera così intima da bucarmi i polmoni in un istante, farmi perdere tutta l'aria e indurre il sorriso a divampare per quell'asfissia.

Me lo sentivo, me lo sentivo dentro. Tutto di quello che ero, ogni cellula, unghia, ciglia, organo, muscolo, osso e nervo, era stato attraversato da brividi di ghiaccio, non appena il telefono aveva iniziato a suonare.

La mia stessa anima sembrò inquinarsi per quella sensazione così ancestrale, per quell'istinto così animalesco.

Forse perché eravamo fratelli, forse perché eravamo sempre stati insieme e insieme eravamo uno.

Un unico io.

E col vincolo di quel legame, con la strettura furiosa di quel rapporto, era inevitabile che mi accorgessi subito dell'istante in cui quell'unione sarebbe stata dimezzata per sempre.

Lo sentivo, lo sentivo, lo sentivo fin troppo.

Ruben mi guardò in silenzio e non ci fu bisogno che dicesse niente, non ci fu bisogno che dicessi niente.

Capì come avevo capito io.

Mi sollevai dal letto, costrinsi il corpo ad obbedire alla mente e a non farsi soggiogare dall'orrore di quel presentimento irrimediabile.

Presi il telefono in mano, guardai il display che mostrava il nome della clinica, l'icona verde della cornetta che aspettava di esser cliccata dal mio pollice.

I am happy again

I am singing and dancing' in the rain

Dancing and singin' in the rain

Un crudele e ironico preludio di ciò che non avrei mai più provato? Di sentimenti che non avrei mai più vissuto?

Una beffa del fato che cantava allegro la fine del mio unico cuore?

Non lo sapevo, non lo avrei mai saputo.

Cliccai sulla cornetta, posai il cellulare sull'orecchio.

Ascoltai in silenzio la voce dall'altra parte.

«Capisco» risposi alla fine, quando ebbe concluso. «Arrivo.»

Chiusi la chiamata così. Una chiamata che il telefono mi informò esser durata solo due minuti e trentaquattro secondi.

Due minuti e trentaquattro secondi che erano bastati per distruggere per sempre qualsiasi mia speranza inespressa.

Avvertii il tocco della mano di Ruben sulla mia spalla, mi voltai per guardarlo e lui sussultò.

Sussultò nello scorgere il mio sorriso.

Un gioiello, una collana, l'ultima che avrei dovuto indossare per concludere per sempre la mia carriera da bugiarda.

«I polmoni di Jesse hanno avuto un collasso» gli spiegai. «Sono riusciti a rianimarlo in tempo, ma durerà poco.»

Lui serrò la mascella e nei suoi occhi vidi tutta la sofferenza che ancora non potevo esalare nella mia voce.

«Presto anche gli altri organi collasseranno» continuai. «Non si può fare più nulla, solo aspettare la fine. Può accadere in qualsiasi momento, persino adesso.»

Il sorriso mi divorò tutta la faccia, mi smembrò la carne, masticò le paure, uccise l'ira.

E mi sentii sporca.

Mi sentii mostro.

Mi sentii un unico, gigantesco livido.

L'ultimo della nostra vita.

«È ora




Nota autrice

Un solo consiglio:

Preparate i fazzoletti.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top