Figli di ciò che non si sa più amare
«Ti fa male?»
«Non ti preoccupare, Eve, brucia solo un po'» la rassicurai, mentre lei tamponava le mie sbucciature con ovatta pregna di disinfettante. Il suo sguardo era fisso sulle ferite, cercava di medicarle con una precisione quasi chirurgica, e la passione che metteva nel farlo mi fece sorridere. Era passato davvero tanto tempo dall'ultima volta che qualcuno si era preoccupato di curarmi.
«Non avresti dovuto farlo» la sentii dire. Ero seduta sul bordo del letto, e lei era al mio fianco. Mi sollevò il braccio per raggiungere il punto scrostato sul gomito e tamponarlo. «Non avresti potuto sapere come avrebbe reagito.»
«Non hai tutti i torti» ammisi. «Ma...» Esitai per un istante. «Non voglio essere quel genere di persona che volta le spalle alla sua amica solo per restare incolume.»
Eve richiuse le labbra, mi accorsi che le tremavano con forza. Mi domandai se per la paura di quello che avevamo appena vissuto o per la felicità provocata dalle mie parole. Nei suoi occhi scorgevo un rammarico che non sapevo interpretare, una sofferenza antica che le scioglieva lo sguardo, l'espressione dolente del viso.
«Sai» disse alla fine, la voce bassa, «un tempo io... avevo tante amiche.»
Mi prese l'altro braccio e iniziò a medicarlo, rifiutandosi di incrociare i miei occhi.
«Mi divertivo un mondo con loro» ammise, una risata amara a travolgerla, «ero l'unica del gruppo che lavorava, perciò ero sempre io quella che offriva durante le uscite e faceva regali. Non mi pesava affatto, lo ritenevo giusto, visto che loro potevano contare soltanto sulla paghetta mensile dei genitori.»
Intuii subito dove sarebbe andata a finire quella storia, ma la lasciai parlare.
«Un giorno scoprii che alle mie spalle si incontravano e sparlavano di me. Dicevano che l'unica cosa buona che avessi era il mio aspetto, e che l'unico motivo per cui mi frequentavano erano i soldi.» Rise forzatamente. «Dissero anche che non avrei mai potuto trovare una persona che mi amasse veramente, solo uomini che mi avrebbero cercato per il mio corpo.»
Non parlai, la ascoltai soltanto, consapevole del fatto che era l'unica cosa di cui aveva veramente bisogno.
«Quando le confrontai, mi risposero che dovevo aspettarmelo» continuò. «"Con l'aspetto da sgualdrina che hai, credi davvero che qualcuno voglia stare con te per altro?" furono le loro parole.» Si fermò con l'ovatta a un centimetro dalla mia ferita. «Da allora, mi sono detta che non mi sarei più fatta delle amiche, che sarei rimasta da sola.»
Posai una mano sulla sua coscia, in segno di conforto, Eve mi accennò un sorriso stentato. «E non lo so, forse in qualche modo le loro parole mi sono rimasse impresse, così impresse che alla fine ho iniziato a crederci.» Si strinse nelle spalle. «Non ho una personalità interessante, l'unico punto buono è il mio aspetto. Forse è anche per questo che ho iniziato a frequentare così tanti ragazzi. Forse credo davvero che l'unico affetto che merito è quello sessuale. Forse penso sul serio di essere una puttana.»
Riuscivo a sentire la sofferenza nella sua voce, la malinconia che le stracciava le vesti e le carni, inquinandole la luce negli occhi.
«Eve» la chiamai, «anche se fossi davvero una puttana, meriteresti comunque affetto.»
Mi guardò in un modo che non so descrivere a parole, gli occhi azzurri si erano trasformati in due laghi cristallini, lucidi dalle lacrime, il volto scavato pronto a contorcersi nella sofferenza. Il dolore che vidi nel suo sguardo fu così profondo da incidersi anche nel mio cuore.
«Solo perché hai un bel corpo e un bell'aspetto» proseguii, «non significa che tu sia un oggetto da usare e poi buttare via. Né che tu non abbia nient'altro che questo. Sono tua amica non perché sei figa, ma perché dalla prima volta che ti ho visto ho pensato subito di volerti conoscere di più.» Le sorrisi con dolcezza. «Perché sei sicura di te, fiera, perché mi aiuti a prendermi cura del mio aspetto anche quando non voglio, perché ridi alle mie battute e ne fai altrettante. Perché sei sempre stata sincera con me.» Sollevai ancor più le labbra, mostrando i denti, a occhi socchiusi. «Non è la tua bellezza a definirti, Eve, non sei una bambola.»
Eve si fermò, la mano stretta attorno alla nuvola di ovatta, grasse e calde lacrime scesero lene dai suoi occhi brillanti e le calcarono il viso distrutto dal sollievo e l'agonia. La bocca era squarciata in una smorfia di sofferenza, gli angoli in giù, tremanti, le labbra umide dal pianto.
«Non m'importa se frequenti tanti ragazzi» proseguii. «Ma se il motivo per cui lo fai è perché pensi che è l'unica forma di amore che puoi ricevere, allora voglio dirti di non preoccuparti.» Le presi la mano e la strinsi tra le mie. «Non ho mai avuto amiche, prima d'ora, ma sono sicura che posso darti affetto vero, lo giuro.»
«Dannata» balbettò lei, asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. «Com'è che con te finisco sempre per piangere?»
Sghignazzai, le asciugai le lacrime coi miei palmi. Lei le afferrò e chiuse gli occhi, singhiozzò senza più alcun imbarazzo, le sopracciglia aggrottate per lo sforzo. «Sai» balbettò alla fine, «so che suono come una persona viziata, ma certe volte detesto essere bella.»
Annuii, lasciandola sfogare.
«Le persone pensano solo a questo quando mi si rivolgono» proseguì. «E un sacco di ragazze mi detestano solo perché sono così, senza neanche avermi mai conosciuta.»
Mi strinse le mani con più forza.
«Non mi piace essere considerata la puttana della scuola» gracchiò. «Ed è vero, mi piace vestirmi bene, ma è una mia passione, non lo faccio per sentirmi superiore agli altri.»
«Lo so, Eve.»
Inspirò tremante, col fiato corto. Riaprì gli occhi azzurri, due smeraldi sommersi nell'alta marea. «E in realtà vorrei tanto degli amici sinceri» confessò a bassa voce, quasi vergognandosene. «Ma ho paura che le persone che incontrerò mi tradiranno alle spalle, com'è successo in passato.»
Le carezzai la testa, i morbidi capelli corvini. «Al mondo» mormorai, «esistono persone incredibilmente cattive» ammisi alla fine, mantenendo il mio sorriso, «sono persone che trovano soddisfazione solo nella sofferenza altrui, che non vogliono vedere colpe in sé stesse e perciò le attribuiscono agli altri.» Mi immaginai Jesse, il calore confortante della sua mano stretta alla mia, i suoi occhi dolci, delicati, con cui sapeva levigare il cuore da tutti i suoi supplizi. «Ma nascoste ai più, celate, ci sono anche anime sincere, capaci di donare sentimenti piuttosto che richiederli. Forse è difficile da credere, ma ci sono, esistono, e anche loro sono alla ricerca di qualcuno che sappia ricevere ciò che desiderano regalare.»
Un'altra lacrima cadde dall'occhio sciolto di Eve, nera a causa del trucco.
«Pian piano le incontrerai» le promisi. «Basta solo attendere. La felicità arriverà, io ci voglio credere.»
Volevo credere in un mondo diverso da quello in cui mi avevano ingabbiato, un mondo che non prevedeva punizioni e fascette di plastica, un universo in cui avrei potuto camminare libera senza render conto di niente, in cui avrei potuto smettere di sorridere e riversare nei cuori di altri tutti i segreti che mi tenevo dentro, tutte le parole che non avevo mai potuto pronunciare finora.
Eve mi strinse in un abbraccio, lasciandomi per qualche secondo attonita. Il calore era quasi asfissiante, non c'ero proprio abituata, mi sentivo fuori posto tra quelle braccia che erano così diverse da quelle di Jesse, così fragili.
Chiusi gli occhi, le carezzai la schiena, sorrisi.
Quel mondo non mi sembrava più così distante, ora.
*
Quel pomeriggio, dopo aver salutato Eve, che si era struccata e truccata di nuovo nel mio bagno prima di andarsene, decisi di trascorrere il mio tempo libero a fare i compiti di Storia e Geografia. Ero china sui libri, seduta alla scrivania, quando sentii bussare alla porta.
«Avanti.»
La direttrice del dormitorio mi si presentò davanti. Era una donna bassa e tarchiata, sulla sessantina, con un naso ricurvo e capelli brizzolati legati in una crocchia. Indossava un lungo abito nero e addosso aveva l'espressione severa di sempre, che non avresti mai saputo decifrare.
«Ci sono visite per te» disse con la solita voce fredda e impietrita di ogni giorno.
Per un istante, la speranza che si trattasse di Jesse mi riempì il cuore. Era l'unica persona che avrebbe mai veramente voluto venirmi a trovare; mi chiesi se la clinica gli avesse dato il permesso per uscire. Ma così non fu, tutto il desiderio che covavo dentro svanì all'istante, sostituito da un inverno glaciale che mi raffreddò tutte le vene e i battiti del cuore.
C'erano i miei genitori, sulla porta, i miei genitori che non vedevo da un bel po' di tempo. C'era mia madre, con la sua treccia bionda e gli occhi chiari, un abito elegante rosso dalla corta gonna. C'era mio padre, in giacca e cravatta, la faccia sputata alla mia, il ghigno di soddisfazione per avermi finalmente trovato.
Mantenni la compostezza, non mi lasciai andare al panico nonostante quella trappola. Conservai il sorriso a trentadue denti e mi alzai dalla sedia. «Mamma, papà» li salutai. «Ciao.»
Addosso avevano un'espressione serena, l'aspetto entusiasta di qualsiasi genitore che non vede il proprio figlio da tanto tempo, ma quando la direttrice se ne andò lasciandoci da soli dentro la stanza, l'espressione cambiò subito. I loro sguardi si fecero freddi, carichi di rancore, puntarono gli occhi su di me con lo stesso disprezzo che da quando ero piccola mi riservavano.
Sentivo il cuore pomparmi in gola, i capillari scoppiare per lo sforzo del sangue, e un gigantesco masso posarmisi sul petto. I sintomi di panico che provavo ogni volta che li vedevo insieme ritornarono feroci, ma con uno sforzo disumano li contenni e conservai la mia compostezza.
«Cosa-»
Mia madre mi superò, il ticchettio dei suoi tacchi rimbombò per tutta la camera. Si guardò attorno, analizzò ogni dettaglio della stanza: il letto, la scrivania, il mini frigo sotto il tavolo, il bagno. Sapevo che stava cercando qualsiasi cosa, qualsiasi scusa, per prendersela con me e così fu. Si avvicinò al mio poster di Crystal Ballerina, appeso sul muro, e con una mano lo strappò via, rovinandolo per sempre.
Sentii il cuore appassirmi mentre il sorriso mi fioriva in bocca, tenni le mani strette in grembo. Mamma afferrò dal mio portapenne tutte le matite colorate che collezionavo e iniziò a spezzarle una dopo l'altra. Il loro crack mi rimbalzò in testa, perforandomi le cervella.
Buttò a terra tutti i libri della scrivania, rovesciò i pupazzi che Jesse mi aveva fatto e ne afferrò uno, quello di Pou. Me lo alzò davanti alla faccia e a denti stretti disse: «È così che vivi, ora che ti sei liberata di tuo fratello? Così che lo ringrazi? Lui sta morendo, e tu te ne freghi divertendoti a più non posso!»
Non risposi, giurai a me stessa di non lasciare andare il sorriso neanche per un secondo. Strinsi con più forza le mani, fino a sentire le unghie recidere la carne.
«E ora non solo ti diverti alle sue spalle, ma ce lo metti persino contro!» tuonò, ma mi accorsi che, rispetto al solito, stava contenendo il suo tono di voce. Probabilmente non voleva essere sentita dal corridoio o la stanza accanto alla mia, quella di Ruben.
«Che cosa gli stai dicendo, Callisto?» domandò a quel punto mio padre, troneggiando su di me, gli occhi verdi che si fissavano nei miei. «Che cosa gli stai dicendo per metterlo contro a noi?»
«Io non gli ho detto niente, te lo posso-»
Non riuscii a finire la frase. Lo schiaffo giunse l'attimo stesso in cui pronunciai parola. Fu così forte e violento da rivoltarmi la testa e lasciarmi un dolore intenso su tutto il lato sinistro della faccia. Riuscivo a sentire la timbratura della sua mano, il dolore stridulo della fede che portava all'anulare e che mi aveva graffiato la pelle come un taglierino sulla carta.
«Non osare mentirci» dichiarò, il petto gonfio. «Jesse si rifiuta di parlarci, ogni volta che lo andiamo a trovare finge di dormire, non ci vuole neppure guardare in faccia. E tu sei la causa, non è così?»
Mi domandai che aspetto dovessi avere adesso, schiaffeggiata e sorridente. Ruben, senz'altro, avrebbe detto che sembravo una stupida, e aveva proprio ragione.
«Questa storia è cominciata da quando ha proposto il patto» continuò mamma. Si avvicinò a me e mi afferrò la cute dei capelli, tirandola con forza. «Da quando ha detto che avrebbe provato la terapia sperimentale solo se tu fossi andata a questa scuola. Gliel'hai proposto tu, non è così?»
«Io-»
«Volevi fare la bella vita» mi interruppe papà. «Volevi goderti la libertà senza di noi che ti mettiamo in riga ogni volta.»
«Papà» lo chiamai serafica, «Jesse non sa niente, te lo giuro.»
L'altro schiaffo, se possibile, fece persino più male del precedente. Colpì la parte ancora illesa del viso e ne gonfiò la carne, fino a farmi sentire tutta la faccia un gigantesco pallone da calcio. Sentii un rivolo di sangue cascarmi dalle narici e inumidirmi le labbra, e mi consolai col pensiero che in quel posto quello era il massimo che potevano farmi.
Mamma lasciò andare i miei capelli, fece un passo indietro. «Adesso tu andrai da tuo fratello» ordinò, «e gli dirai che noi non ti abbiamo mai fatto niente. Sono stata chiara?»
La guardai, guardai il suo volto magro, lungo, gli occhi scuri come i miei, e mi venne in mente il giorno in cui io e Jesse avevamo rischiato di annegare insieme in piscina. Jesse aveva avuto un crampo alla gamba mentre era sott'acqua e io avevo cercato di aiutarlo, ma entrambi avevamo finito col non riuscire più a risalire in superficie. Un bagnino era accorso per salvarci, e nostra madre aveva avuto addosso l'espressione più spaventata di sempre.
Per la prima volta avevo pensato che quella sofferenza in viso fosse per me, che si era spaventata al pensiero di perdermi.
E invece lei era corsa dritta da Jesse per abbracciarlo e scoppiare a piangere per il sollievo, lasciandomi da sola, accanto a lui, senza braccia da stringere per consolarmi.
Era lei, era sempre lei. Sapevo che qualunque cosa le avessi detto non mi avrebbe mai creduto. L'unico figlio che riteneva di avere era Jesse, io non ero che un errore, una creatura amorfa che non avrebbe mai dovuto incastrarsi nella sua vita.
Mi dispiace, mi aveva detto Jesse una volta, tra i singhiozzi, io non capisco perché mi amino così. Mi dispiace, Callisto, non voglio farti questo.
Dio solo sa quanto lo avevo detestato in quel momento, perché anche da bambina non avevo potuto che accettare il fatto che Jesse non avesse colpe. Che lui che riceveva tutto l'amore che io sognavo di avere non era in alcun modo responsabile per la mia situazione. E lo avevo odiato per non poterlo odiare, e mi ero odiata per odiarlo.
Mi dispiace, Callisto, perdonami.
Chiusi gli occhi, inspirai a fondo.
Sorrisi, imbrattata di sangue su tutta la faccia. «Okay» dissi, «parlerò con lui, lo convincerò a tornare a parlarvi.»
Questo sembrò calmare entrambi. Papà sputò a terra, proprio ai miei piedi. «Smettila di manipolare tuo fratello» dichiarò.
Annuii, non potevo fare altrimenti.
Mi accorsi solo in quel momento che papà reggeva in mano una strana busta di cartone. La rovistò dentro e dal suo internò ne tirò fuori un cofanetto quadrato nero, di quelli che si usano per i bracciali e le collane. Lo posò sulla mia scrivania con un sorriso viscido. «Aprilo appena ce ne andiamo» mi ordinò. «Ti aiuterà a ricordarti come comportarti anche mentre non ci siamo.»
«Va bene.» Un altro fiotto di sangue mi cadde dal naso e mi inzuppò la maglia bianca. Mai come allora sentivo tutti i bracciali pesarmi sulla pelle.
«Andiamo, tesoro» disse poi, rivolto a mamma, che gli si avvicinò e gli strinse la mano. «Comportati bene, Callisto.»
«Buona giornata» li salutai, e continuai a guardare la porta anche una volta che questa si richiuse e i loro passi in corridoio svanirono.
Non appena smisi di sentirli, corsi in bagno e mi gettai sul water.
Il vomito arrivò in un attimo, e io lo gettai fuori tra lamenti e contrazioni dello stomaco.
Era sempre così, sempre così, alla fine.
L'unico modo che avevo di espellere il dolore che sentivo era vomitandolo fuori insieme al resto.
*
Arrivò la notte fonda e io mi sentivo davvero sfinita. Avevo passato tutto il tempo sul gabinetto fino alle dieci di sera e adesso mi sentivo molto come quegli abiti che venivano messi nelle buste da cui poi si aspirava via tutta l'aria. Mi facevano male muscoli che non sapevo di avere e la faccia mi doleva ancora nonostante ci avessi premuto del ghiaccio contro per ore. Quando mi ero vista allo specchio, l'ultima volta, avevo ancora impresso sul lato sinistro l'impronta della mano di mio padre e della sua fede. Speravo che nell'oscurità, per lo meno, si vedesse poco o niente.
Alle tre, ero ancora in stato catatonico. Guardavo il mio telefono con la schermata ferma sulla mia conversazione con Jesse, e mi domandai in che modo avrei dovuto convincerlo a tornare a parlare con i nostri genitori.
Jesse non era mai andato matto per loro, questo lo sapevo bene, da che era bambino aveva sempre odiato la disparità di trattamento tra me e lui, ma l'odio che provava adesso non era spiegabile a parole. Era peggiorato radicalmente da qualche mese, da quando aveva proposto il patto.
Avrebbe accettato la terapia sperimentale, solo se io avessi frequentato quella scuola e i suoi dormitori.
Era stato un patto strano, che non mi aveva convinto affatto. Ora che era in fase terminale, aveva ancor più bisogno di me, allontanarmi così...
È il mio ultimo desiderio, Callisto.
Strinsi il telefono con più forza e mi massaggiai la tempia, mi misi a sedere sul materasso e iniziai a scrivere:
Ciao, Jesse, scusami se non sono potuta venire oggi. Sono successe tante cose. C'è una cosa che vorrei chiederti. Perché stai trattando così mamma e papà? Se è per me, non ti devi preoccupare. Ormai sono abituata, e non mi fanno più male i loro commenti. Ho te, non ho bisogno di altro. Ma sei pur sempre loro figlio, credo sia ingiusto che gli impedisci di parlarti, soprattutto ora che...
Non riuscii a terminare la frase. Ora che? Ora che cosa? Ora che la sua morte era più che mai prossima? Ora che non avevano più niente da perdere? Era una cosa così crudele da dire.
Ma quel che più mi turbava, quello che mi attanagliava davvero, erano i sensi di colpa che mi perseguitavano nella consapevolezza di tutte le bugie che gli stavo rifilando insieme. Sono abituata? Che menzogna orrenda! Credo sia ingiusto? Era il trattamento che più meritavano, perché era l'unico che potesse ferirli, ed io godevo nel sapere della loro sofferenza.
Bugiarda, bugiarda, bugiarda!
Cancellai il messaggio e tornai a sdraiarmi, le mani a coprirmi tutto il viso dolente, i respiri singhiozzanti.
Avrei voluto soltanto annegare nell'oscurità, sfibrarmi in essa fino a non esser più niente, dimenticare il mio nome e perdermi tra le ombre del mondo.
L'unica persona a cui avrei voluto rivelare tutto, Jesse, era anche l'unica a cui non potevo dire niente, e questa punizione era più che sufficiente per sentirmi distruggere dentro.
Uno squillo del telefono mi ridestò da quei pensieri. Guardai lo schermo, confusa. Ruben mi aveva scritto. Mi aveva scritto solo un punto interrogativo. Scoppiai a ridere. Era proprio da lui. Usare troppe parole avrebbe danneggiato la sua reputazione da bad boy incallito.
Mi sollevai dal letto e mi affacciai alla finestra, guardandomi intorno. Non c'era traccia di anima viva nel parco, e quando glielo scrissi, l'istante dopo sentii dei rumori provenire dal muro del dormitorio. Eccolo comparire tra le oscurità, saltando sulla quercia al fianco del muro e scivolando giù a terra sul prato.
Avanzò a passi decisi verso di me, calpestando l'erba con noncuranza.
«Hai visto che sono utile?» gli domandai scherzosamente, guadagnandomi così una sua occhiataccia. «Dove ti sei fatto male oggi?»
Nel buio non riuscivo a vederlo bene, ma mi sembrava che faticasse a muovere il braccio destro. Gli feci cenno di entrare mentre correvo a prendere la pomata del comodino e lui, seppur riluttante, obbedì.
Mi ero ormai abituata alla sua presenza dentro la mia stanza, ma quel giorno in particolar modo dovevo stare attenta affinché non mi vedesse bene sotto la luce. Non avrei saputo dargli una spiegazione sul rigonfiamento della mia faccia e l'impronta di una mano sul mio lato del viso.
«Non farlo mai più» dichiarò a gran voce a un certo punto, e io mi fermai a guardarlo perplessa, la pomata in mano.
Sorrisi confusa. «Non farlo mai più?» ripetei, e nell'oscurità vidi i suoi occhi luccicare d'ira. Mi ci volle qualche secondo per riuscire a capire. «Ti riferisci al bacio?» domandai, e la sua mascella si irrigidì. «Era solo un segno di ringraziamento.»
«Beh, risparmiatelo» tuonò con voce aspra.
Ridacchiai. Chi lo avrebbe mai detto, il temibile Ruben spaventato da un semplice bacio sulla guancia. Gli presi le braccia e controllai i lividi, sparpagliati su tutta la superficie come onde violette. Presi la crema e iniziai a spalmargliela. Lui rimase immobile, a cercare di osservarmi nell'oscurità. Era un bene che fosse così buio, non avrei saputo spiegare nulla delle mie condizioni.
«Hai una strana faccia, oggi, più strana del solito.»
Sentii tutti i nervi irrigidirsi, ma continuai a sorridere. «Sono ancora scossa dall'incontro con quella pazza.»
«Ti comporti in maniera strana.»
Non gli sfuggiva nulla. Era un tratto che gli apprezzavo molto, ma che in quel momento mi ostacolava.
«Sono la solita, irritante Callisto Murray di sempre.»
«Perché cerchi di nasconderti all'ombra?»
Così lo aveva notato. Smisi di spalmare la pomata sul suo braccio e mi costrinsi a sorridere. «Ho pianto per tutto il tempo e ora ho una faccia orribile» mi giustificai malamente. «Non voglio esser vista in queste condizioni.»
«Tu non piangi.»
Lo disse come se fosse una certezza, come se mi conoscesse così bene da sapere già dell'aridità di lacrime a cui mi costringevo ogni giorno. Sentii il sorriso vacillare, ma mi forzai a limarlo per renderlo il più convincente possibile. «Che considerazione crudele che hai di me» dichiarai invece con aria divertita. «Io piango spesso, in realtà.»
«Mi sembra di averti già detto quanto detesti le tue menzogne.»
Mi mossi in segreto, nel tentativo di far calare ancor più ombre sul lato sinistro del mio volto. Uno scintillio strano gli abbagliò l'occhio scuro, assottigliandogli le palpebre.
«Cos'hai sul viso?»
«Una vespa» buttai fuori con aria serafica, «mi ha punto in faccia. Sto facendo passare il gonfiore.»
Avanzò di un passo e io mi tradii subito, arretrai all'istante. Tanto bastò per smascherare la mia bugia. I suoi occhi erano fusi nei miei, e per un istante mi sembrò che ci fosse lui a respirare al mio posso, a nutrirsi dell'aria circostante bevendola e annaffiandomi il petto.
Tentai di voltarmi, ma nell'attimo stesso in cui ci provai lui fu su di me. Mi schiacciò contro la parete con un tonfo che si ripercosse su tutta la schiena. Mi intrappolò nel suo corpo, le braccia ai lati della mia testa, sbarre infrangibili, il suo respiro che mi alitava sulla punta del naso.
Da quella posizione, la luce del bagno ancora accesa ci raggiungeva e mi inondò il volto. Gli occhi di Ruben ebbero uno scatto improvviso, di pura sorpresa.
«Le vespe» dichiarò con voce lugubre, profonda, macchiata dall'oscurità, «non lasciano impronte di mani sul viso. Chi è stato?»
Avevo ancora il sorriso stampato sulle labbra, e così vicina a lui faticavo a reggerlo; io lo guardavo e la verità che tenevo segreta dentro gridava e supplicava di uscire fuori, di essere finalmente liberata. La sentivo sobbalzarmi in petto, graffiare e lacerare tutto, divorare ogni scusa e giustificazione. Era certa che se si fosse rivelata a lui, lui avrebbe capito. Era certa che se si fosse mostrata a lui, lui non l'avrebbe derisa.
Ma c'erano catene da cui non potevo liberarmi, vincoli così forti che non riuscivo a lasciare andare, un fratello di cui volevo prendermi cura a tutti i costi, fino alla fine, fino al momento.
«Una discussione con un'altra ragazza» mi giustificai con una risatina. «Nulla di grave.»
«Quella» m'interruppe lui, «non è l'impronta di una donna.»
Chiusi le labbra sorridenti.
«Vuoi davvero convincere me che si è trattata di una semplice lite tra studentesse?» Un sorriso violento gli tagliò la bocca. «Mi credi così stupido?»
Ora che ci riflettevo, tra noi due la stupida ero sempre stata solo io.
«Passerà in fretta» dissi allora. La miglior fuga in quel momento era cambiare discorso. «Piuttosto, sai se-»
Un tonfo proveniente dalla scrivania mi bloccò. Entrambi ci voltammo per vedere cosa l'aveva provocato. Con immenso orrore, capii che si trattava del regalo dei miei genitori. Dovevamo averlo spostato accidentalmente sul bordo quando Ruben mi aveva schiacciato contro il muro.
La fortuna non mi assisteva quel giorno, perché il cofanetto si era aperto e ora mostrava il suo contenuto in bella vista per tutti.
E dentro c'era l'unico regalo che mai avrebbero potuto farmi i miei genitori.
Un paio di fascette di plastica bianche, legate a cerchio tra di loro, formando un infinito.
Sentii tutta l'aria nei polmoni fuggire via dalle narici, e un pugno serrato strizzarmi il cuore fino a romperlo in mille pezzi.
Solo io in quella stanza avrei mai potuto capire cosa quelle fascette significavano, solo io potevo comprendere ciò che mi volevano dire mamma e papà con quel regalo.
Non sei fuggita da noi.
Sentii tutti i bracciali che mi coprivano i polsi iniziare a bruciare con furia, e il mio sorriso divenne isterico, squarciato dalla paranoia e la follia. Sudore freddo mi scivolò addosso la pelle come una lingua gelata che leccava fremente la carne. L'oscurità dell'armadio, i miei respiri contratti, il calore della pipì che mi bagnava le cosce e allagava le gambe. Dovevo mantenere la calma, c'era Ruben lì, non potevo, non dovevo fargli capire il significato di quelle fascette. Il sapore vomitevole del cibo decomposto che mi otturava la gola. Nessuno avrebbe mai dovuto scoprire la verità, nessuno. Non era ancora il momento, non era ancora... il momento.
Il mio stomaco si contorse, si arricciò, come se fosse stato schiacciato, e tutto ciò che conteneva risalì fuori in uno spruzzo improvviso. Chiusi la bocca, trattenni il conato, mi sforzai di sorridere anche così, anche se ormai non c'era più niente da perdere.
«Scusami» balbettai nell'affanno, «ho il ciclo, non mi sento bene.»
Corsi in bagno il più velocemente possibile e feci appena in tempo a raggiungere il water. Buttai fuori quel poco che mi era rimasto da buttare, tutti i sentimenti che non osavo provare, la paura che mi rifiutavo di ammettere e sentire e che eppure già mi artigliava le costole, mi arpionava i polsi feriti.
Sentii una mano calda scostarmi i capelli dal viso, stringermi le spalle per aiutarmi a mantenermi salda a terra. Avrei voluto piangere, ma non potevo, non era ancora il momento. Tu lo sai che il vero poter è far sbocciare il sorriso con una lacrima. E allora sorrisi, risi, provai tutto quello che potevo per impedirmi di crollare lì nel cesso. Anche se era come violentarmi, anche se era come impedirmi di respirare, continuai a trattenere quel fiato che mi stava scoppiando in petto.
Quando finii, Ruben era al mio fianco, e addosso aveva lo sguardo più serio che gli avessi mai visto.
Mi asciugai la bocca con il dorso del braccio, sorrisi. «Con il ciclo può succedere» gli spiegai. «Grazie per avermi dato una mano.»
In viso aveva un'espressione severa che non sapevo tradurre, mi guardava come se per la prima volta mi vedesse sotto una luce diversa, priva di filtri e di bugie, e questo mi terrorizzava.
«Adesso capisco» disse invece, con un tono afono.
«Dico davvero» replicai incoraggiante, «so che sei un uomo e non puoi saperlo, ma per noi donne-»
«Togliti i bracciali.»
Quell'ordine mi fece gelare il sangue e il sorriso.
«Come?» ripetei, sicura di aver sentito male.
Le sue labbra si arcuarono in alto. «I bracciali. Togliteli.»
Mi risollevai in piedi, uscii dal bagno in fretta. «Devo finire di metterti la pomata. Hai i lividi anche sulla schiena, vero? Allora-»
Le sue mani mi afferrarono i polsi. Per la prima volta da quando lo conoscevo, lui mi spaventò. Mi terrorizzò il pensiero che scoprisse la verità su cui avevo taciuto per anni. Il modo in cui il suo sorriso sembrasse sofferente, un gesto meccanico per ripararsi dal dolore. La luce nei suoi occhi che faceva presagire il fatto che già sapesse, che già avesse capito tutto e necessitasse solo di una conferma.
Provai a ribellarmi, a indietreggiare, ma la sua presa sui miei polsi era salda quanto l'acciaio. Cademmo sul letto con un tonfo, lui sopra di me, i suoi occhi liquefatti nei miei.
Le sue dita si infilarono sotto i bracciali e con un gesto violento che spezzò tutte le mie speranze tirarono.
I gioielli si ruppero, sfracellarono sul materasso in una pioggia argentata.
Per la prima volta dopo anni, i miei polsi erano liberi e mostravano al mondo le ferite che portavano: bracciali spessi e rossi di pelle cicatrizzata male.
Nessuno li aveva mai visti, nessuno ne era mai venuto a conoscenza.
Erano il segreto che custodivo da che ero una bambina, ma che ora lui guardava con il fuoco negli occhi.
Lo osservai e Ruben fece altrettanto, nelle sue pupille scorsi il destino condiviso di conoscere quella violenza che mai avremmo voluto sperimentare.
Noi eravamo naufraghi di un mondo che ci aveva abbandonato, ci eravamo incontrati per caso tra le onde del fato che ci avevano spinto alla deriva.
Io vedevo in lui tutta la rabbia a cui non avevo mai dato voce e lui vedeva in me tutte le cicatrici di cui non aveva potuto prendersi cura.
Eravamo così, rotti e sbrindellati.
Così, scarti degli uomini, l'ultima ruota del carro che nessuno aveva mai voluto usare.
Fissai il suo sguardo rotto, quell'encomiabile desiderio di essere ascoltato almeno per una volta, solo una volta.
E mi domandai se ora ci fosse il mio cuore nel suo petto e il suo nel mio.
Eravamo così, dissestati e orfani.
Figli di ciò che non sapevamo più amare.
«Stavolta» lo sentii dire con un'ironia sofferta, mentre mi carezzava le cicatrici, «quale scusa ti vuoi inventare?»
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top