Genesi dell'anima
Iniziò tutto con i lividi.
Avevo sette anni, Jesse ne aveva tredici.
Iniziò tutto quasi per caso, in un modo così semplice che se ci ripensi ti chiedi come sia possibile, come possa una cosa così banale essere il preludio di una delle tragedie più grandi della tua vita.
Gli ematomi arrivarono in fretta, gli iniziarono a crescere come funghi nella pelle. Ce li aveva sulle braccia, le gambe, alcuni persino sul viso. Erano tutti diversi tra loro e possedevano le forme più strane, e da principio nessuno se ne preoccupò. Perché Jesse era giovane, era forte e atletico. Passava gran parte delle giornate a giocare a calcio con gli amici, cadeva, si azzuffava con gli altri ragazzi per cose stupide, si arrampicava con me sui giochi dell'area bambini, mi aiutava ad imparare il balletto di Crystal Ballerina, mi issava sulle spalle e mi faceva fare l'aeroplano correndo come un pazzo.
Eravamo giovani, in fondo, eravamo spericolati, qualche livido capitava a tutti.
Solo che a lui capitavano più spesso.
Anche mamma e papà non se ne preoccuparono, erano felici di vederlo così attivo, la sua vivacità li faceva sentire orgogliosi, guardarlo entusiasta della vita li rendeva fieri come genitori.
Non si accorsero nemmeno loro del primo campanello d'allarme, non riuscirono a intuirlo.
Capitò una volta in cui un livido enorme gli si formò su tutta la schiena. Era gigantesco, un mostro violaceo che si spandeva sulla carne per assorbirne le forze. Una nebulosa purpurea che sembrava esserglisi cristallizzata proprio lì, sopra le vertebre, e nel vederla io quasi la ammirai, perché c'era fascino nel suo orrore.
«Ho preso una pallonata» mi avrebbe spiegato lui mentre la carezzavo, «però, cavolo, non mi sembrava così forte.»
Nemmeno Jesse capiva, e questa è forse la più grande crudeltà della malattia: era il suo corpo, la sua vita, eppure non aveva le conoscenze e le competenze per rendersi conto che qualcosa non funzionava più come prima. Non sono mai riuscita a immaginarmi appieno l'orrore che si deve provare nel rendersi conto che il nostro fisico, il luogo in cui abitiamo, in cui esistiamo, in cui siamo, sta appassendo ma non ce ne siamo mai accorti.
Come noi, anche lui credeva che tutto andava bene, che era solo perché si divertiva troppo.
I primi segnali furono i lividi, il secondo l'affaticamento.
Si stancava sempre, anche per poco.
Lui che era abituato a correre per chilometri senza mai fermarsi, tutto d'un tratto si affannava anche solo a fare la prima rampa di scale del condominio. Sudava, si sentiva mancare, eppure persisteva: diceva che era il cambio di stagione, qualcosa che aveva mangiato, una carenza di vitamine.
Aveva tredici anni, Jesse, solo tredici anni.
A tredici anni era bello come non sarebbe mai più stato, con i cirri biondi a decorargli il capo e il volto splendente, le sopracciglia folte, il naso dritto, la faccia sporcata dai primi brufoli.
A tredici anni non sai quasi niente della vita, ti ci infili dentro pian piano, come un filo sottile nel buco di un ago.
A tredici anni Jesse dovette scoprire l'orrore della malattia, il giorno in cui perse i sensi mentre stavamo giocando a calcetto con gli altri vicini di casa, nel giardino del palazzo.
Era in piedi di fronte a me, stava per calciare la palla, e tutto d'un tratto crollò a terra, a faccia in giù, sull'erba incolta del prato.
Di quel giorno gli restò un incisivo scheggiato e la prima grande diagnosi della sua vita: leucemia promielocitica acuta.
Io avevo solo sette anni, non potevo capire.
Non comprendevo cosa stesse succedendo, udivo le urla disperate di mia madre e il pianto sconvolto di papà, vedevo i medici continuare a parlare, ma non ero in grado di comprendere.
Mi dissero che mio fratello era malato, che c'era qualcosa che non andava nel suo sangue. Che forse non sarebbe potuto rimanere al mio fianco ancora a lungo.
Il significato vero di quelle parole lo realizzai col tempo, col passare delle settimane prima e dei mesi poi.
Di giorno in giorno, gli veniva sottratto qualcosa.
Il colorito roseo della pelle.
L'appetito.
I capelli.
Le sopracciglia.
La forza di camminare e quella di giocare.
Conobbi un nuovo Jesse, così diverso dal fratello sano che ero abituata a vedere, talmente debole e gracile da non reggersi in piedi, distrutto da un dolore che non gli intaccava solo il corpo, gli organi interni, ma anche la mente. Si assottigliò tutto, ogni parte di lui divenne così magra da farlo apparire un cumulo di grissini dalla forma antropomorfa. Adesso non aveva più la forza di prendermi in braccio e di farmi volteggiare nell'aria, non riusciva più arrampicarsi con me sugli alberi e io non potevo più saltargli addosso mentre dormiva per farlo spaventare.
Una volta, su un articolo di giornale, lessi la teoria secondo cui l'uomo è l'animale più evoluto non tanto per la sua intelligenza, quanto per la sua adattabilità. Perché è in grado di accettare il cambiamento e modificarsi di conseguenza: come una persona che perde tutto d'un tratto la gamba e impara a vivere con una sola.
E così eravamo io e Jesse. La malattia era l'amputazione che aveva subito, io la protesi con cui imparò a modellarsi a quella nuova realtà.
La prima volta che vomitò a causa della chemio, fu qualche mese dopo la diagnosi. Eravamo sul divano del soggiorno, tutti quanti insieme, e lui aveva appena iniziato a perdere i capelli. Era seduto al mio fianco, stavamo parlando di qualcosa che non ricordo, probabilmente una sciocchezza, una delle sue tante battute, quando d'improvviso si sollevò in piedi e iniziò a correre verso il bagno.
Ma non fece in tempo.
Arrivò a metà sala e buttò fuori tutto quanto mettendosi a cavalcioni per terra. A spaventarmi però non fu il vomito in sé, quanto il modo in cui lo espulse: come se stesse cercando di far uscir fuori dalla bocca anche le budella, talmente gli facevano male. I versi che emetteva erano mostruosi, animaleschi, e nel sentirli mamma scoppiò in un pianto così disperato da coprirli coi suoi singhiozzi.
Fui io la prima a raggiungerlo, sebbene fossi solo una bambina. Gli carezzai la schiena per tutto il tempo e lui mi strinse la mano mentre continuava a vomitare. La strinse con così tanta forza che le dita iniziarono a farmi male, ma non dissi niente. Trattenni le lacrime e la paura e continuai ad accarezzarlo. Ricordo che pensai che quella stretta di mano era il motivo per cui ero venuta al mondo, l'unico vincolo che mi legasse ancora alla realtà.
La tragedia più grande del vedere una persona che ami morire lentamente non è, come si crede, la semplice consapevolezza che la perderai per sempre, no: è il senso di colpa che ti prende al petto e non ti lascia più andare, come due mani che ti strizzano i polmoni fino a farli scoppiare, il tormento di essere sani e di non poter scambiare la propria salute con la sua malattia.
Non è la sua morte prossima, è la sua sopravvivenza agonizzante.
Gli ematomi, le siringhe, l'odore di medicinale che diventa parte di te, le pillole, le notti insonni, i camici bianchi dei dottori e quelli azzurri degli infermieri, le numerose ricette da portare in farmacia, gli occhi afflitti di chi sa ma non osa chiedere.
Il silenzio e la sterilità della terapia intensiva, o i pianti continui che scandiscono il tempo nel reparto di oncologia. Le lunghe attese davanti allo studio di un ennesimo specialista, la speranza che inesorabile nasce ad ogni piccolo miglioramento e che subito dopo muore in atroci sofferenze non appena la realtà torna a rivoltartisi contro.
Il suo viso scheletrico, le labbra esangui, le mille operazioni a cui si sottopone nella speranza che gli diano qualche giorno in più da vivere. L'effluvio di urina e feci mescolate insieme, i suoi occhi che anche se ti fissano più non ti vedono, ebbri degli antidolorifici che oltre alla sofferenza strappano via anche il pensiero.
Essergli accanto, ma non poter fare nulla. Non poter entrare dentro il suo corpo e combattere in prima persona contro quel male che lo vuole cancellare per sempre.
Amarlo ma non salvarlo.
La disperazione che ti agguanta la gola e che ti fa venir voglia di supplicare un Dio in cui neanche credi di smetterla, smettila, ti prego, che ne ho abbastanza, prenditi me, prenditi me che valgo meno di lui, che me lo merito, io, me lo merito, perciò ti prego, basta, uccidi me, non lui.
Ma soprattutto, non poter mai mostrarlo, perché sai che, se lo facessi, il dolore che lui prova si duplicherebbe.
Imparai presto a nascondere.
A gettare tutte quelle cose negli abissi dell'animo, seppellirle in un'oscurità stagnante da cui non avrebbero potuto riemergere.
A fare la sola cosa che potevo: prendermi cura di lui, anche se nel farlo ero costretta a vedere sempre più a fondo il suo dolore. Ed era come mettere i punti a un taglio profondo per poi riaprirlo di nuovo, rimettere i punti e riaprirlo di nuovo, rimetterli e riaprirlo, curare e sanguinare, così, senza sosta, in un ciclo di sofferenza e guarigione che non aveva sollievo.
Ma lo accettai.
Perché era Jesse, perché era mio fratello, perché era l'unica parte di me che avrei sempre amato.
Lui mi apparteneva come l'aria ai polmoni e l'anima alle emozioni, mi era dentro in un modo che non avrei saputo definire, come se la sua intera esistenza mi si fosse incastrata nel corpo e più non potessi né volessi levarla.
Era mio fratello, ma era anche qualcosa di più.
Insieme formavamo un'unica esistenza, insieme eravamo uno.
Un unico io.
«Non ti stanchi mai?» mi chiese un giorno, una delle rare volte che era potuto tornare a casa. Eravamo in bagno, lui era seduto sulla tazza del water e io gli stavo rasando i capelli appena ricresciuti.
«Di cosa?»
«Di me.»
«Tu ti stanchi mai del tuo cuore?»
«Poetica davvero, sorellina, ma non ci casco. Scommetto che è sfiancante dovermi stare sempre dietro.»
«Solo per il tuo pessimo carattere.»
«Ah-ah! Lo sapevo che lo avresti detto! Un punto per me!»
Ma non era una bugia.
Che lui lo credesse poetico o meno, Jesse era il mio cuore.
Il mio unico cuore.
Malato, affannato, glabro e deperito.
Ma il vero e solo motivo per cui il sangue ancora scorreva.
*
Il primo colpo me lo aspettai.
«Perché» iniziò Jesse.
La sua mano mi colpì sulla testa, al centro del capo.
«Non.»
Un altro colpo.
«Mi.»
Un altro ancora, più forte.
«Ascolti.»
L'ultimo, il più feroce.
«Mai.»
Eravamo nel cortile della clinica, stavamo passeggiando. Jesse indossava un paio di jeans strappati che gli cadevano larghi addosso e una camicia di lino gialla canarino. Camminavamo lungo la stradicciola di ghiaia bianca che attraversava tutto il giardino infiorato, a passo lento.
Mi portai una mano sul punto appena colpito, carezzandolo con le dita per far passare il dolore.
«Scusa» mormorai con un sorriso abbozzato.
Jesse sbuffò. «È inutile chiedere scusa, tanto lo so che non sei affatto pentita.»
Mi conosceva fin troppo bene.
Schioccò la lingua. «Ti avevo detto di stare lontana da Mr Bad Boy. È pericoloso, lo sai.» Mi puntò un dito sopra il petto, all'altezza del cuore. «Cosa avresti fatto se avesse preso a botte pure te?»
«Credo che lui colpisca solo chi lo attacca» risposi. «E io non l'ho fatto.»
«Hai detto bene: "credo". Non puoi basare la tua incolumità su una teoria. Che cosa c'è, vuoi morire prima tu di me? Mi dispiace, sorellina, il primato per la morte più tragica e strappalacrime mi apparterrà.» Gonfiò il petto con orgoglio. «Ripeti dopo di me: Io dico no al Bad Boy, sì al Tragic Boy.»
«E se fosse entrambe le cose?» suggerii, giusto per il gusto di pizzicare la sua curiosità innata.
Jesse si grattò il mento. «Potrebbe essere una supposizione fondata» ammise. «Ma comunque tu devi stargli alla larga. Non hai una tragedia già abbastanza grande nella tua vita?» Con aria fiera si indicò tutto quanto, e io gli diedi una gomitata sul costato.
«Ahia» si lamentò. «Tuttavia, devo dire che sono orgoglioso di te, sotto certi aspetti» aggiunse. «Hai aiutato una compagna in difficoltà e te ne sei assunta la responsabilità. Brava, sorellina.» Carezzò il punto che prima aveva colpito, spettinandomi i capelli, e la felicità che provai fu così genuina da farmi arrossire. «Ma dimmi la verità, è davvero così gnocca la tua nuova amica?»
«Tantissimo!» esclamai. «Sembra una modella da rivista.»
«Dannazione! L'invidia mi divora.»
Ridacchiammo e ci stringemmo la mano, e anche se odiavo ammetterlo, mi resi conto che le sue dita si erano fatte ancora più scheletriche. Sotto i polpastrelli riuscivo a sentire i contorni delle ossa, il fascio di nervi che si tendeva sottopelle.
«Jesse» lo chiamai. «Stai mangiando?»
L'angolo sinistro delle sue labbra ebbe un tic nervoso.
«Jesse» strinsi con più forza la mano, «mi avevi promesso che avresti mangiato.»
«E sto mantenendo la promessa» si difese subito, «solo che questa terapia ha il brutto difetto di farmi buttare fuori tutto quello che metto dentro.»
Spalancai la bocca per parlare, ma Jesse mi interruppe: «Il patto, Callisto.»
Certe volte avrei voluto odiarlo.
Detestavo la capacità con cui era in grado di ammutolirmi, la scaltrezza con cui modulava il tono di voce e le parole da dire, con la sicurezza che non avrei più potuto controbattere.
Il modo in cui sfruttava la propria malattia per incastrarmi nei suoi schemi e piani, per non dare spazio alla mia volontà che, seppur apprezzata, non voleva accogliere con sé.
Ma poi lo guardavo, guardavo il suo viso imberbe, gli occhi vedovi di ciglia, la fronte bianca, quello stupido cappellino all'uncinetto che indossava sempre per nascondere il capo calvo, e mi rendevo conto che per quanto mi sforzassi, ogni emozione d'astio nei suoi confronti finiva sempre per sfumarsi in amore. Come un'onda del mare che provava a fuggire sulla spiaggia, per poi venire riportata inevitabilmente nel cuore dell'oceano, così io ritornavo a lui, in un sentimento viscerale che ci vincolava l'uno all'altra, senza che ci fosse scampo.
«Scusami, sorellina» mi disse con sincerità, «ma stavolta non sono disposto a cedere.»
Sollevò le nostre mani unite e se le portò al petto. «Callisto» mi chiamò, un sorriso semplice, il suo sorriso semplice, come gioiello, «mi assicurerò che tu sarai felice anche dopo di me.»
Sentii gli occhi bruciarmi, ma scacciai quella sensazione sbattendo le palpebre più forte che potei.
Sollevai le labbra.
E non so proprio dire se a tremare fosse la mia mano o la sua o magari entrambe, non so dire che nome possedessero le emozioni che provai in quel momento, so solo che pensai a un mondo dopo di lui, a un mondo in cui non sarebbe mai più esistito Jesse Murray, mio fratello e amico, e mi sentii come deturpata dentro, come se tutti i miei organi si fossero staccati dai loro posti e avessero iniziato a vorticarmi all'interno in un uragano di secrezioni e sangue.
Ma mantenni la bocca all'insù, mantenni la calma.
«I risultati della terapia non sono buoni.»
La mia non era una domanda, e lo sapevamo entrambi. Cercavo solo l'ultima conferma nei suoi occhi, e la trovai nelle ombre che gli annerirono lo smeraldo delle iridi.
Jesse sbuffò e mi pizzicò il naso con la mano libera. «Ho ancora tempo, principessa ballerina, non ti preoccupare.»
Non mi sfuggì il modo in cui evitò di parlare di quanto tempo ancora.
«Riuscirò ad arrivare ai tuoi diciannove anni» continuò con tono sicuro, mentre riprendevamo a camminare. «Appena spegnerai l'ultima candelina, taaac! Morto, così potrai lamentarti per tutta la vita di essere stata traumatizzata dal tuo fratello stronzo che crepa proprio il giorno del tuo compleanno.»
Inarcai un sopracciglio. «Sarà questo il tuo regalo?»
«Nah, il mio regalo è top secret, non posso rivelarlo. Nemmeno la CIA sa cos'è.» Mi fece l'occhiolino.
«Spero non mi scadrai nel banale pacco di preservativi.»
«E con chi vorresti usarli? Con Mr Bad Boy? Vuoi che te li compri al gusto menta e tabacco, già che ci siamo?»
Scoppiai a ridere e il suo sorriso si fece più grande. Sciolse l'intreccio di dita e avvolse il braccio attorno alle mie spalle, tirandomi verso di sé, così che il mio volto gli finisse sul petto. Sentire il battito del suo cuore sotto l'orecchio fu come ascoltare una melodia sinfonica dopo tanti anni passati in mezzo alla rapsodia di rumori meccanici.
«Ti sta piacendo la scuola, Callisto?» mi domandò.
«È... interessante.»
«Non lo dici solo perché c'è Mr Bad Boy, vero?»
«Mr Bad Boy ed Eve la Gnocca» lo corressi, più per gioco che per sincerità.
«Giusto, giusto, allora te la potrei approvare.» La sua stretta si fece più forte. «Mandami una sua foto di nascosto, se ce la fai» mi sussurrò all'orecchio, sghignazzai.
Camminammo per qualche altro minuto senza più parlare, avvinghiati a vicenda. Il giardino dell'ospedale era davvero rigoglioso, con il prato che ti si distendeva davanti in un mare di smeraldo e fiori dai colori più variopinti che donavano nuove sfumature a quel paesaggio naturale. Arrivammo a una panchina e lì Jesse ci si sedette, affaticato. Io rimasi in piedi di fronte a lui.
«Callisto» mi chiamò, sistemandosi meglio il cappello azzurro, «mamma e papà ti hanno detto nulla?»
Sorrisi con forza.
«Nulla.»
Lui si fermò con l'indice ancora infilato tra la fronte e il bordo del cappello e mi guardò per qualche secondo.
«Ti chiamano?»
«Di tanto in tanto.»
«E cosa ti dicono?»
Non dimenticare qual è il tuo posto, non dimenticare chi è che sta veramente soffrendo in questa famiglia, chi dovrebbe godersi davvero la vita come invece stai facendo tu. Non dimenticare, piccola ingrata, non dimenticare mai. Non ti permetteremo di farlo. Te lo ricorderemo sempre. Ti ricorderemo sempre chi sei e perché non avresti mai dovuto esserci.
Sfoderai i denti. «Chiedono solo come me la cavo a scuola.»
«Non ti stanno dicendo nulla di cattivo?»
«Sono troppo preoccupati della tua nuova terapia per pensare a me.»
«Callisto» mi chiamò ancora, la voce severa, «mi stai mentendo?»
In certe occasioni credevo di avere il potere di sdoppiarmi.
Una parte di me usciva fuori dalla carne e si liberava nell'aria: era lo spettro delle mie emozioni che si metteva a gridare e battere i piedi per terra, strapparsi i capelli. Cercava in ogni modo di attirare la sua attenzione, di farsi sentire da lui che era tutto il suo mondo, lui che era l'unica persona da cui avrebbe mai voluto farsi consolare.
Ma immutato restava il corpo, immobile sul posto, paralizzato nella usuale espressione sorridente e cordiale. Era lui che impediva allo spettro di emergere, lui che lo soffocava e silenziava così che nessun orecchio al mondo potesse udirlo.
Ed eccomi lì, ora, davanti a lui.
A sorridere.
«No.»
A mentire.
«Lo sai che non so dirti bugie, Jesse.»
A soffrire.
*
La mattina dopo, di fronte ai cancelli d'ingresso della scuola, trovai Eve in piedi, appostata all'angolo, con le braccia conserte al petto. Indossava un vestitino a pois bianco e nero che le stava divinamente, le fasciava il corpo esaltando la magnificenza del fisico statuario e la bellezza delle gambe nude; un paio di cerchietti dorati le dondolavano dalle orecchie.
Mi riconobbe tra gli altri studenti in arrivo e un sorriso genuino le tagliò le labbra carnose. Mi venne incontro a passo veloce, reggendo su una sola spalla lo zaino bianco. «Ciao» mi salutò non appena mi raggiunse, e per qualche secondo io rimasi bloccata sul posto, ibernata.
Mi aveva appena salutato?
Era me che stava aspettando, là ai cancelli?
Me?
Quella consapevolezza mi portò ad arrossire inesorabilmente. Da quanto tempo... Da quanto tempo qualcuno non attendeva il mio arrivo? Da quanto tempo qualcuno non mi sorrideva solo accorgendosi che ero lì?
Sorrisi, ingabbiai quei pensieri dentro la testa e nascosi nell'oscurità le chiavi delle loro prigioni.
«Ciao» risposi. «Mi stavi aspettando?»
«Sì.»
Ero contenta di possedere una maschera inviolabile in faccia, il mio sorriso, perché avrei provato solo vergogna se si fosse accorta di quanto il cuore mi stesse dolendo tant'era la felicità che provavo.
«Non dovevo?» Sobbalzò, si portò le mani sulle guance. «Oddio, non dovevo, vero? Sembro una stalker così. Mi dispiace, non volevo inquietarti.»
La sua reazione d'ansia mi stupì e, quasi crudelmente, mi portò a ridere. A vederla com'era, così bella e perfetta, c'era da pensare che possedesse un carattere calmo e pacifico, sicuro di sé. E invece eccola lì, di fronte a me, che andava in panico per il più piccolo gesto. Un'imperfezione che la rendeva ancora più magnifica ai miei occhi.
«Non mi hai inquietata. Se proprio devo essere sincera, mi inquieta il fatto che tu abbia il coraggio di indossare un vestito mentre hai il ciclo. Io non ci riuscirei mai» confessai con imbarazzo. «Quando mi arriva, devo vestirmi come una vecchia ottantenne con la passione per i pantaloni a vita alta.»
Sghignazzò. «In realtà io lo trovo più comodo» disse, «dovresti provare anche tu, pian piano ti ci abitui.»
Iniziammo a percorrere la strada per raggiungere le vetrate d'ingresso, facendoci largo tra gli studenti. Eve era al mio fianco, e, con il rossore a imporporarle le guance, mi parlava timidamente. «Indossi spesso i vestiti?»
Ci riflettei su. «No» ammisi. «Credo di averlo indossato l'ultima volta a dodici anni.»
Spalancò la bocca, sconvolta. «Perché? Non ti piacciono?»
«No, è che-»
I vestiti.
I miei vestiti sbrindellati per terra.
I loro tessuti squarciati come budella. Lembi appassiti al suolo, come viscere stracciate.
Le forbici ancora strette tra le mani di mia madre.
Il suo sguardo furibondo, la sua ira.
«È che non ho molte occasioni per indossarli.»
«Non hai bisogno di un'occasione! Il mio motto di vita è: se lo vuoi, lo indossi!» Superammo l'ingresso e ci avviammo verso i corridoi degli armadietti. «Saresti super carina con un vestito! Pesca! Color pesca! Ti starebbe d'incanto!» Mi guardò con serietà, e quel suo genuino interesse mi portò a sorridere ancora di più. «Con il tuo taglio di capelli, sembreresti una ragazza di classe e vintage.»
«Te ne intendi di moda?» domandai.
Eve ci rifletté su. «Non direi che me ne intendo, più che altro ci ho molto a che fare per il mio lavoro.»
«Lavori?»
«Faccio la modella» mi spiegò, e quell'informazione non mi stupì affatto. Con l'aspetto e il corpo che aveva, era davvero perfetta per quella professione. Sfilò il cellulare dalla tasca e, dopo averci cliccato su per qualche secondo, mi mostrò lo schermo. «Ecco, guarda, queste sono alcune foto del set.»
Presi il telefono tra le mani e guardai sconvolta l'immagine. Dio mio, se non era bella. Il tocco professionale dei truccatori e dei fotografi la rendeva sublime, ogni capo che indossava nelle varie foto le stava a pennello e ti faceva desiderare di comprarlo solo per assomigliarle un pochino.
Sembrava una persona completamente diversa da quello schermo: aveva degli occhi fermi e decisi, un'espressione impassibile, quasi di superiorità. A vederla si sarebbe potuto pensare che fosse un'imperatrice.
«Ora la mia invidia è salita da mille a diecimila» confessai, mentre continuavo a sfogliare. «Da quanto lo fai?» le riporsi il telefono, lei lo prese e lo rimise nella tasca dello zaino.
«Da che avevo quattro anni» rispose, e io inarcai le sopracciglia. «I miei genitori hanno iniziato a farmi fare la modella per abiti per bambini e da lì non ho mai smesso.»
Non riuscivo a immaginarmi che genere di vita avesse condotto con quello stile di vita, ma questo spiegava la sicurezza con cui camminava, l'andatura perfetta e la schiena sempre dritta. Camminava sulla passerella da che ne aveva memoria, era un'abitudine che non poteva più scollarsi di dosso neanche a volerlo.
«Tu hai mai lavorato?» chiese a quel punto, quando eravamo arrivati ai nostri rispettivi armadietti.
Scossi la testa. «Dovevo» prendermi cura di mio fratello «pensare a molte altre cose.»
«Rosso!» Schioccò le dita nella mia direzione. «Anche il rosso ti starebbe benissimo!»
«Fammi indovinare: per tutto questo tempo non hai fatto altro che pensare a quali colori mi stessero meglio, vero?»
Lei annuì con aria colpevole. «È un mio grande difetto: quando vedo una persona, mi piace immaginarla con vari abiti addosso. Con le mie vecchie amiche...» Si fermò di colpo. Si schiarì la gola. «Prima ero solita portare a fare shopping chiunque conoscessi. Tu non sarai esente da ciò.»
«Oh no» mormorai con tono ironico.
«Oh sì» mi si avvicinò e mi studiò dalla testa ai piedi, «anche se approvo la tua passione per Crystal Ballerina» aggiunse poi, indicando la mia maglietta nera con l'immagine di Pou che ruotava la sua bacchetta magica.
Sentii l'euforia travolgermi. «La conosci? Davvero?»
«Certo che la conosco, ne ero ossessionata da bambina.»
Cercai di darmi un contegno, ma dentro di me sentivo centinaia di fuochi d'artificio esplodere felici. Crystal Ballerina era un cartone piuttosto vecchio, che aveva avuto successo con i ragazzi dell'età di Jesse, non con i miei coetanei. Trovare qualcuno che lo conoscesse e addirittura lo apprezzasse era un'impresa, per me. «Qual è il tuo episodio preferito?» domandai all'istante, sporgendomi verso di lei con curiosità.
«Quello in cui il padre di Crystal si sta dando all'alcool per via del divorzio, ma-»
«Quando vede Crystal ballare e sorridere, si ricorda chi è che ama di più al mondo!» conclusi con uno squittio.
Eve scoppiò a ridere. «Hai delle stelle al posto degli occhi, adesso, ti piace così tanto?»
«Assolutamente sì! È un cartone semplicemente perfetto! Se non ti piace Crystal Ballerina, devi essere una persona orribile.» Misi i libri all'interno dell'armadietto.
«Hai uno strano modo di valutare le persone» dichiarò.
«Tu le vesti con lo sguardo, cosa dovresti dire?»
Scoppiò a ridere. «Un punto per te.»
«E uno per te perché ti piace Crystal.»
«Un po' me la ricordi, sai?» commentò, richiudendo l'anta dopo aver preso i libri necessari. «Sorridi sempre anche tu.»
«Il mio motto di vita è: il vero potere è far sbocciare il sorriso con una lacrima.»
«Il tuo motto di vita è la sigla di un cartone animato?»
«Certo, perché? Il tuo parla di vestiti.»
«Sai proprio come rispondere, non c'è che dire.»
«Mi avevi detto di starti lontana, ma forse sei tu che dovresti farlo: sono una pessima amica. Ti invidio ferocemente per la tua bellezza e critico i tuoi motti di vita.»
Eve ridacchiò. «Non lo so, in qualche modo inizio a pensare che queste siano qualità.»
Era così strano. Non sapevo di poter parlare in quel modo con le persone. Era la prima volta che avevo un battibecco così divertente con qualcuno che non fosse mio fratello. Credevo di essere sul punto di avere un infarto: il cuore batteva talmente tanto per la felicità che lo sentivo quasi incrinarmi le costole ed esplodermi nelle orecchie. Non ricordavo che chiacchierare con un'amica potesse essere così bello. Era diverso rispetto a quando lo facevo con Jesse, perché per quanto lo amassi, con lui era sempre una partita a scacchi in cui dovevo fare attenzione alle prossime mosse per evitare che scoprisse, che il suo scacco matto ci rovinasse per sempre.
Con Eve invece era un semplice sproloquio di battute e commenti, uno scambio di interessi che non risultava mai ripetitivo o estremo.
Detestavo ammetterlo, ma quella realtà mi era mancata come al torrente manca la pioggia in estate, la ricordavo solo vagamente nei tempi in cui andavo ancora alle elementari, quelle piccole amicizie che avevo formato e che all'epoca mi sembravano legami di sangue densi e duraturi che nessuno avrebbe potuto spezzare.
Mi era mancata la sensazione di poter essere semplicemente me stessa e sentirmi accettata anche da occhi che prima mi erano estranei, la banalità di una giornata di scuola che scorreva più facilmente grazie alla sola presenza di un'altra persona.
Per quasi tutta la vita non avevo fatto altro che osservare e comprendere Jesse con il microscopio, senza mai distogliere lo sguardo da esso. Analizzavo ogni più piccolo dettaglio di mio fratello, ogni minuscolo cambiamento, come uno scienziato lo studiavo per poter individuare subito quel che cambiava e quel che appassiva.
Ma ora che quel microscopio mi era stato tolto, mi rendevo conto della bellezza che si poteva scorgere anche ad occhio nudo, nel mondo al di fuori di mio fratello. Percepivo quella consapevolezza come un arpione allo stomaco, e se da un lato generava in me eccitazione e frenesia, dall'altro mi provocava un senso di colpa così devastante da farmi venir voglia di scappare via.
Mi rendevo conto che tutto quello che stavo vivendo e sperimentando sarebbe rimasto solo un sogno per lui, un desiderio inesaudito fino alla fine; che mentre io ero lì, a chiacchierare con Eve e a sentirmi di nuovo me stessa, lui si ammalava ogni giorno di più in quella stanza d'ospedale, da solo, con l'unica compagnia del personale sanitario che sì, si prendeva cura di lui, ma certo non poteva averlo a cuore come me.
Tutto quello che avevo fatto nella mia vita era per Jesse.
Sopportare, sorridere, curare.
Mentire.
Le mie mani, i miei piedi, la mia bocca, gli occhi, i capelli, le risate, persino le ciglia... ogni cosa l'avevo dedicata solo e soltanto a lui.
Non era stata una scelta, all'inizio, ma una necessità per sopravvivere, un bisogno che poi si era trasformato in desiderio, un desiderio che si era poi trasformato in verità assoluta.
Nell'inverno del mio mondo in cui a circondarmi era solo la brina gelata dell'ira e della crudeltà, Jesse era il mio sole, l'unico grazie a cui riuscivo a riottenere i colori della primavera, il profumo dei fiori, il calore miracoloso di un semplice abbraccio.
Lui era la genesi della mia anima, l'essenza del respiro stesso.
Non riuscivo a concepire un'esistenza in cui qualcosa di mio non gli appartenesse a sua volta, il solo pensiero mi donava la nausea, eppure al tempo stesso non potevo fare a meno di pregare, codarda, che si realizzasse.
Io non lo so, se quando mi aveva ordinato di farmi degli amici, sapeva già quello che avrei provato. Probabilmente sì, probabilmente se lo aspettava; non era stupido, mio fratello, mi conosceva con la stessa identica ossessione con cui io conoscevo lui, ci eravamo sventrati a vicenda per guardarci dentro nel corso degli anni.
Ma forse non immaginava, oh no, non immaginava proprio quanto doloroso fosse per me condurre quella nuova vita, quanto feroce fosse il senso di colpa che mi perforava la pancia e mi faceva pensare che qualcuno stesse cercando di tirar fuori lo stomaco con un cavatappi.
Guardavo Eve che chiacchierava felice con me e mi dividevo in due: tra la parte che desiderava continuare quella nuova avventura e l'altra che invece voleva solo tornare a quella stanza d'ospedale, a stringere le mani di Jesse.
Ma continuai a sorridere.
È il mio ultimo desiderio, Callisto.
Tutto quello che avevo fatto nella mia vita era per Jesse.
E sarebbe andato avanti così.
Anche se farlo avrebbe significato annientarmi.
*
Quel giorno io ed Eve non condividevamo l'ora di pranzo, perciò fui costretta di nuovo a passare l'ora da sola. Per sicurezza il giorno prima, uscita dalla clinica, mi ero andata a comprare tre tranci di pizza che avevo messo da parte in previsione del domani.
Mangiare in mensa era ancora fuori discussione, non ero abbastanza coraggiosa per sentirmi addosso la gogna sociale dell'adolescente senza amici che pranza senza compagnia a un tavolino abbandonato all'angolo della stanza. Così, decisi che avrei consumato quelle pizze nel cortile della scuola. Era anche un modo per schiarirsi le idee e non pensare al senso di colpa che ancora adesso si cibava goloso dello stomaco.
Il giardino della scuola era davvero ampio e spazioso, possedeva un'ottima manutenzione e una palestra esterna adibita anche a campo da calcio in cui i ragazzi si divertivano a giocare durante la pausa.
Puntai a un albero di quercia che si trovava proprio in fondo ad essa, e per raggiungerlo dovetti attraversarla stando bene attenta a rimanere lungo il bordo, per non disturbare gli studenti che si stavano allenando. I loro schiamazzi felici mi provocavano nostalgia, mi ricordavano Jesse, il Jesse Pre Cancro che pochi avevano avuto occasione di conoscere. Lui amava quello sport, trovava sempre l'occasione buona per prendere il pallone e giocare con gli amici.
Mi invitava sempre, ogni volta, anche se ero molto più piccola di loro e non avrei reso le partite divertenti come desideravano.
Ma lui lo faceva lo stesso.
Mi affiorò alla mente il ricordo del suo ultimo giorno felice, i capelli biondi che gli scivolavano sul viso come filigrana arricciata, gli occhi verdi orfani delle ombre della malattia, il sorriso spensierato che mai più sarebbe stato in grado di riprodurre.
Udii qualcosa da lontano, una voce che urlò qualcosa di cui non compresi il significato, presa com'ero a rievocare quell'immagine, e tutto d'un tratto sentii una mano afferrarmi il retro del colletto della maglia e tirarmi all'indietro.
Mi sbilanciai alle mie spalle, iniziai a cascare come un tassello di domino, con i piedi ben piantati per terra sullo stesso punto e il resto del corpo che volava senza più presa, ma quando pensai di star per sfracellarmi, la mia testa atterrò su qualcosa, un muro di cemento che bloccò la caduta.
Un oggetto indistinto mi sfrecciò davanti a mezz'aria, a una velocità folle, per poi schiantarsi contro la rete che circondava il campo. Quando toccò il suolo, mi resi conto che era il pallone da calcio che i ragazzi stavano usando.
«Tu» mi ringhiò il muro con una ferocia che riconobbi subito, «sei decisamente stupida.»
Sollevai gli occhi e lì lo ritrovai, Ruben, la parete che mi aveva tirato indietro, salvato dal pallone e su cui ora mi stavo poggiando in obliquo. Non saprei descrivere la sua faccia, ma sono sicura che, in quel momento, stesse davvero contemplando l'idea di uccidermi, tant'erano incattiviti i suoi occhi. A guardarlo dal basso, il suo volto adombrato trasmetteva ancor più fascino e mistero del solito, sembrava che le tenebre si divertissero a scolpirlo per rendere i suoi tratti ancora più spigolosi e profondi.
«Ehi, stai bene?» Uno dei ragazzi che stava giocando ci raggiunse affannato. «Ti sei fatta male? Ho provato ad avvisarti, ma non mi hai sentito.»
Mi rimisi in piedi con compostezza, sistemai le ciocche della frangia che mi erano finite sopra gli occhi e sorrisi. «Sto bene, non ti preoccupare, è colpa mia, ero distratta.»
Il ragazzo si scusò di nuovo, prima di riprendere il pallone e tornare a giocare con i suoi compagni.
«Grazie» dissi poi, rivolgendomi a Ruben. «Adesso siamo pari.»
Lui aggrottò la fronte. «A cosa ti riferisci?»
«Ti sentivi in debito con me, vero? Per questo mi hai aiutata.» Lasciai cadere le mani sul grembo e ne strinsi tra loro le dita. «Non avresti avuto altri motivi per farlo, altrimenti.»
Quel giorno di nuovo non aveva lividi evidenti, ma ero certa che li nascondesse tutti dietro la maglia azzurra a maniche lunghe e i pantaloni neri. Solo a vederlo, in quell'estate, mi sentivo morire di caldo, ma supposi che per lui fosse l'unica soluzione per non finire nei guai con la scuola.
«Io» dichiarò freddo, «non mi sono mai sentito in debito con te.»
«Allora perché mi hai aiutato?» La mia domanda era genuina, ma lui sembrò prenderla come una provocazione. Strinse la mascella e le labbra, il suo intero corpo si irrigidì, come a voler trasformare i muscoli in marmo. Decisi di non proseguire oltre con quel quesito, era evidente che lui stesso non voleva sapere o non conosceva la risposta. «Ti va un po' di pizza?»
Mi guardò impassibile.
«In verità, ne ho comprata troppa e non riuscirei mai a mangiarla tutta da sola. Eve non c'è, perciò posso chiederlo solo a te.»
«Che sia chiaro» mi interruppe, «noi due non siamo amici.»
«No che non lo siamo» concordai a mia volta con voce acuta. «Se fossimo amici non ti avrei mai dato la pizza, ti avrei chiesto di andare a pranzare insieme alla mensa scolastica.» Il suo sopracciglio sinistro si inarcò. «Mangiare insieme alla mensa è una specie di cerimonia di iniziazione per l'amicizia, non lo sai?»
«Pensi prima di parlare o è direttamente la bocca che butta fuori le stronzate che dici?»
Feci spallucce e uscii fuori il mio miglior sorriso. «Ti do la pizza per ringraziarti del salvataggio, allora, vedila così.»
In mano non aveva niente e sulle spalle non reggeva uno zaino, questo significava che non possedeva cibo con sé, e se era lì, voleva dire che non aveva a sua volta intenzione di andare in mensa. Aprì le labbra: «Tu-»
«Andiamo sotto quell'albero!» Lo indicai, fuori dalla rete. «Mangiare sotto un albero mi rende nostalgica, lo facevo sempre con mio fratello, quando ero bambina.»
Iniziai a incamminarmi senza aspettarlo, canticchiando la sigla di Crystal Ballerina, e stranamente non mi sorpresi quando udii il rumore dei suoi passi accompagnare quello dei miei.
Raggiungemmo la quercia dopo un paio di minuti e io mi sedetti alla base del tronco, poggiando la schiena contro quest'ultimo, con un grosso sospiro di soddisfazione. Ruben rimase in piedi, invece, a guardarmi. Mi mangiava con gli occhi, mi sbranava, stava cercando di capire anche la più piccola delle mie intenzioni, si preparava a un eventuale attacco con cui avrei potuto danneggiarlo. Era sempre in uno stato di estrema ansia e tensione, quasi fosse certo che in qualsiasi momento dall'ombra avrebbe potuto sbucare un mostro feroce pronto a colpirlo; non respirava mai con calma, si tendeva ad ogni boccata d'aria, tutti i suoi nervi si contraevano e contraevano e contraevano, senza mai un attimo di tregua.
Mi domandai che razza di vita dovesse aver avuto, per comportarsi così. Quali ferite e cicatrici lo avevano indotto a considerare un nemico ogni creatura umana e non che lo circondava. Non doveva essere bello, il suo mondo, non doveva essere piacevole possedere degli occhi che trasformavano ogni presenza attorno in fauci pronte a sbranarti. In qualche modo, quel pensiero mi rattristava.
Presi lo zaino dal mio fianco e tirai fuori la busta contenente i tranci di pizza margherita. Ne presi uno e glielo porsi: «Tieni, e sta' tranquillo, non ci ho messo del veleno. Vuoi che lo assaggi prima io, così che puoi star sicuro?»
«La tua ironia è fastidiosa.»
Inclinai la testa, confusa. «Ma io ero seria.»
Inspirò con forza, forse per trattenersi dall'imprecarmi contro, e mi strappò di mano il trancio senza aggiungere altro.
Sorrisi felice e ne presi uno anche per me.
Era già un notevole miglioramento, però. Mi aveva seguito. Aveva accettato il mio cibo. Ora che ci riflettevo, era davvero come un animale. Un gatto randagio che non si faceva toccare da nessuno e graffiava chiunque gli si avvicinasse. Quando vedevi che accettava il mangiare che gli davi, solo allora capivi di aver fatto un passo in avanti.
Quel pensiero mi fece ridere in silenzio, mentre addentavo un pezzo dalla pizza.
«Cos'hai da ridere?» domandò.
«Sei divertente» gli risposi sincera, e subito l'ira gli scartavetrò gli occhi, mi affrettai ad aggiungere: «Divertente in un modo bello.»
«In un modo bello?»
«Quando sono con te rido davvero.» Presi un altro morso, inghiottii e ripresi a parlare: «Non mi capita spesso di farlo, perciò sono contenta. Mi rendi felice.»
Mi aspettai si offendesse come al suo solito, invece maliardo dichiarò: «Quindi tu stessa ammetti di essere falsa.»
Incrociai le gambe sull'erba tosata e ci pensai un po'. «Non è falsità, è speranza.»
Mi guardò in silenzio, in attesa che continuassi a spiegare.
Rigirai la pizza tra le dita, fissandone la mozzarella raffreddata. «Ti dici che a furia di sorridere sempre, un giorno quel sorriso sarà tuo veramente, sarà vero. È una scommessa che fai con te stesso.»
«È una manipolazione» mi corresse, «un lavaggio del cervello.»
Non l'avevo mai vista da quella prospettiva, ma non potevo criticarlo, sotto sotto forse aveva quasi ragione.
«Allora si può dire che io sono la peggior nemica di me stessa. Ma forse è così per tutti, in realtà.» Diedi un altro morso. «In un episodio di Crystal Ballerina, Crystal deve ballare per sé stessa per ricordarsi che anche lei ha bisogno della felicità, e-»
«Non mi interessa.»
Il discorso si chiuse così, in un istante. Mi strinsi un'altra volta nelle spalle e continuai a mangiare la mia pizza in silenzio. Ruben mi osservò tutto il tempo, senza toccare la sua, studiandomi come un collezionista con il suo esemplare preferito. Forse avrei dovuto imbarazzarmi sotto quell'attenta indagine, ma non ci riuscii, in qualche modo, al contrario, riuscivo a capirlo, perché ero divorata dalla stessa curiosità nei suoi confronti.
Sollevai il capo e ricambiai l'analisi, sfacciatamente. La mia ricerca puntava principalmente alla scoperta di qualche nuovo ematoma che magari non era stato nascosto bene, ma stavolta era stato davvero attento, gran parte della pelle era debitamente coperta. Riuscivo a guardargli solo il volto e le mani, il contrasto tra ghiaccio e oscurità nell'eterocromia degli occhi.
Era strano, singolare, quel fenomeno che si stava creando tra noi due. Non eravamo che due sconosciuti, due semplici studenti che casualmente si erano ritrovati vicini di stanza, eppure percepivo con intensità la consapevolezza che riuscissimo a individuare l'uno all'altra tutti quei sottili meccanismi con cui avevamo imparato a compensare alle atrocità della vita.
Jesse mi aveva detto di fare attenzione a lui, di stargli alla larga, e aveva ragione. Sapevo di star facendo la cosa sbagliata, sapevo di non star facendo la cosa sana, ma a dirla tutta non mi interessava più essere nel giusto. Perché quando lo vedevo io non scorgevo soltanto quella rabbia con cui scansava il mondo, io trovavo in lui un terrore profondo di esser calpestato, di essere trattato come la spazzatura che in tanti lo definivano.
Assurdo, ma in quella sua ira io mi ritrovavo, la invidiavo a tal punto dal volerla rendere mia. Desideravo soltanto possedere a mia volta la libertà di vendicarmi di tutti gli sguardi di condanna che ricevevo ogni giorno.
E in qualche modo, per quanto sorridessi, sentivo che su di lui non avrebbe funzionato.
La maschera si disintegrava sotto i suoi occhi.
Nel perderla, provavo una libertà talmente immensa da farmi venire voglia di piangere.
Ma anche così, continuavo a indossarla.
«La tua faccia» disse, «non la sopporto.»
Rimasi in silenzio nel mio sorriso.
«Puoi trovare tutte le giustificazioni che vuoi, ma rimane il fatto che menti ad ogni respiro.»
Inspirai a fondo.
Annuii.
«Non sono una bella persona» ammisi senza problemi. «E tu non sei un bravo ragazzo.»
«Non mi paragonare a te.»
«Non è un paragone.» Allargai le labbra. «Tu non dici menzogne. Sono solo io che vorrei essere come te.»
«E perché mai?»
«Ognuno di noi ha una propria verità. Ognuno di noi può dirla o non dirla. E tu puoi.» Ridacchiai amaramente. «Io ancora no.»
Socchiuse gli occhi, mi scivolò dentro con lo sguardo, come un serpente sottopelle.
«Non mangi?» domandai a quel punto.
Ruben sbuffò, mormorò qualcosa di incomprensibile, e si portò il trancio alla bocca.
Risi.
Avrei voluto scattargli una foto e mostrarla a Jesse, perché in quel momento, così, a divorare una pizza, sembrava tutto tranne che un bad boy.
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