Da sempre e per sempre

Quella notte, usai tutte le mie ultime forze per soffocare i miei sentimenti più oscuri, quei dolori antichi che da tempo latravano per uscire.

Li rinchiusi in quell'armadio a me tanto noto, girai la chiave nella serratura delle ante, e lì li lasciai stare, dentro quel tugurio di tenebre.

Dissi loro di attendere, mancava poco, in fondo.

Mancava poco al momento.

Permisi solo alla mente di lavorare.

L'unico modo per poter affrontare la tragedia che stava per investirmi.

Arrivammo alla clinica di Jesse un quarto d'ora più tardi, grazie a un taxi. Mi ero vestita in fretta e furia, avevo chiesto permesso ai dormitori – la direttrice sapeva già la mia situazione familiare, non era la prima volta che le chiedevo quel favore – per uscire, e Ruben mi aveva accompagnato.

Arrivati all'ingresso dell'edificio, rimasi sorpresa nello scorgere le figure di James ed Eve. Entrambi avevano gli occhi ancora assonnati, ma i loro volti erano pallidi, e addosso avevano vestiti che si vedeva avevano tirato fuori a casaccio. Persino Eve indossava abiti che non c'entravano nulla tra di loro.

«Cosa-»

«Li ho chiamati io» mi disse Ruben e subito io richiusi le labbra.

Li raggiungemmo. Non ci dicemmo niente. Loro sapevano che non sarebbe servito a nulla, che nessun discorso metaforico, frase fatta, o parola di conforto sarebbero serviti a qualcosa.

Mi abbracciarono soltanto. Eve stava già piangendo, e per questo io la invidiai tantissimo.

La invidiai così tanto che quasi arrivai ad odiarla.

Ma ero talmente impostata nella modalità razionale, mi ero talmente costretta ad usare solo la logica, che neanche ci badai.

Mi accompagnarono all'ingresso della clinica. Feci le cose che facevo sempre: andai dalla segretaria, registrai la mia presenza, per poi muovermi a passo cadenzato verso la stanza di Jesse.

L'avevano trasferito in un'altra camera, dotata dei macchinari necessari per tenerlo ancora in vita, quel poco di vita che gli rimaneva. Si trovava al primo piano, e non appena lo raggiungemmo, non appena finimmo di salire l'ultimo gradino, un urlo acuto, femminile, che conoscevo bene, esplose nel corridoio che ci si poneva di fronte.

«Cosa cazzo significa tutto questo?!»

Avevo fatto bene a sigillare nell'armadio tutte quelle emozioni, altrimenti, con esse, nel sentire il grido di mia madre, così feroce, bestiale, la paura sarebbe tornata a divorarmi.

Invece non provai nulla, non sentii nulla. Vidi Eve e James sussultare accanto a me, spaventati, mentre Ruben rimase impassibile, un accenno soltanto di irritazione in viso.

A pochi metri da noi, proprio davanti alla stanza in cui ora si trovava Jesse, in mezzo a quel corridoio buio e sfoltito, dalle pareti ocra e illuminato dai tubi al led incastrati nel soffitto, c'era un gruppo di persone.

Riconobbi tutti.

Il dottor Thompson, mamma, papà, e...

E tre guardie di sicurezza, nella loro divisa nera dai bordi blu, col cappellino in testa altrettanto nero.

La logica che mi stavo costringendo ad usare non bastava a spiegarmi perché tre guardie della sicurezza si trovassero lì, nel corridoio, invece che a pattugliare l'edificio e il cortile della clinica come al solito.

Mamma era fuori di sé, stava gridando a più non posso, e anche papà sbraitava. Sembravano dei cani pronti ad azzannare il dottor Thompson.

Erano vestiti in maniera elegante come sempre. Lui in giacca e cravatta, lei con un abito succinto rosso, di lana, che le fasciava le curve. Un pensiero squallido attraversò la mia mente: si erano preoccupati di apparire ricchi e facoltosi persino davanti alla morte prossima di Jesse.

Avanzammo ancora, mentre papà strillava al dottor Thompson: «Quello lì è nostro figlio! Nostro figlio! E voi volete dirmi che non potete fare nulla per salvarlo?!»

Ma certo, figurarsi.

Era ovvio che fosse andata così.

Era ovvio che dicessero quelle cose.

Non si sarebbero mai arresi, mai.

«Signori Murray» disse il dottor Thompson, la voce chiara, decisa, «non c'è più nulla da fare, è inutile. Non possiamo più fare niente.»

«Con tutti i soldi che vi diamo, questa è la risposta che sapete darci?!» Mamma si portò le mani alla testa. Né lei né papà potevano vedermi mentre insieme ai miei amici li raggiungevamo, ci davano le spalle, e forse fu meglio così, perché mi permise di nuovo di capire quanto profonda fosse la loro stupidità: «Ci sarà qualcosa che potete fare! Qualunque cosa?! Un trapianto? Una trasfusione?!»

«Signora Murray, non funziona così, non è così semplice» la chiamò di nuovo il dottor Thompson, capii dall'espressione che aveva in viso che anche lui si stava alterando. Non osavo immaginare da quanto tempo i miei genitori avessero protratto quella conversazione. «Non c'è più nulla da fare, mi dispiace. Il massimo che potremmo fare è indurre il coma, ma Jesse si è rifiutato.»

Quell'informazione mi fece sussultare appena le spalle.

Jesse... Jesse non voleva?

Perché?

Così... così avrebbe soltanto sofferto. Così... avrebbe soltanto patito le sofferenze della sua malattia fino all'ultimo secondo.

Le guardie della sicurezza, proprio dietro al dottore, restavano ferme ad osservare la scena, gli occhi impassibili. Mi chiesi di nuovo perché fossero lì. Non aveva senso. Il dottor Thompson aveva paura che mamma e papà ricorressero alla violenza? Mi sembrava strano.

E allora papà si voltò, mi vide proprio quando ero appena a un metro da loro.

Sgranò gli occhi.

Capii subito che non vide altro se non me. Non si accorse di Eve e James, e men che meno di Ruben. Sapevo che, se lo avesse fatto, il suo volto non si sarebbe trasformato in quel modo: iracondo, funesto, il preludio di un ciclo eterno di sofferenze.

Spalancò la bocca per urlarmi contro, ma una voce familiare lo interruppe. Una voce decisa, professionale, che solo in un'altra occasione mi era capitato di sentire.

Giunse dalle nostre spalle, forte e sicura.

«Scusate il ritardo. Ho cercato di arrivare il prima possibile.»

Mi bloccai. Tutti ci bloccammo. Tutti ci voltammo verso il proprietario di quella voce.

E io sgranai gli occhi.

Kevin.

Kevin era lì.

Con i suoi soliti occhiali a tartaruga e l'espressione competente di chi aveva avuto a che fare con ogni genere di persona al mondo. Aveva addosso abiti presi all'ultimo minuto, un maglione di lana blu e un paio di jeans dismessi, eppure con il suo semplice sorriso mi apparve molto più raffinato ed elegante dei miei genitori.

In mano stringeva la sua ventiquattrore.

Mi notò subito, il suo sorriso si fece più gentile, gli creò una fossetta all'angolo destro della bocca. «Ciao, Callisto» mi salutò. «Mi rincresce doverti rincontrare in una simile occasione.»

Sbattei le palpebre, e di nuovo il mondo di razionalità e logica a cui mi ero allacciata non riuscì a trovare una spiegazione a quello che stava succedendo, alla presenza di quell'uomo lì, in quella clinica, davanti alla camera in cui mio fratello sarebbe morto.

«Chi diavolo sei tu?!» tuonò papà allora.

Eve, al mio fianco, sussultò ancora, anche James tremò. Avevano capito, avevano capito senza che io dicessi niente: com'erano i miei genitori, qual era la loro reale natura. Ruben posò una mano sulla mia spalla, la lasciò ferma lì, senza dire altro, gli occhi fissi su mio padre che ancora non si era accorto di lui.

Ma Kevin, a differenza dei miei due amici, non si lasciò affatto intimorire dagli sguardi feroci, folli e omicidi di mamma e papà, dai loro volti imbrattati di rabbia, vermigli per la furia.

Sorrise ancora. Un sorriso che nemmeno io, in tutti i miei anni di menzogne, ero mai riuscita a creare.

Non gli sorrideva con gentilezza e nemmeno con sarcasmo, non gli sorrideva fingendo bontà.

Sorrideva e basta, come se trovarsi di fronte a simili soggetti gli fosse così naturale da indurlo a farlo.

Avanzò verso di loro a passo deciso, fino a ritrovarseli davanti. Pura pacatezza e signorilità a calcargli le rughe appena accennate nel viso.

«Sono Kevin Clooney, signori Murray» si presentò. Infilò la mano nella tasca anteriore dei suoi jeans e tirò fuori un biglietto da visita, che porse a mia madre. Lei fissò quel piccolo rettangolo di carta come se fosse vomito. «Sì, come l'attore, anche se, ahimè, non godo del suo stesso fascino.»

«Le pare il momento di mettersi a fare battute?!» strillò papà, ma Kevin non si lasciò spaventare, continuò a sorridergli.

Mamma gli strappò il biglietto di mano, lo lesse con gli occhi iniettati di sangue. «Un avvocato?!» gridò. «Un cazzo di avvocato?!»

Un avvocato?

Kevin era... un avvocato?

Lo guardai, senza sapere né che dire né che fare, e lui mi strizzò l'occhio.

Con quell'occhiolino, in qualche modo, mi ricordò Jesse.

«Che diavolo ci fa un avvocato qui?!»

La voce di papà era così violenta che sembrava capace far esplodere l'intero edificio. La stretta di Ruben sulla mia spalla si fece più forte, Eve e James sbiancarono.

«È evidente: mi sto assicurando che le ultime volontà del mio cliente vengano rispettate.»

Un silenzio denso, saturo di sbigottimento e incredulità avvolse quel corridoio vuoto, riempito solo da noi e le nostre voci.

Sentii il sangue nelle mie vene fermarsi, iniziare a scorrere al contrario.

Mamma lo guardò come se non avesse compreso, come se non conoscesse neanche il significato di quelle parole. «Il suo... cliente?»

«Il mio cliente, Jesse Murray» confermò Kevin, sistemandosi gli occhiali che gli erano scesi sul naso. «Sono diventato il suo rappresentante legale molti mesi fa.»

Cercai di prendere tutte quelle informazioni che stava dicendo, di metterle insieme per dare un senso a tutto, come quel gioco per bambini dove, per ottenere il disegno desiderato, bisognava collegare in un ordine preciso, con il pennarello, vari punti sparpagliati su un foglio

Kevin era un avvocato.

L'avvocato di Jesse.

«Non mi prenda in giro!» ragliò papà. «Perché mai nostro figlio avrebbe bisogno di un avvocato?»

«Beh, signor Murray, mi pare ovvio: perché vostro figlio sta morendo

Una dichiarazione precisa, una pallottola nei cuori di entrambi i miei genitori, sparata da Kevin con il suo sorriso professionale. E ora compresi dove avesse imparato a farlo: doveva essere stato con i suoi anni di carriera.

«Jesse lo sapeva, e ha voluto prendere le giuste precauzioni perché tutto andasse come desiderava e le sue ultime volontà venissero rispettate.» Senza dar tempo ai miei di parlare, aprì velocemente la sua ventiquattrore e tirò fuori un fascicolo giallo che porse loro con una raffinatezza sincera, innata. «Leggete pure, è scritto tutto in questi documenti. Immagino che conosciate la calligrafia di vostro figlio.»

I volti di papà e mamma adesso non erano più rossi dalla rabbia, lo stupore li aveva sbiancati del tutto. E immaginai che anche il mio fosse così. Perché per quanto avessi chiuso le mie emozioni nell'armadio, alcune ancora tentavano di uscire, approfittavano di quelle piccolissime fessure nei cardini per rilasciare le loro esalazioni.

Papà prese quel fascicolo, lo aprì, mamma si chinò meglio per leggere insieme a lui i fogli che conteneva, e dopo qualche minuto, la bocca di entrambi si spalancò sconvolta.

«Che cazzo significa tutto questo?!»

«Avete letto benissimo, signori Murray.» La voce di Kevin non mutava, rimaneva la stessa: imperturbabile, decisa, quasi fascinosa. «Sono quasi le quattro del mattino e ho alle spalle due ore di sonno, perciò vi chiedo di perdonarmi se non potrò usare un linguaggio professionale. Siete nella mia stessa situazione, potrete comprendere.» Riprese il fascicolo e lo rimise nella ventiquattrore, per poi far cadere quest'ultima a terra, sul pavimento in ghisa. «Jesse Murray rifiuta la vostra presenza al suo capezzale di morte.»

Un tuono mi esplose nel cuore, Eve ebbe un altro sussulto, le dita di Ruben mi arpionarono con forza la spalla.

Gli occhi di mamma parvero sul punto di uscire dalle orbite. «Lei ci prende in giro?!»

«Assolutamente no, avete letto anche voi, con i vostri stessi occhi, avete visto la firma di vostro figlio e anche il timbro del tribunale e del giudice. Non ci sono errori, signori Murray, e nessuno scherzo. Jesse non vi vuole con sé nei suoi ultimi momenti.» Le labbra di lui si arcuarono ancora. «L'unica persona che accetta al proprio fianco è sua sorella: Callisto Murray.»

Inalai con tutte le mie forze più aria possibile, una cascata di ghiaccio mi si riversò nel petto.

«La smetta di prenderci per il culo!» strillò papà, la faccia ormai disumana, lo sguardo di una belva.

«Mi spiace, signori Murray, ma non sono il tipo da fare scherzi del genere, specie in situazioni simili. Potete chiedere conferma al dottor Thompson, se volete. In fondo, la clinica è stata informata di tutto ciò.»

E allora compresi.

Riuscii a collegare quei punti sparpagliati sul foglio.

Ad ottenere il mio disegno.

Il perché della presenza delle guardie di sicurezza.

Mamma e papà si voltarono verso il dottor Thompson, i visi lividi, la rabbia a dilatar loro le narici.

«Cos'è questa stronzata?!» latrò papà.

Il dottor Thompson rimase imperturbabile, li fissò con occhi severi. «Non è una stronzata, signori Murray, sono le ultime volontà di vostro figlio.»

«Perché mai nostro figlio non ci vorrebbe accanto nei suoi ultimi momenti?!» Mamma si portò di nuovo le mani alla testa, strinse con furia le sue ciocche bionde, parve sul punto di strapparsele. Lacrime isteriche le lacerano il viso, sciogliendole il trucco perfetto. «Siamo i suoi genitori! I suoi genitori!»

«Beh, signori Murray» intervenne Kevin, «forse non dovrei neanche dirvelo, vista la mia posizione, ma, come già precisato, sono le quattro del mattino e ho due ore di sonno alle spalle, non sono ancora nel pieno delle mie facoltà razionali, quindi sarò schietto e sincero al massimo.» Ammiccò un altro sorriso. «Perché siete degli stronzi

Sbarrai lo sguardo, Eve si portò le mani alle labbra, trattenendo un urlo, James sgranò gli occhi.

Ruben non disse niente, osservò soltanto.

Mamma spalancò la bocca, oltraggiata, una tempesta di rughe d'ira travolse il viso di papà.

«Come osa?!» Strillò. «Come osa parlare così a-»

«Ok, basta così.» Kevin sollevò la mano, li fermò all'istante. Non riuscivo a concepire come facesse a rimanere così calmo e sereno. «Conosco le persone come voi, le conosco molto bene: non ammetterete mai di avere torto, prolungherete la discussione all'infinito fino a quando la controparte non sarà troppo esausta per proseguire, e per quanto ami dilungarmi in conversazioni del genere, essendo io un avvocato, adesso non abbiamo tempo. Jesse può morire da un momento all'altro, e come suo rappresentante legale ho il dovere di assicurarmi che le sue ultime volontà vengano rispettate.»

Sollevò lo sguardo, oltre la figura del dottor Thompson rimasto in silenzio, lo rivolse alle guardie. «Portateli via» ordinò deciso, con un cenno del capo. «Subito

I tre uomini in divisa si guardarono, come se avessero aspettato solo quel momento per agire.

Non dissero nulla, non risposero, si avvicinarono a mamma e papà veloci e fulminei.

«Che cazzo state facendo?!» strillò mamma, mentre uno di loro la afferrava per le braccia e gliele torceva dietro la schiena. «Come vi permettete! Non potete!»

«Fermatevi subito!» stava urlando papà, tentando di scappare dalla presa ferrea degli altri due agenti, ma fu tutto vano. Uno di loro lo prese per la vita, l'altro per le braccia.

«Non potete! Non potete! Quello è nostro figlio! Il nostro bambino!»

Era tutto così assurdo, tutto così impossibile, per quanto mi sforzassi di essere razionale, nulla di ciò che stavo guardando poteva coincidere con la logica: le tre guardie che trascinavano via i miei genitori, lontani da quel corridoio, ignorando le sberle con cui loro le colpivano, le bestemmie, le minacce di denuncia, gli urli con cui dichiaravano di essere gli unici degni per stare al fianco di Jesse.

Non era possibile.

Tutto quello... Tutto quello non era possibile.

Erano cose che accadevano nei film, nei libri, non nella vita reale.

Men che meno nella mia.

Ma poi Kevin posò lo sguardo su di me, mi sorrise.

E capii che invece era tutto vero.

Che era reale.

Che ancora una volta mio fratello, il mio amato, fantastico e assurdo fratellone, mi aveva protetta. E lo aveva fatto proprio come era nel suo stile: con tragedie, grida e litigate da telenovelas argentine e romanzi trash.

«Cristo...» sentii James bisbigliare, gli occhi ancora sbarrati.

«È... assurdo» mormorò Eve, e io non potei che trovarmi d'accordo con lei.

«Non abbiamo tempo» dichiarò veloce Kevin. Si fece avanti, mi si avvicinò rapido, e d'improvviso tutti i dubbi che avevo covato su di lui, al nostro primo incontro, sparirono.

Scemarono in un istante, nell'attimo in cui il suo sguardo si fissò nel mio.

Scemarono in un istante, nell'attimo in cui trovai nei suoi occhi l'affetto.

Un affetto sincero, vero, profondo. E non per me.

Per Jesse.

«Callisto» mi chiamò, le labbra ancora sollevate. «Perdonami ancora per la mia schiettezza, ma voglio esser diretto in quest'occasione, non credo che indorare la pillola serva a qualcosa, anzi.» Si risistemò gli occhiali sul naso. «Jesse vuole solo te accanto a lui, questo è vero, ma tu non sei costretta ad accettare.»

Serrai la mascella.

«So che ti prendi cura di lui da sempre, so tutto quello che hai fatto per lui, quanto hai sacrificato per essergli accanto, ma quello che tuo fratello ti sta chiedendo adesso non è di lavarlo, pulirgli il vomito, dargli le medicine, farlo mangiare o fargli le punture.» Parlava preciso e meticoloso, sicuro. Non una sola nota nella sua voce lasciava trapelare il dubbio. «Quello che tuo fratello ti sta chiedendo adesso è di vederlo morire nell'agonia della sua malattia.»

Le emozioni rinchiuse nell'armadio dei miei incubi esplosero, ma le ante di quel mobile erano forti, sicure, si piegarono soltanto sotto il loro scoppio, per poi riprendere la loro forma naturale e sigillare ancora una volta i miei sentimenti.

«È un ricordo che non potrai mai più dimenticare, un'immagine che non ti si leverà mai più dalla testa per il resto della tua vita.» Si fermò un istante. «Anche così, vuoi farlo?»

Non esitai.

Non esitai neanche un attimo.

Non un solo, infinitesimo secondo.

Perché fra me e lui, avrei sempre scelto lui.

Perché eravamo fratelli, e anche di più.

Respiravamo dagli stessi polmoni e soffrivamo una sorte uguale, a vederci non ci saremmo distinti.

Perché eravamo sempre stati insieme e insieme eravamo uno.

Un unico io.

«Sì» dissi, e non ci fu menzogna nella mia voce, non ci fu bugia nel mio sorriso. «Preferisco soffrire per l'eternità per averlo guardato morire al rimpianto di averlo lasciato solo nei suoi ultimi istanti.»

Kevin sorrise, non parve affatto sorpreso dalla mia risposta. 

«Siete davvero fratelli» fu il suo commento. «Avete un coraggio ineguagliabile. Nella mia carriera, mai avevo incontrato persone come voi.» Mi diede un buffetto sul capo. «Avremo tempo in futuro per parlare di tutto il resto, adesso vai, Callisto. Jesse ti sta aspettando.»

Indietreggiò di qualche passo, per lasciarmi spazio, per permettermi di vedere quella porta verde e lucida che si stagliava davanti a me, nella parete del corridoio.

Sentii la mano di Ruben sulla spalla. Sollevai lo sguardo, incrociai i suoi occhi.

Mi ritrovai a ridere, senza volerlo, non seppi spiegarmi perché.

Lui lasciò andare la presa, serrò soltanto le labbra. Capì che stavolta non potevo fare nient'altro che aggrapparmi a quella menzogna.

Accanto, Eve e James mi guardavano in silenzio. La preoccupazione a trafiggere i loro sguardi.

Sorrisi anche a loro.

«Ce la faccio» dissi, ma nemmeno io sapevo se stessi mentendo o meno. 

Sapevo soltanto che dovevo farlo.

Inspirai a fondo.

Una, due, tre volte.

Eccomi, ero lì.

Callisto Murray.

Fanatica di Crystal Ballerina.

Ragazza dal sorriso eterno.

Anima menzognera.

Ma con un'unica, immortale verità a temprarla:

Amare Jesse, suo fratello.

Amarlo fino in fondo, fino all'ultimo istante, fino al momento.

Oltre il momento.

Anche se per farlo avrebbe dovuto ricorrere di nuovo alla sua unica arma: la menzogna.

Tornai a fissare la porta, gli occhi di tutti addosso a me, la mia mano sul pomello dorato della maniglia.

Chiusi gli occhi, inspirai a fondo ancora.

Dissi a quelle emozioni rinchiuse nell'armadio di attendere solo un po', solo un altro po'.

Dissi loro:

Questa sarà l'ultima bugia.

E la sentii addosso, quella bugia, nell'attimo in cui schiusi l'uscio, a rivestirmi le labbra, condanna della mia anima, ultima speranza di mio fratello:

Tu lo sai
Che il vero potere
È far sbocciare
Il sorriso
Con una lacrima!



*



La sua camera profumava già di morte.

Il letto dove giaceva era circondato da ogni macchinario possibile, migliaia di tubi di plastica attaccati al suo corpo, la maschera di ventilazione che gli copriva metà faccia, il suo solito, stupido cappellino addosso. Quel giorno di colore viola.

Mi avvicinai a lui a passo cadenzato,  le lenzuola bianche a coprirgli il corpo ormai moribondo. Aveva gli occhi chiusi, ma appena mi misi a sedere sulla sedia affianco al suo letto, ecco che schiuse le palpebre, con un tremore tale che fu sufficiente a farmi capire quanta fatica e dolore gli costasse farlo.

Gli occhi verdi mi scrutarono in silenzio, e attraverso la plastica del respiratore riuscii a vedergli le labbra sollevarsi.

«Ehi... sorellina.»

Inevitabilmente, mi ritrovai a sorridergli a mia volta. Gli strinsi la mano. Era calda, bollente, un termosifone, così in contrasto col pallore cadaverico della sua carne.

«Ehi» lo salutai. «Hai dato...» Inspirai con forza. «Hai dato spettacolo, eh?»

Jesse ridacchiò, ma fu subito attraversato da tremendi colpi di tosse. «Ti è piaciuta... la sorpresa?» mi domandò alla fine, con le sue dita che s'intrecciavano alle mie.

La sua voce... era già dall'altra parte.

«Molto» ammisi, uno sbuffo divertito. «Devi fare la drama queen anche nei tuoi ultimi istanti, eh?»

I suoi occhi si assottigliarono giocosi. Gli baciai il dorso della mano. Respirare, all'improvviso, mi sembrava un'impresa titanica, impossibile da realizzare per un semplice essere umano come me, eppure, in qualche modo, riuscii a compierla.

Avrei voluto chiedergli tante cose, soprattutto in merito a Kevin, quell'avvocato comparso dal nulla, ma non volevo sprecare in quel modo i miei ultimi momenti con lui. Così decisi di tacere.

«Scu... scusa» balbettò alla fine, stupendomi.

«Per cosa?»

«Il tuo compleanno...» bisbigliò. «Non... farò in tempo... anche se... te l'avevo promesso... eppure manca... così poco...»

Gli sorrisi. Mi ritrovai a pensare "Sei il solito stupido". «Non ti preoccupare» lo rassicurai. «Grazie per aver resistito fino ad ora, è stato un regalo fantastico.»

Il suo sguardo vagò per la stanza per qualche minuto, ondeggiò sulle pareti bianche, sui tubi che aveva attaccati addosso e che ridiscendevano fino ai macchinari come torrenti di plastica, per poi posarsi sulla finestra alla sua destra, piccola e quadrata, dalle vetrate chiuse. Era notte fonda, l'oscurità ottenebrava il cielo, non si vedevano neanche le stelle, e io mi domandai se per caso stesse immaginando così la sua fine, quello che avrebbe visto una volta che il suo corpo avrebbe ceduto per sempre.

«Non sei... da sola... vero?»

Un nodo allo stomaco mi impedì di parlare per qualche secondo. «No» mormorai. «Ruben, James ed Eve mi hanno accompagnata.»

Lui chiuse gli occhi, sospirò sollevato. «Bene» mormorò. «Molto... bene.»

Si stava preoccupando per me persino in quel momento, consapevole che sarebbe morto di lì a momenti, e questo... questo mi devastava.

«Jesse» lo chiamai, «io starò bene.»

Sollevò lo sguardo verso di me, ne lessi il dubbio al suo interno.

Sorrisi ancora. «Starò bene» ripetei, e quella bugia mi si incollò alla gola come plastica sciolta. «Non devi più preoccuparti per me, me la caverò. Starò bene, te lo prometto.»

Le sopracciglia glabre di lui si corrugarono, mi domandai se avesse già scovato la mia menzogna, ma non disse niente, non ribatté. Forse, come me, preferiva crederci, anche se sapeva quanto fosse fasulla.

«Ehi... sorellina...» bisbigliò, per poi prendere un grosso respiro dalla mascherina. «Posso... posso sfruttarti... un'ultima volta? Anche se... ti farò stare... tanto... tanto... male?»

Strinsi la sua mano con più forza, gli sorrisi con tutte le bugie che possedevo in corpo. «Certo che sì» gli risposi. «Lo sai che puoi, Jesse.»

Le sue dita tra le mie cominciarono a tremare.

«Quello che sto per confessarti... mi devi promettere... di non dirlo a nessuno.» Sollevò lo sguardo su di me. «Nemmeno... a Mr Bad Boy. È un segreto... che ti dovrai portare... nella tomba. Anche così... vuoi saperlo?»

Sollevai gli angoli delle labbra, non c'era bisogno che facessi altro.

Jesse chiuse ancora gli occhi e per la prima volta il sorriso scomparve dal suo viso, il volto venne attraversato da un'espressione di puro dolore. Se la sofferenza potesse essere rappresentata da un'immagine, sarebbe stata quella di mio fratello, quella notte, mentre con una voce tremula che mai aveva posseduto prima di allora mi mormorava: «Ho paura

Lo sapevo, lo avevo sempre saputo.

Per quanto cercasse di scherzare sulla propria morte, per quanto gli piacesse fingersi il protagonista di un libro, per quanto tentasse di scacciare lo spavento con l'umorismo e l'ironia, rimaneva pur sempre un essere umano. Un ragazzino. Un giovane uomo di ventitré anni a cui la vita non aveva concesso alcun premio.

Eppure, nel sentirglielo ammettere così, con quella voce sofferta, percepii lo stesso il mio cuore incancrenirsi come il suo sangue.

«Ho... una paura... fottuta» continuò, le palpebre ancora chiuse, ma non riuscì a trattenere le lacrime che gli rotolavano in viso, giganti pianeti di terrore. «Non voglio...» Un singhiozzo lo attraversò. «Non voglio... morire... Callisto.»

«Lo so» bisbigliai. «Lo so.»

Riaprì gli occhi, incontrò i miei, il suo sguardo lucido era quanto di più magnifico e spaventoso esistesse al mondo. «E se... E se...» Deglutì, la gola gli si gonfiò per quello sforzo. «Se non ci fosse... nulla... dopo... o peggio... se... finissi... all'inferno?»

Una risata amara mi attraversò, lo guardai stupita. «Perché mai dovresti finire all'inferno?» gli domandai. «Sei la persona più buona e gentile che sia mai esistita in questo mondo, Jesse. Se tu meritassi l'inferno, lo meriterebbero tutti, nessuno escluso.»

Lo vidi aprire la bocca, tentennare per qualche istante. «Io... io non... sono così buono» sbatté le ciglia glabre con forza. «Io... a volte... mi sono trovato... a desiderare... cose orribili... Callisto.»

Sapevo anche quello.

Non me l'aveva mai detto, ma lo conoscevo, lo conoscevo come Dio conosce il suo universo.

«A volte... quando stavo... molto male... avrei solo voluto... che noi due... ci scambiassimo di posto» proseguì, e a ogni parola cadeva una lacrima. «Ero così... invidioso di te... perché... sei sempre stata... in salute... mentre io...» Un altro singhiozzo. «Sono... una persona... orribile...»

«No, non lo sei» lo frenai. «La vuoi sapere una cosa divertente, Jesse?» gli dissi a quel punto, mentre un'altra risata m'invadeva. «Anche io a volte sognavo di scambiarmi di posto con te.» Lui mi guardò senza dire niente. «Speravo che, se fossi stata io ad ammalarmi e a prendermi la tua leucemia, mamma e papà avrebbero iniziato ad amarmi. Ti invidiavo tantissimo.» Lo osservai serena, le labbra arcuate. «Siamo proprio fratelli, eh? Desideriamo persino le stesse cose.»

Quel commento lo indusse ad altre lacrime silenziose. Mi strinse con forza la mano, espirando a fatica.

«Ma... per colpa mia, tu...» Deglutì con forza. «Per colpa mia tu... hai sofferto... così tanto... così tanto.» Adesso il torace si abbassava e rialzava squassato. «Hai dovuto... rinunciare a tutto... a tutto per me. Io... ti ho fatto... così tanto male...»

Scossi la testa in fretta e furia. Sentirlo parlare così, sentirgli dire quelle parole, era una condanna peggiore della morte. «Cosa stai dicendo, stupido» gracchiai, baciandogli le nocche delle dita. «Jesse, non c'è stato un solo momento, uno solo, in cui mi sia pentita di stare accanto a te, capito?» La mia voce si era alzata, ma non me ne preoccupai. Tutto, purché capisse. Tutto, purché non morisse con quel pensiero a distruggerlo. «Se tornassi indietro, rifarei tutto quanto da capo, non cambierei una sola cosa. Non ti lascerei mai. Stare con te, vivere con te, è stato il mio più grande onore e la mia più grande felicità. Non pensare mai più certe cose, capito? Sono io a stabilire chi mi fa del male, e tu non sei tra questi, chiaro?»

Era la verità, la pura e semplice verità, l'unica su cui non avrei mai potuto mentire, l'unica che mi rendeva quella che ero: Callisto, sua sorella.

Lo sentii ridere sommessamente, per poi venir percosso da altri colpi di tosse. Inspirò a fondo. «Sei bellissima... quando ti arrabbi, sorellina.»

«Non cercare di comprarmi con i complimenti, non ci cascherò» ribattei. Gli diedi un leggero colpo sulla fronte con le dita. «Ti è chiaro quel che ho detto?»

Jesse annuì, di nuovo sorridente.

«Mi prometti... di non rivelare a nessuno... quello che ti ho appena detto?» bisbigliò, e io annuii. Sospirò. «Voglio che la gente... pensi... che sono morto... fiero e felice... fino all'ultimo.»

«Ok.» Carezzai il dorso della sua mano col pollice, e con una forza disumana mi costrinsi a chiedergli ciò che più mi preoccupava: «Jesse, perché... perché non accetti di farti indurre il coma?» I suoi occhi saettarono su di me. «Se hai così tanta paura, il coma potrebbe...»

«Perché... anche se ho paura... voglio... vivere... fino all'ultimo secondo» rispose. «Non voglio... dare questa... soddisfazione alla... mia malattia. Anche se soffrirò... voglio vivere anche... l'ultimo istante. Si è già presa... tutto di me... non le permetterò... di rubarmi... anche i miei... ultimi secondi.» Inspirò ancora, il petto gli si gonfiò in maniera strana, come un palloncino con troppo elio. «Voglio... essere... lucido... fino... alla fine. Combattere... fino alla fine. Anche se so... che perderò... lo farò... lo stesso.»

Mi sorrise, e io lo feci con lui. «Sei troppo, troppo coraggioso» mi ritrovai a dirgli, carezzandogli il viso con la mano.

Lui ridacchiò, felice.

«Ci sono... alcune cose... che ti devo ancora dire» biascicò. «Semmai... avrai un figlio... maschio... in futuro... non osare... chiamarlo Jesse.»

Quella richiesta mi sorprese. «Perché? Sei così egocentrico, di solito adoreresti una cosa del genere.»

«Ho sempre... odiato... il mio nome» rispose. «Mamma e papà... l'hanno scelto... solo perché... gli piaceva come suonava. Triste... vero? Secondo me, quando... si sceglie il nome di un altro essere umano... bisognerebbe pensare molto... al suo significato. Per questo ti ho chiamata... Callisto, in fondo.» E anche nella malattia e nella sua sofferenza, riuscì comunque a trovare la forza di farmi l'occhiolino. «Anche se tu... sorella ingrata che non sei altro... ancora non ne riconosci il valore.»

Fummo attraversati insieme da delle risatine.

«Se proprio vuoi dargli un nome... in mia memoria... chiamalo... Hector.»

«Hector?»

Annuì. «È il nome... di un personaggio dell'Iliade... un guerriero che... pur sapendo di non poter sconfiggere... il suo nemico... e di andar incontro alla morte... è comunque sceso in battaglia... a testa alta.» Una luce di nostalgia gli attraversò gli occhi. «Avrei voluto... essere come lui... da ragazzo.»

«Lo sei» risposi. «Lo sei sempre stato.»

Jesse abbozzò un altro sorriso.

Inspirai a fondo. «Lo chiamerò Hector... ma anche Jesse» gli dissi. «Per i nostri genitori, forse, Jesse non aveva significato, ma per me... è il nome del ragazzo più coraggioso, testardo e meraviglioso del mondo.» Portai la sua mano al mio viso e lui aprì con tremore le dita per carezzarmi la guancia. «Ricevere un nome simile sarà un grande onore e un augurio di buona fortuna.»

«Il nome... di un malato terminale... di cancro?» domandò con ironia.

«Il nome di un fratello che non mi ha mai abbandonata» lo corressi. «E che ha vissuto ogni momento fino alla fine, senza arrendersi mai. Il nome di un eroe. Il mio eroe.»

Altre lacrime ripresero a cadergli dagli occhi, mi carezzò lo zigomo col pollice. Gli baciai il palmo in silenzio.

«Sei tu l'eroina... Callisto, non io» bisbigliò. «Lo sei... sempre stata... ma non te ne sei mai... resa conto.»

«I tuoi complimenti non mi faranno cambiare idea» replicai, e lui rise ancora.

«Adesso... sarai costretta per forza... a fare figli... fino a quando non ti uscirà... un maschio.»

Risi insieme a lui. Ignorai le urla strazianti che provenivano da quell'armadio, l'agonia e la follia, le lacrime che tentavano di rovesciarsi fuori. Chiusi con più forza le ante, diedi tre giri di chiave alla serratura. Sigillai le mie verità, ciascuna di esse.

«Speriamo che capiti al primo colpo» mormorai, «non so quanti parti sarei in grado di sopportare. La mia soglia del dolore è bassissima.»

Arcuò le labbra. «Bugiarda.»

Mi sfiorò l'angolo dell'occhio col pollice, mi sorrise. Era così bello, così perfetto. 

«Sai... so che... di solito si dicono solo al proprio amante... ma parole del genere... credo siano le uniche per descrivere... i miei sentimenti per te... e ti prego di non fare battute incestuose.» Si tolse per qualche istante la mascherina di ventilazione, così che potessi finalmente vedergli tutto il viso, senza la plastica a flirtarne la metà. «Ti amo, Callisto.»

Chiusi gli occhi, inspirai a fondo, strinsi la mano con cui mi carezzava e vi posai il mio viso contro, lo strusciai sul suo palmo, cercando di trattenere il più possibile il calore di quel tocco.

Lasciai che quelle parole mi entrassero dentro, fino in fondo, che mi scivolassero nella pelle, le ossa e il sangue e allagassero tutto.

Un'ultima volta.

«Ti amo anch'io, Jesse» bisbigliai. «Da  sempre e per sempre

«Sorriderai fino all'ultimo... non è così? Non vuoi proprio darmi la soddisfazione... di vederti piangere, eh?»

Annuii contro il suo palmo, Jesse sghignazzò.

«Non... non te ne vai, vero?»

«No, non me ne vado. Starò con te.»

«Fino... fino alla fine?»

«Fino alla fine.»

Inspirò a fondo.

«Grazie






Nota autrice

I prossimi capitoli verranno pubblicati con molta, molta frequenza, per due semplici motivi:

1) Questi capitoli sono stati scritti prima ancora del prologo della storia. Ogni tanto mi capita: immagino le scene fondamentali del mio libro e mi ritrovo a scriverle prima ancora che il libro stesso sia stato iniziato. Non so ancora spiegarmi perché.
Quel che so, però, è che questi capitoli sono tra i più importanti della storia di Callisto e forse proprio per questo motivo ho avuto l'istinto primordiale di scriverli subito, non appena l'idea è nata nella mia testa.

2) Sento che Jesse e Callisto, almeno in questa fase, meritino di essere raccontati dall'inizio alla fine senza interruzioni. So che suonerà strano, visto che sono personaggi inventati, ma non mi va di farli attendere in questa sofferenza bestiale per mesi tra un capitolo e l'altro. Voglio che il loro dolore, per quanto atroce, e il loro amore vengano mostrati nella loro totalità e interezza, senza pause a dividerli.
Non se lo meritano, loro due.
Ovviamente, non siete costretti a leggere questi capitoli di seguito. Prendetevi tutto il tempo necessario, sono la prima a sapere quanto strazianti siano.

So che ora mi considerate una scrittrice sadica e bastarda — e avete ragione — ma sappiate che sono con voi in questo dolore. Sia quando ho scritto questi capitoli, all'inizio, che quando li rileggo adesso, finisco per stuprare i miei condotti lacrimali tanto piango.

Credo che la storia di Callisto e Jesse sia la più dolorosa che io abbia mai narrato, persino più di "Moonlight lullaby" e "La pioggia prega in autunno". Callisto è forse la protagonista più forte che io abbia mai scritto. Perché a differenza sua, io non sarei mai in grado di sorridere così, di mentire così.

Ma attenzione.
La storia ha ancora tanto da raccontare.
Il legame che vincola Jesse a Callisto, il loro rapporto, è molto più profondo di quanto si possa immaginare.
Ci vorrà ancora un bel po' perché la storia possa dirsi conclusa.
Perché, come ha detto Jesse nel capitolo scorso, loro saranno sempre fratelli.
Il loro è un amore che né la morte né la malattia potranno mai spezzare.
E lo vedrete.
Oh, se lo vedrete.

La figura di Kevin, ad esempio, sarà molto importante per la storia. A proposito, voi ve lo sareste aspettato che Kevin fosse un avvocato assunto da Jesse? Ho cercato di lasciare indizi, ma pochissimi, non volevo che lo sgamaste subito. Spero di esser riuscita a mantenere il mistero fino all'ultimo.

Detto questo, adesso scappo. Già vi vedo coi forconi e le fiaccole, pronti a impiccarmi.

Ah! Un'ultima cosa. Chi ha già letto le mie altre storie lo sa, ma come Jesse anche io amo dare ai miei personaggi nomi che abbiano un significato fondamentale.

Ecco, in questo caso, NON dimenticate il significato del nome Callisto.

Jesse lo ha spiegato più e più volte, e sarà FONDAMENTALE per la storia e per capire i prossimi capitoli.

Callisto: superlativo di kalòs, un significato soltanto:

"La più bella" o anche "Bellissima"

Non dimenticatelo, mi raccomando.
(E non dimenticatevi i fazzoletti.)

Un bacio, muffins

*Scappa da torce e forconi*

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