Crystal Ballerina

Nei sogni scorgevo un tappeto di gusci di noci.

Chiazze violacee dalle sfumature fangose che mi crescevano sulle ginocchia e si arrampicavano sofferenti fino alla gola.

La penombra di un armadio dalle ante schiuse, graffi laceranti sul legno scuro.

Sentivo suoni bestiali, animaleschi, che fiorivano dentro lo stomaco e otturavano la gola, fino a gonfiarla e divorare il respiro.

Avevo imparato a scacciarli, i sogni, a fuggire da loro.

A vivere la notte con gli occhi appena schiusi, pronti a sollevare le palpebre in qualsiasi momento, ad ogni evenienza.

Ad apprezzare il sibilo ritmico dell'elettrocardiogramma, o quello ronfante del respiratore. In qualche modo quei rumori così fastidiosi a orecchie altrui erano diventati motivi di conforto per me, una melodia con cui allietare l'animo inquieto.

Erano suoni con cui mi ero fusa insieme, fino a sentirmi orfana di essi in mezzo al silenzio.

Li avevo ascoltati per così tanti anni che ormai li consideravo il mio orologio da taschino.

Quella notte, però, non potevo più averli.

Ero da sola, in una stanza nuova, in un posto nuovo, con una vita nuova.

Ed era come provare a respirare sott'acqua.

Tentavo di risalire in superficie, ma le tenebre di quella camera mi trascinavano giù e mi annegavano dentro il loro oceano.

Non riuscivo a stare sul letto, era troppo morbido, troppo profumato. Io conoscevo la rigidità di una brandina pieghevole, dalle lenzuola bianche che sapevano di disinfettante e medicinale. Mi rigirai sul materasso per ore prima di arrendermi. Quel luogo, per quanto libero fosse, mi faceva sentire pesanti catene di ferro aggrovigliarsi alle caviglie e una mancanza talmente forte da ferirmi nel petto.

Posai i piedi nudi sul pavimento gelato e mi sollevai in piedi. La stanza era un tugurio di ombre, e il verde delle sue pareti era stato inghiottito dall'oscurità. L'unica luce sopravvissuta a quello sterminio di colori proveniva dalla finestra: un velo raffermo di bagliore lunare che andava a delineare i contorni dei mobili.

Mi avvicinai e aprii meglio la finestra. Una brezza estiva mi asciugò il volto sudato. Salii sul comodino e con le gambe mi arrampicai fino al davanzale; era largo e spazioso abbastanza perché una persona ci si potesse sedere dentro e così feci, a gambe incrociate.

Guardai il mondo che mi aspettava fuori da quella stanza, l'ignoto che mai avrei voluto conoscere e con cui tuttavia ero costretta a scontrarmi. Mi trovavo al piano terra, perciò tutto appariva molto più vicino a me.

Il cortile del dormitorio era seppellito sotto uno spesso vello di tenebre, gli steli d'erba di tanto in tanto rilucevano abbagliati da un piccolo sprazzo di luna, e i cespugli infiorati parevano balle di fieno raggomitolate agli angoli del muretto di recinzione. Gli alberi potati spiccavano nella penombra come sagome di picche, e ogni cosa sembrava appartenere a una finzione, un mondo sintetico.

Eppure, quella era la vita reale, quella che io non avevo mai conosciuto.

Io, che di ombre avevo visto solo la mia e di fiori soltanto quelli già pronti ad appassire in un vaso dimenticato.

Nell'osservare tutto ciò, sentii un altro mattone cadermi nel petto e occludermi il cuore.

Mi mancava Jesse.

Mi mancava da morire.

Era troppo strano non averlo lì, al mio fianco, troppo strano non passare la notte accanto a lui, stringendogli la mano.

Da quando mi ero separata da lui, l'ansia mi perseguitava, era diventata uno spettro aggrappato alla mia gola, pronto a soffocarmi in qualsiasi momento. Le mie mani stringevano spasmodicamente il cellulare, con l'incubo di una chiamata improvvisa.

E invece non era successo niente, l'ultimo messaggio che Jess mi aveva mandato era uno dei soliti: il video di un uomo calvo che si metteva una ventosa a forma di pene sulla pelata, per poi iniziare a ballare.

Sotto, Jesse mi aveva scritto:

Lo pretendo come prossimo regalo. Anch'io voglio diventare letteralmente una testa di cazzo.

Al solo rileggerlo, ridevo.

Ma non avevo avuto il coraggio di rispondergli.

Non avevo avuto il coraggio di mentire ancora, sebbene per telefono. Dentro di me urlava il desiderio di vomitar fuori tutto, ogni parola che non era mai stata detta, ogni sogno che non si sarebbe mai realizzato, il terrore costante che mi paralizzava sul posto, che mi squarciava i polmoni e insanguinava il respiro.

Ehi, sei proprio sicuro di questo? Io non lo sono per niente. Non mi sento bene qui, non mi sento me. Sono fuori posto per questo mondo, ormai, non ci sto più qua dentro, non mi incastro più con gli altri tasselli. Ritirati, rinuncia, torniamo a com'eravamo prima. Si stava così bene quando stavamo insieme, si stava così bene quando ero al tuo fianco. E lo so che possiamo sempre rivederci, lo so che ancora sei qui, ma mi manchi, mi manchi tantissimo. E poi se succede qualcosa e io non ci sono, come facciamo? Ché lo sai che non ci sai stare senza di me, lo sai che solo insieme sappiamo funzionare, noi due. Dimmi come faccio a vivere senza un pezzo di me, dimmi come faccio a stare tra la gente quando l'unica cosa che ho visto nella mia vita sono aghi e medicinali, flebo attaccate al tuo braccio, i tuoi lividi sul corpo. Non ce la faccio, Jesse, non ce la faccio. Non sono abbastanza forte per questo. Non posso realizzarlo, non posso realizzare il tuo ultimo desiderio. Esprimine un altro, per favore, ti supplico.

Non osavo scriverlo, però, a stento riuscivo a pensarlo.

Così, avevo lasciato il cellulare sul comodino, mi ero detta che gli avrei risposto all'alba, quando il cielo si sarebbe rischiarato e insieme a lui la mia mente.

Ogni mia notte era insonne, d'altronde, e io sapevo essere paziente, avrei atteso l'arrivo del sole e avrei sentito sorgere con lui anche il coraggio.

Non so quanto tempo passò, so però che passai ogni minuto a fischiettare la mia canzone preferita: Crystal Ballerina. Era la sigla di un cartone animato per cui da bambina impazzivo, conoscevo non solo le parole, ma anche l'intero balletto coreografato a memoria.

Crystal, Crystal, Crystal Ballerina,

tu sì che sai cos'è un ballo,

perché il sorriso è la tua danza,

e allora salta, ruota,

Crystal, che bella!

Crystal, Crystal, Crystal!

Tu lo sai che il vero potere

è far sbocciare un sorriso

con una lacrima!

Sorrisi.

Sorrisi piano, con delicatezza, come avevo imparato anni addietro.

Soffocai tutte le infauste emozioni dentro un armadio che chiusi a chiave e abbandonai nell'oscurità dell'animo, un armadio che avrei lasciato aperto solo quando sarebbe arrivato il momento.

Il momento in cui avrei potuto lasciar cadere tutte le maschere, ed allora sarebbe colata via anche la pelle, il sorriso, le cortesie, la sinteticità del mio benessere. Avrebbero gocciolato a terra fino a formare una pozzanghera di pece in cui sarei annegata, in cui avrei potuto lasciare andare quel grido che da decadi avevo silenziato nel cuore e che ora fremeva in attesa di riottenere la sua voce.

Il momento sarebbe arrivato, questa era una certezza che non potevo più ignorare, ed era prossimo, ormai, così vicino che lo sentivo alitarmi sul collo,  gli artigli scivolarmi inesorabili lungo le clavicole e stringermi le spalle.

Non ancora, non ancora, mi dissi, dammi un altro po' di tempo, solo un altro po'.

Avevo ancora molte cose da fare, molte cose da dire.

Dovevo ancora chiedergli perdono.

Sorrisi ancora.

Andava tutto bene, non era ancora il momento.

Riuscii a riprendere il telefono dal comodino senza dover scendere dal davanzale, e mi ritrovai a rispondergli:

Non ne hai bisogno. Basta guardarti allo specchio per capire che lo sei.

Attesi una ventina di minuti che proseguirono nel silenzio più totale. Doveva essersi addormentato.

Riposi il telefono al suo precedente posto e mi rimisi a contemplare il paesaggio. Non era poi granché, non si vedevano stelle e la luna appariva come una virgola bianca in un tappeto di pece, ma era meglio di niente.

Fu in quel momento che sentii un rumore.

Subito mi domandai se fosse una guardia di sicurezza durante la sua pattuglia, ma il suono non proveniva dal cortile, bensì fuori, da dietro il muretto che costeggiava tutto il perimetro della struttura. Assottigliai gli occhi per vedere meglio, ma ogni cosa era affogata nelle tenebre e a stento si riuscivano a distinguere i contorni.

Scorsi un'ombra antropomorfa apparire sul muretto e mi chiesi come fosse possibile, visto che doveva essere alto almeno due metri e mezzo. L'ombra però non si fermò, avanzò in avanti e saltò sull'albero di quercia che aveva di fronte a sé. Balzò sopra uno dei rami con un equilibrio a dir poco sconvolgente e da lì prese a scendere scivolando sul tronco.

Forse l'ombra era Spiderman, mi ritrovai a pensare.

Mi domandai se fosse il caso di preoccuparmi. In fondo, si trattava pur sempre di una persona che si stava intrufolando di nascosto nel dormitorio, avrebbe potuto essere un criminale, un serial killer, un ladro.

Oppure, come mi aveva detto la direttrice appena ero arrivata, uno degli studenti che usciva e ritornava di nascosto dal dormitorio, senza rispettare il coprifuoco.

L'ultima possibilità mi sembrava anche la più probabile, nonché confortante. Anche Jesse l'aveva detto: quello era un posto pieno di adolescenti, e gli adolescenti erano noti per essere ribelli e non rispettare le regole.

L'ombra si mosse ancora, e mi irrigidii quando mi resi conto che stava andando nella mia direzione. La reazione più adatta sarebbe stata rientrare in stanza e chiudere la finestra, ma per qualche motivo il mio corpo non volle muoversi, restò paralizzato sul posto, ad ascoltare il rumore dei passi che schiacciavano l'erba e si facevano sempre più vicini.

Pian piano che avanzava, la luce della luna iniziò a scacciare via le ombre che celavano lo sconosciuto, e così scorsi ciocche di capelli castani e una mascella volitiva, un fisico alto, molto alto, dalle spalle larghe, intrappolato in una felpa grigia e un paio di jeans rovinati. In spalla reggeva la bretella di uno zaino e camminava a passo svelto. Possedeva un naso dritto, labbra piene e rosee, una pelle appena abbronzata.

Doveva essere un mio coetaneo, sui diciott'anni, ma presentava già tratti adulti, maturi e possedeva una bellezza particolare: che non comprendi subito, solo guardandola con molta attenzione.

Nel vederlo, mi rasserenai.

Non perché era affascinante, quanto per il fatto che le possibilità che fosse un serial killer si erano drasticamente abbassate.

Il ragazzo proseguì il cammino, e io feci per rientrare in stanza, prima che mi notasse a sua volta, quando si fermò proprio di fronte alla mia finestra.

Sollevò il capo con molta calma e i suoi occhi incontrarono i miei.

Se la mia presenza lì lo avesse sorpreso a sua volta, lui non lo diede a vedere. Continuò a mantenere un'espressione austera, con le folte sopracciglia aggrottate e le labbra strette, la mano serrata sul bracciolo dello zaino.

Un silenzio imbarazzato si fece largo tra noi due.

Odiavo i silenzi imbarazzati, perché mi innervosivano talmente tanto da indurre il mio sorriso a farsi ancora più grande e teso.

Sollevai con timidezza una mano. «Ciao» lo salutai, la voce stridula. «In ritardo per il coprifuoco, eh?»

Lui non rispose, continuò a fissarmi sfacciatamente, sempre più severo in viso.

Fu allora che mi accorsi di un dettaglio che prima non avevo potuto notare: sul dorso della mano che stringeva il bracciolo c'erano i primi segni di un livido. Erano appena evidenti, ma le sfumature già si potevano scorgere: un rossore diffuso che gli temprava la pelle e ne cancellava il colore.

Lividi.

Io i lividi li conoscevo bene, da che ero bambina, e ne ero stata perseguitata come da un'epidemia che non riuscivi mai a debellare. Il solo vederli era sufficiente per provocare in me un moto d'amarezza e raccapriccio, un sentimento di sconforto così pesante da serrarmi lo stomaco.

«Ti sei fatto male mentre ti arrampicavi?» domandai, cercando di tirar fuori la mia voce più gentile. «Se vuoi ho una pomata che è perfetta per-»

«Quando» sibilò, e la sua voce era profonda, baritona, quasi crudele, «ti avrei dato il permesso di parlarmi?»

La domanda mi lasciò un po' perplessa. «Beh, tu sei qui, io sono qui» ci indicai, «stiamo entrambi violando le regole. Io non potrei stare sul davanzale e tu non dovresti sforare il coprifuoco. Siamo complici, no? Ho pensato fosse una situazione adatta.»

«Beh» chiosò, «pensa di meno

Tirai in su la schiena, il sorriso ancora tatuato sulle labbra. Lui voltò il capo e riprese il cammino, verso la mia destra. Mi accorsi che si stava dirigendo verso la finestra della camera che affiancava la mia, e forse ne era il proprietario, perché la spalancò con la certezza di trovarla aperta. Dentro di me mi dissi di lasciar perdere, di mollare la presa, perché non c'era mai nulla di buono nella gentilezza, non c'era mai nulla di buono nella compassione, e questo lo sapevo bene. Erano sentimenti che ti incatenavano a un trono di vittimismo da cui non saresti più potuto scendere, vermi che ti crescevano dentro e ti impoverivano l'animo.

Ma il segno di quel livido continuava a rimanermi impresso come un'ustione antica nel cervello, e nelle sue sfumature vermiglie io riuscivo a rivedere il volto di Jesse, il suo sorriso appena tredicenne, quell'immenso ematoma che gli divorava la schiena, il primo sintomo di un inferno che tutt'ora lo perseguitava.

Il mio corpo si mosse da solo.

Rientrai in stanza con un balzo e mi affrettai ad aprire il primo cassetto del comodino. Quando ritornai sul davanzale, il ragazzo era già intento ad arrampicarsi sulla sua finestra.

Lanciai ciò che avevo in mano nella speranza che gli cadesse vicino, ma la mia mira fu troppo incerta e invece che atterrargli ai piedi, lo colpì proprio sulla tempia.

Volevo morire dalla vergogna.

Lui non si rese subito conto di quello che era successo, mi guardò con occhi funesti, un'ira elegiaca gli divorava lo sguardo, e nell'accusa che lessi in esso mi sentii marcire. Mi affrettai subito a spiegarmi, prima che fosse troppo tardi: «Scusami, non volevo, lo giuro! È una pomata per i lividi.» Indicai la confezione che adesso si trovava tra gli steli d'erba, occultata nell'ombra. «È ottima, davvero, io la uso sempre. Ne basta giusto poco perché-»

«Taci

Pronunciò quella parola con acredine profonda, sibilando ogni sillaba. L'irritazione gli scolpiva il volto, smussava i tratti rigidi della mascella. Mi dissi che avrei dovuto avere paura, che quello che lui desiderava sentissi fosse proprio soggezione, ma per quanto ci provassi, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a sentirla.

C'era qualcosa in me che si era spaccato.

Si era spaccato in un singolo istante, in un tempo in cui ancora mi perdevo a contare le stelle, e allora d'improvviso la collera negli occhi altrui si era trasformata in un quadro che per quanto realistico non riusciva a intaccarmi.

C'era qualcosa in me che si era spaccato.

Nel rumore di unghie contro il legno, il dolore di un paio di ginocchia rovinate per sempre. L'immagine di una ciotola all'angolo della stanza, il cibo putrefatto al suo interno, l'odore nauseabondo della muffa.

Avrei dovuto avere paura, e invece quel che provai fu un disinteresse totale, una semplice e banale volontà di togliermi quel livido dalla testa.

Lui rimase in silenzio, poi, per qualche minuto.

Chinò lo sguardo sulla confezione della pomata che giaceva là, al suo fianco, come un gioiello dimenticato.

E senza proferir parola, sollevò il piede e la schiacciò sotto la suola della scarpa, con una forza inaudita.

Il mio sorriso, però, non crollò, rimase lì, ad aleggiarmi sulle labbra, una benedizione dal sapore di condanna.

Lo guardai calpestare il mio dono e dentro provai a chiedermi se sentissi qualcosa, qualunque cosa, ma a rispondermi fu l'eco maestosa dell'incuria.

«Non mi parlare» ringhiò a denti stretti. «Mai più.» Quel poco di luce lunare che rimaneva nell'aria gli illuminò gli occhi,

Fece per arrampicarsi, ma si fermò un attimo prima, tornando a guardarmi. Un riverbero di luna gli si incatenò negli occhi e per la prima volta riuscii ad accorgermi del loro colore: il sinistro di un nocciola scuro e denso, cognac bruciato, il destro, invece, di un azzurro così cristallino da sembrare una biglia. Insieme davano all'osservatore una sensazione di smarrimento, come se stessi guardando a destra e a sinistra nello stesso momento.

«Che sia chiaro» dichiarò, «tu non dirai niente.»

Sollevai entrambe le mani in segno di resa. «Sarò muta come un pesce, lo giuro.»

Non sembrò convinto, ma era evidente che rientrare in camera era la sua priorità. Si arrampicò sul davanzale e scomparì dentro la finestra con un solo balzo, senza lasciar traccia del suo passaggio.

Tirai un sospiro di sollievo.

Per essere la prima conversazione avuta con un ragazzo che non fosse Jesse non era andata poi così male, a parte la minaccia, gli insulti e la pomata calpestata. Ero riuscita a mantenere la calma e il sorriso, ero riuscita ad essere la solita, serena me.

Era stata una prova importante.

Avevo bisogno della conferma che potevo farcela, perché dovevo farcela.

Per Jesse, per l'ultimo desiderio, per tutti gli anni vissuti fino ad ora.

Tu lo sai che il vero potere

è far sbocciare il sorriso

con una lacrima.

E allora sorrisi.

In qualunque momento, in qualunque situazione, in qualunque luogo.

Quella ero io, quella era necessario fossi io.

Sarei stata così con tutti, sarei riuscita ad esserlo anche con dei coetanei, anche con degli studenti come me, anche a scuola.

«Sei stata brava» mi dissi. «Sei stata brava, più che brava. Dieci e lode.»

Il mio telefono sul comodino suonò, avvisandomi dell'arrivo di un messaggio.

Per la prima volta in quel giorno la felicità si aggiunse alla curva delle mie labbra.

Jesse si era svegliato.

*


Nota autrice:

Benvenuti o ben ritrovati, lettori, nel magico, TRAUMAtico, commovente, comico e strano mondo di...


Qui è Sasha Nye che parla (ad opera conclusa, lol) per dare alcuni avvertimenti a voi che entrate nei TRAUMI di questa storia.

Perché sì.

Questa storia ha i TRAUMI.

Un mio fetish, non lo nego 💅🏻

Come avrete potuto intuire dalla trama dalla storia, questo romanzo non parla solo di AMMMMMOREHHH tra una Hope Summer Verginy e un BADDE BOIH (in questo capitolo chiaramente stronzo), ma anche di un altro tipo di amore.

Ovvero l'amore fraterno che lega Callisto, la protagonista della storia, e Jesse, suo fratello maggiore.

Ribadisco quello che dico pure nella trama:

NON È UN INCESTO.

Tre so le cose che mai riuscirò a leggere e a scrivere (per un limite mio):

1) I triangoli

2) Gli incesti

3) Le relazioni tossiche che vengono passate per VEROH AMMMOREH

Quindi sì, potete stare tranquilli (o rimanerne delusi, ognuno c'ha i suoi gusti, in fondo) Jesse e Callisto NON SONO i nuovi Jamie e Cercei Lannister.

Uno, perché non so gemelli, lui è più grande.

Due, perché non se bombano e MAI lo faranno, il solo pensiero fa vomitare entrambi, credete a me.

TUTTAVIA, il loro è VEROH AMORE, credetemi anche su questo. Lo capirete leggendo, ma il legame che vincola i fratelli Murray è primitivo, viscerale e sincero, e sarà il cardine principale della storia intera.

Perché come ho detto, in 'sta storia ce stanno i TRAUMI.

Uno in particolare sicuro l'avete già capito da trama e prologo:

Jesse è un malato terminale e a breve 🪦🪦🪦🪦💀💀💀⚰️⚰️⚰️

Quindi...

Sì.

LACRIME + TRAUMI + LEGAME FRATERNO = Apologia di Callisto

Ma non temete, non piangerete ad ogni capitolo, so sadica e masochista, ma so compensare al dolore anche con le risate.

Riderete anche, fidatevi di me, muffins

Non vorrei gasamme troppo e apparire come quelle autrici che se autopompano in modo immeritato, ma me la cavo bene a fare ridere la gente 💅🏻

Un'altra cosa importante:

Come avrete potuto leggere dagli altri due punti di "cose che mai scriverò" in questa storia posso garantirvi una cosa, già intuita da questo capitolo.

Sì, il bad boy ci sta.

No, non ci starà una relazione tossica.

Difficile a credersi, ma un BADDE BOIH può essere tale anche senza abusare/prendere a pezze in faccia/(simil) violentare/ignorare la volontà e il consenso della sua Hope Summer Verginy.

Lo so, na leggenda, er mistico, l'inconcepibile, più probabile mia nonna siciliana che rinunci alla frittura che un BADDE BOIH del genere.

Ma credete a me, è così.

Questa storia non agisce con il favore della tossicità (semicit.)

In apparenza da questo capitolo e dalla trama Callisto può apparire la classica Hope Summer Verginy, alla fine i requisiti ce so tutti:

- Casta e purah

- Innocienteh

- Ha avuto solo il fratello come compagnia

- Sindrome da crocerossina già scorta dal primo capitolo con la pomata

MEH

Siamo agli inizi, muffins, non fidatevi troppo delle apparenze.

C'è un motivo per cui Callisto è ossessionata così dai lividi.

Così come c'è un motivo per cui insiste così tanto perché Badde boih se li guarisca, pur essendo lui un totale sconosciuto e anche stronzo, per lei.

Ma no, non riguarda Er fascinoh TENEBbbROSOH.

Come detto, Callisto può sembrare Hope Summer Verginy, ma non credeteci così tanto.

V'assicuro: il cervello ce l'ha.

E non è nemmeno casta come può sembrare a primo acchito.

Stessa cosa de LVI: Ruben, Er manzo de questa storia, infame snobbatore de pomate per lividi.

In apparenza ha tutti i requisiti per diventare il nuovo Hardin:

- Tatuaggio

- Piercing

- Lividi

Ma no, non affidatevi troppo a sta prima impressione.

Chi mi legge già da anni lo sa, per i nuovi lo dico:

A me piace na marea rivoltare gli stereotipi usati e riusati dalle storie trash, mostrarli all'inizio e poi rivoltarli come un calzino per far vedere che sotto la superficie c'è ben altro.

Ruben NON È un BADDE BOIH di quelli che sono tossici al massimo e se ne sbattono le palle del consenso della loro Hope: un Toxic Boy.

Semmai un giorno scriverò un TOXIC BOIH del genere, farò harakiri: il solo modo per espirare i miei peccati. Di per sé sono gusti, ne sono più che consapevole, e de gustibus non disputandum, e proprio per questo:

A me fanno cagare i Toxic Boys, quindi non li scriverò.

C'è un solo Toxic boih che accetto di quel genere, che abusa del suo potere, mi molesta, non rispetta la mia volontà e se ne fotte del mio consenso.

Uno soltanto.

Oscar.

Sto bastardo:

Al di fuori di lui, nessun altro TOXIC BOIH è accettato come protagonista/love interest delle mie storie.

Detto questo, fatemi sapere cosa ne pensate di questi due primi capitoli! Ci vediamo!

Sciau!

P.s.

Potete trovarmi su

Instagram: sasha_nye_

TikTok: sashanyestories

              sashanye

I due profili TikTok so dovuti al fatto che TikTok infame me aveva mandato per non so quali motivi in shadowban il primo, rippete me.

Vi auguro una buona lettura, se vi va, ditemi pure che ne pensate!

Per il resto, buoni traumi e buone risate anche!

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