Condanna
Capitolo lunghissimo DI NUOVO, lo so, lo so, ma detta in modo elegante e raffinatissimo, da vera lady:
Non c'ho sbatta di dividerlo.
Perciò ecco a voi il capitolo più chilometrico della storia di wattpad.
Ma, di nuovo:
Non c'ho sbatta.
Buona lettura!
*
Quella sera, uscii nella veranda aperta di casa Macks, al piano terra. Era una veranda molto elegante, con il pavimento in legno lucido e il tetto a spiovente, riempita da un tavolino bianco e ovale al suo centro e quattro sedie dello stesso colore a circondarlo, con soffici cuscini dentro cui sprofondare. Un lampadario di legno pendeva dal soffitto, scacciando via le tenebre della notte per illuminare il locale con la sua luce tenue e candida.
Anna era seduta su una delle sedie, nella mano destra una sigaretta appena accesa, nella sinistra un foglio tutto rovinato e sbrindellato sui bordi, sporcato dal tempo, il cui biancore si era annerito a causa degli anni, ingiallito agli angoli. Indossava un pigiama che le aveva prestato (comprato di nascosto) Cindy, una maglia a maniche lunghe celeste e un pantalone dalla tinta identica.
«Ragazzina» mi chiamò, senza sollevare lo sguardo dal foglio che stava scrutando. «Sul serio, in che cazzo di posto mi hai portata?»
Mi ritrovai a ridere senza volerlo, mentre mi andavo a sedere sulla sedia alla sua destra. Anna prese un tiro dalla sigaretta, la steccò sul posacenere sul tavolino davanti a noi. «Inizio a sospettare che voi con la segatura al posto del cervello vi ricerchiate senza saperlo» commentò con uno sbuffo di fumo. «Ma non è così male, rispetto ad altro.»
Mi sistemai meglio sulla sedia, per poi sollevare lo sguardo sul suo viso. Mi dava il profilo, e di nuovo non potei che ritrovarmi ad ammirare la sua bellezza, quella magnificenza che neanche la sua precedente dipendenza dall'eroina era riuscita in alcun modo a depredare. Gli occhi azzurri, chiari e limpidi come un cielo in primavera, erano decorati dalle corolle folte delle ciglia, e la pelle per quanto emaciata continuava a modellare quel volto tanto perfetto.
Da quando era lì, lei e Ruben avevano ripreso a parlarsi, ma era evidente a tutti, specie a me, la difficoltà che avevano nel comunicare, visto che mai, in tutta la vita, l'avevano fatto. L'unico momento in cui veramente parlavano e andavano d'accordo era quando dovevano insultare me, il che in qualche modo mi preoccupava e faceva sentire importante allo stesso tempo.
E anche se lei aveva tentato di nasconderlo e camuffarlo, non avevo potuto fare a meno di notare il modo in cui evitava di pronunciare il nome del figlio, come se le fosse proibito o volesse proibirselo, come se, nella sua mente, non fosse ancora degna di annunciarlo ad alta voce.
Tutte quelle piccole difficoltà erano inevitabili, visto il contesto in cui erano vissuti e il rapporto anomalo che avevano creato tra di loro, ma nello scorgerle non potevo che sentire il cuore indurirsi, patire insieme ai loro, rendendomi conto di quanta distanza ancora li separasse, di quanto ancora non fossero in grado di accettare sé stessi per accettarsi l'un l'altra.
«Cos'è quel foglio?» le domandai alla fine, dopo un attimo di esitazione, e lei corrucciò come al solito la fronte, mentre continuava a fissarlo.
Prese un altro tiro, le palpebre che traballavano, incerta se rispondermi o meno. Alla fine, dopo qualche minuto di silenzio, mormorò con voce roca: «Il ritratto che gli fece Pop.»
Sobbalzai sorpresa. Non me l'aspettavo. Rimasi talmente stupefatta da non riuscire più a parlare o pensare. Anna, dopo qualche altro istante di mutismo, riprese a spiegarmi: «Il giorno in cui quel tossico morì, lui buttò questo ritratto nella spazzatura.» Continuava a studiare il foglio con attenzione, come se si aspettasse che le rivelasse i segreti e le risposte necessarie per riuscire, finalmente, a mettere ordine alla sua vita. «Non so perché, ma ho pensato che un giorno se ne sarebbe pentito, così l'ho tolto dal cestino e l'ho conservato.»
Senza volerlo, mi ritrovai a sorridere, con un calore di dolore e gioia a diffondersi in tutti i miei anfratti, scorrere insieme al sangue. Di nuovo, per l'ennesima volta senza accorgersene, mi stava dimostrando quanto madre fosse, lei che ad oggi si considerava uguale a Jennifer Murray. «Fa piuttosto schifo, se devo essere sincera» continuò. «Non si capisce manco che è un bambino, davvero, sembra uno stupro di matita che ogni tanto c'ha la faccia umana. Oltre che tossico quel tizio era anche un artista di merda.»
Non potevo guardare il disegno da dove mi trovavo, non le ero così distante, ma nemmeno abbastanza vicina per poter osservare a mia volta quel ritratto. Dal modo in cui era stato piegato, però, con le stesse linee a demarcarlo, mi risultò evidente che, sebbene in quelle condizioni pietose, lei avesse fatto di tutto per evitare di danneggiarlo ulteriormente.
«Lo conoscevi bene, Pop?» le domandai a quel punto, ancora esitante.
Anna si strinse nelle spalle, sbuffò un'altra nuvola di fumo. «Era un tossico come tanti, e proprio come tutti i tossici raccontava stronzate su stronzate, l'unica cosa che lo distingueva era che ci stava abbastanza col cervello quando non era fatto o in astinenza - il che non me lo spiego ancora, visti tutti gli anni in cui si schizzava quella merda - e che non gli piaceva indurre gli altri a seguire la sua strada.» Corrucciò ancor più la fronte, aspirò ancora dalla sigaretta. «Gli piaceva fingersi l'uomo vissuto, quello che sparava consigli da vecchio per credersi chissà che maestro, ma in realtà era solo un tossico e basta.»
Eppure, persino lei, seppur cercasse di insultarlo in continuazione, non poteva nascondere nella voce quella sorta di tenerezza che caratterizzava anche quella di Ruben, ogni volta che mi parlava di quel tossico che mai avrei potuto conoscere. Compresi allora che anche Anna, a suo modo, aveva instaurato un legame con Pop, nel tentativo di scoprire tutto quello che poteva sul figlio.
Forse anche a lei Pop aveva cambiato la vita, il modo in cui aveva deciso di affrontarla, rendendola quella che era adesso.
«Lui mi sgamò subito.»
Sollevai le sopracciglia, senza comprendere, Anna espirò un'altra nuvola di nicotina.
«La prima volta che andai a parlargli» spiegò con voce roca, «la prima cosa che mi chiese fu: "Perché l'hai chiamato così"?»
Sussultai ancora sulla sedia. Non ci avevo mai pensato. Il nome "Ruben", effettivamente, era un nome piuttosto difficile da incontrare. «Lo avevi scelto perché aveva un significato particolare?»
«Ragazzina, la segatura che hai in testa non smetterà mai di stupirmi. Ti ricordo che sono una puttana tossica, non ho mai preso il diploma o studiato davvero, secondo te ho mai avuto le conoscenze o gli strumenti per andarmi a cercare il significato di un nome?» replicò, la solita spietatezza, ma non riuscii a trattenermi dal sorridere. «No, non è per il significato, non lo so manco, quale è il suo significato.» Dondolò la sigaretta tra le dita, a mo' di balletto. «Era il nome di uno dei miei clienti, il più assurdo e stupido che abbia mai incontrato.»
Sgranai gli occhi, sorpresa. «Un cliente?»
Annuì, prese un altro tiro, le sopracciglia ancora aggrottate. «Ho iniziato a fare la puttana appena cacciata di casa. Ai clienti non gliene fotteva un cazzo che fossi incinta, figurarsi, la maggior parte di loro vogliono solo un buco in cui ficcartelo dentro, manco guardano il resto. Finché respiri, sei donna e c'hai le tue due bocche, sei tutto ciò di cui hanno bisogno.» Steccò ancora la sigaretta sul posacenere. «Tra i miei clienti ce n'era uno particolare, uno che non ho mai capito davvero. Veniva da me, mi pagava più di tutti gli altri, ma non voleva facessimo niente.»
La guardai sempre più confusa, Anna sbuffò di nuovo. «Era un vecchio decrepito forse quasi quanto Pop, con la differenza che non era tossico e non sparava balle. L'unica cosa che voleva era che chiacchierassimo un po', tutto qua.»
Non riuscivo proprio a immaginarmelo, ma nel mondo, in effetti, c'erano così tante persone diverse e così tanti caratteri diversi, da non essere poi così impossibile una vicenda del genere. «E di cosa parlavate?»
«Stronzate, principalmente. Com'era andata la giornata, cosa avremmo mangiato per cena, qual era il nostro colore preferito. Domande stupide, davvero, per cui pagava fior di quattrini in confronto agli altri. È stato principalmente grazie a quei soldi che sono riuscita a comprarmi a nero quel buco d'appartamento in cui vivevamo.»
Ero incredula, anche quella, sotto certi aspetti, come la storia d'amore tra Michael e Cindy, sembrava la scena di un film.
«Non ti ha mai detto perché?»
«No, e a me non me ne fregava poi molto, mi bastava che pagasse.» Spense il mozzicone dentro il posacenere, tornò a guardare il foglio, la fronte contratta. «Ma se vai da una puttana solo per chiacchierare, persino una come me lo capisce: non hai nessun altro con cui farlo e sei talmente solo che sei disposto a tutto per smettere di sentirti così, anche solo per un'ora.»
Un'altra fitta andò ad addolorarmi il cuore, mentre provavo a immaginare un uomo simile, un anziano del genere, che pur di prendere un po' d'aria dalla solitudine in cui affogava ogni giorno era disposto a pagare una prostituta per scambiare qualche chiacchiera inutile.
«Si chiamava Ruben?»
«Già.» Anna schioccò la bocca. «Era il solo che ogni tanto mi chiedeva come andasse con la gravidanza, se c'avessi dolori, voglie o robe simili. Mi sa proprio che era l'unico che aveva notato che ero incinta. Beh, c'è da dire che, a differenza di altre gravide, a me il pancione, anche alla fine, non si vedeva poi tanto.»
Chiusi la mano libera in un pugno, mentre un'altra ondata di dolore mi sommergeva. Tutte quelle parole lasciavano intendere ben altre cose: quell'anziano, seppur particolare, era stata l'unica a trattarla, anche se in modo superficiale, come un essere umano e accorgersi delle sue condizioni. E anche se non me l'aveva detto, sospettavo che il motivo per cui la sua gravidanza non era così evidente non era tanto per una sua predisposizione fisica - o forse anche per quella - quanto per la sua impossibilità di mangiare e nutrirsi come dovrebbe fare davvero una donna incinta.
«Morì poco prima che sgravassi» continuò Anna. «Si ammazzò nella sua stessa casa impiccandosi. Me lo disse un altro cliente.»
Sussultai di nuovo, pugnalata ancora una volta dal dolore, ma lo sguardo di Anna restò severo e accartocciato come sempre, ancora fisso sul ritratto di Pop, la voce la solita: dura e grinzosa.
«Non ne rimasi sorpresa, c'aveva proprio l'aria di uno che al mattino pensa subito a bere candeggina invece che latte» commentò lei. «Però, quando lo sgravai e mi toccò scegliere un nome, nel guardarlo, non so perché, mi venne in mente il suo, e così glielo diedi.»
La malinconia mi travolse nel rendermi conto, ancora una volta, di quanto fosse inconsapevole di sé stessa e di quel che provava. A suo modo, si era affezionata a quel cliente, proprio perché era l'unico che non la usava come oggetto, come "un buco" in cui sfogarsi, forse la persona più "buona" che avesse mai incontrato fino a quel momento, e proprio per questo motivo aveva deciso di chiamare il figlio così. Forse, nell'inconscio, aveva sperato che dargli quel nome fosse un auspicio affinché anche Ruben incarnasse quell'umanità per lei così rara da vedere, in cui neanche credeva del tutto.
«È un bel nome» dichiarai alla fine, cercando di nascondere l'agonia che mi stava travolgendo ed ero certa stesse travolgendo anche lei, pur non notandola. «Mio fratello era ossessionato coi nomi, sai? Fu lui a chiamarmi così.»
«C'aveva gusti di merda, lasciatelo dire.»
Scoppiai a ridere. «Lo scelse perché significava "Bellissima"» proseguii. «Diceva che quando scegliamo il nome per un altro essere umano, bisogna pensare molto al suo significato, e non penso intendesse solo quello letterale.» Il ricordo della nostra ultima conversazione, poche ore prima che il momento giungesse, mi travolse, andando a intingere nel sangue sofferenza e sollievo. «Anche tu lo hai fatto, hai scelto con attenzione. Pop si sarà accorto di questo.»
Lei serrò la mascella, rimase in silenzio per qualche minuto, a digerire le mie parole, cercare di dar loro un senso che non riusciva a trovare, proprio come quel ritratto che non aveva una vera forma. «Può darsi» ammise alla fine, schioccando di nuovo la lingua. «Rimane comunque un tossico decrepito.»
Mi venne da ridere ancora. Tornai a guardare il foglio: se l'aveva con sé anche adesso, significava che l'aveva tenuto addosso per tutto quel tempo, e probabilmente lo faceva da anni, nel tentativo di aspettare l'occasione perfetta per restituirlo al figlio. Forse, non ne era stata in grado perché non aveva ancora trovato un modo per darglielo senza che lui intuisse subito che era stata lei a conservarlo.
«Anna» la chiamai alla fine, guardando il tavolo davanti a noi, il mozzicone spento nel posacenere. «So che non mi crederai, dato che per te sono solo un'estranea, ma ai miei occhi tu sei una mamma fantastica.»
Non potevo vederla, ma la sentii sussultare. «Mia madre, Jennifer, diceva sempre di amare mio fratello» continuai a quel punto. «Parlava con lui ogni giorno, ma di lui, in realtà, non sapeva proprio niente, neanche quale fosse il suo sogno prima che si ammalasse: diventare un calciatore professionista. E non perché lui non glielo dicesse, semplicemente ascoltava solo quello che le interessava e fingeva che le altri parti non ci fossero mai state, se le dimenticava proprio.» Un'altra pulsazione di amarezza andò a sostituire il battito del cuore.
«Lo trattava come uno strumento, come un oggetto con cui poter elevarsi ancor più sopra gli altri, lo aveva messo al mondo con quel solo obiettivo. Lei, sai, odiava le gravidanze: era fissata con il suo aspetto, aveva il terrore che rimanendo incinta avrebbe perso la sua linea e la sua bellezza. Ma il desiderio di avere un figlio che aumentasse il suo potere e il suo ego era così grande da costringerla a tollerare la gravidanza. Era talmente ossessionata da ciò che sia lei che mio padre si rifiutavano di accettare che sarebbe morto, di preparargli il funerale anche quando ormai non mancava più molto. Hai visto il video anche tu, sai come si comportavano davanti alle conseguenze della malattia e le terapie di Jesse.»
Sentii la mia voce incrinarsi, ma mi sforzai di continuare.
«Molti pensano che io sono stata quella che ha sofferto di più a causa dei miei genitori, ma anche Jesse ha sofferto altrettanto. Forse non lo seviziavano come me, ma comportandosi così con lui, lo devastavano ugualmente. Jesse non ne parlava mai, continuava sempre a fare battute, ma so che pativa molto tutto ciò. Specie dopo che si è ammalato, quando hanno preso a negare il fatto che sarebbe morto prima di tutti. Inevitabilmente, anche se consapevole di quanto idioti fossero a farlo, si ritrovava davvero a sperare che avessero ragione e questo, lo so, lo agonizzava.»
Le lacrime andarono a gonfiarmi la gola, dilatandola e squarciandola, mi sforzai di mandarle giù deglutendo, con gli occhi ancora fissi sul posacenere.
«Mia madre mai avrebbe conservato per così tanti anni quel ritratto, al posto tuo. Mai avrebbe stretto un patto con Rick per proteggere il proprio figlio. Mai avrebbe accettato di iniettarsi eroina solo per siglarlo e rischiare così la vita. Mai avrebbe salvato la ragazza a cui il figlio teneva, vista solo una volta, mettendosi in pericolo in quel modo, solo perché sapeva lui ne avrebbe sofferto. Mai gli avrebbe dato il nome dell'unica persona che è stata gentile con lei.»
La sentii inspirare a fondo, allo stesso modo in cui faceva il figlio quando era tormentato da emozioni troppo forti perché potesse sopportarle senza fare niente.
«L'unico motivo per cui continuo e continuerò a chiamarla "mamma" non è perché la considero tale, ma perché lei ha messo al mondo mio fratello, e smettere di chiamarla così, per me, significherebbe anche negare di essere la sorella di Jesse. E anche perché, non lo nego, so quanto detesti avermi come figlia, quindi è un'offesa ancor più grande per lei, il fatto che proseguirò a definirla in questo modo.» Sbattei le ciglia. «Ma quando definisco te "madre", lo faccio perché lo sei davvero, in tutto e per tutto.»
Mi tremava la mano, chiusi il pugno con ancora più forza, fino a sentire le unghie tranciare la carne del palmo.
«Forse, nel mondo esterno, il modo in cui hai protetto Ruben e in cui hai cercato di legarti a lui può essere considerato "sbagliato", ma per me è stato il più buono e gentile che potessi trovare nella tua situazione e con il tuo vissuto. Perciò, Anna, non devi vergognarti nel pronunciare il suo nome e ridargli quel ritratto, tu più di tutti hai il diritto di farlo. E sono certa che Ruben ne sarebbe felicissimo, quanto o addirittura più di te. Non devi farlo subito, se non vuoi, prenditi tutto il tempo che ti serve, non ho la pretesa che le mie parole bastino per farti cambiare idea.»
Finalmente, ripescai il coraggio di guardarla di nuovo in viso: il dolore che le corrodeva lo sguardo si diffuse a macchia d'olio nel mio cuore, il modo in cui si violentava la faccia per non farsi trascinare dalle onde della sofferenza, per evitare di schiantarsi contro gli scogli del tormento, in cui sopprimeva le lacrime agli occhi aggrottando il più possibile le sopracciglia e impedendo alle labbra di tremare.
E sapevo, in realtà, che non mi credeva davvero, non del tutto, almeno, ma al contempo da anni sognava che qualcuno le dicesse quelle parole, quelle sole parole che mai avrebbe creduto mai le sarebbero state rivolte, le sole che potessero sollevarle un po' del peso che le gravava sulle spalle.
«Sei davvero un'idiota, ragazzina» mormorò alla fine, con voce roca, stringendo con violenza il foglio. «Un'idiota incredibile.»
Risi di nuovo.
*
Jennifer Murray uscì dalla prognosi riservata due settimane dopo, e anche se non venni informata sulle sue esatte condizioni, mi fu abbastanza chiaro il fatto che, sebbene ancora in vita, mai più sarebbe stata in salute come una volta.
Il processo sarebbe partito ad aprile di quell'anno, il 12, e sia io che Kevin, per non parlare del viceprocuratore, iniziammo da subito a prepararci ad esso. Sarebbe stato a porte aperte, il che significava che tutto il mondo ne sarebbe stato spettatore, nonostante Kevin fosse contrario a ciò, ma era inevitabile, mi disse: il viceprocuratore voleva utilizzare ad ogni costo quel caso per far bella figura per le prossime elezioni. "Avvoltoio" lo chiamò, proprio come i giornalisti.
A me, in realtà, non interessò molto. In parte, anzi, ero piuttosto certa che Jesse sarebbe stato felice di ciò: un'altra, gigantesca umiliazione per i miei genitori. Le possibilità che perdessi in aula erano praticamente nulle, più volte me lo ripeterono, visto che la difesa era nei guai fino al collo, proprio a causa dei miei genitori, che rifiutavano qualsiasi forma di patteggiamento e continuavano ad accusare me, la vittima, di essere colei che si era inventata tutto, pur davanti alle mille prove che non solo Jesse aveva portato nel video, ma anche quelle che la scientifica aveva trovato nel nostro appartamento.
Certo, l'idea di andare in tribunale, di testimoniare, sentirmi accusare di essere una bugiarda patologica davanti a una giuria, avere le telecamere di tutti i giornalisti addosso, non mi rallegrava affatto, ma sentivo che era la cosa giusta da fare perché i coniugi Murray pagassero fino in fondo la pena di aver rovinato entrambi i loro figli. Sentivo di esser abbastanza forte e coraggiosa per sopportarlo e ottenere, una volta e per sempre, la giustizia che sia io che Jesse meritavamo.
Passarono le vacanze di Natale che trascorremmo a casa Macks. Cindy fu estasiata da ciò, adorava festeggiare il Natale in compagnia, per non parlare di Michael che, al pensiero di non dover condividere quella festività con la presenza della suocera là, regalò ad Anna, per ringraziarla di aver tolto di mezzo la sua nemica giurata, una stecca di sigarette e uno stereo, dopo aver saputo da Cindy che lei canticchiava spesso tra sé e sé.
Davanti a quei regali e, soprattutto, allo sguardo estasiato con cui Michael glieli diede, quasi in lacrime, Anna corrugò la fronte confusa e gli domandò: «Sul serio, che cazzo di problemi avete in questa famiglia?»
«Uno solo, Anna, si chiama Barbara.»
«Ti giuro che mi fai venir voglia di comprare di nuovo quella merda, solo per vedere se davvero la utilizzeresti per mandare in overdose tua suocera.»
«La prego, la supplico, Anna, lo faccia. Attendo un'occasione simile da anni. Se lo farà, diventerò anche io credente, ma lei sarà il mio Dio.»
Io e Kevin iniziammo a cercare una casa in affitto per le occasioni in cui non sarei potuta restare ai dormitori della scuola. Michael e James ci aiutarono tantissimo, il primo a valutare i prezzi e la sicurezza dell'abitazione (grazie al suo passato da svaligiatore), il secondo, esperto della tecnologica, a trovare le varie offerte.
Alla fine, ne scelsi una, quella che più convinse sia me che Kevin: una piccola villetta a qualche isolato da casa Macks - Cindy ed Eve avevano preteso che non fossi troppo distante da loro, nel caso ci fosse un'emergenza - che era più che altro un monolocale sotto forma di casa autonoma, circondato da altre villette simili, dotato di un giardino minuscolo che, però, mi aveva incantato subito. Avendo sempre vissuto in un appartamento, avevo sempre sognato, da grande, di avere un cortile tutto mio in cui poter leggere un libro o godermi l'estate.
Il 3 gennaio, due giorni dopo essermi finalmente tolta il tutore al braccio ed esser stata definita "guarita" oltre ogni modo, ottenni le chiavi di quella villetta e mi ci trasferii. Per festeggiare la mia prima vera casa, la mia amica mi costrinse ad indossare gli abiti che mi aveva regalato per Natale: una gonna nera, a pieghe e vita alta, che arrivava alle ginocchia, un maglioncino di lana rosa, dai bottoni giganteschi, incastrato sulla vita elasticizzata della gonna stessa, e un paio di autoreggenti sempre nere perché, secondo lei, le autoreggenti erano il segno distintivo di una donna.
In verità ero piuttosto certa me le avesse fatte mettere perché sapeva benissimo che da sola non avrei mai avuto motivo e desiderio di farlo. Mi vergognavo da morire, mai avevo indossato biancheria del genere, ma non osavo ribellarmi alle stelle che splendevano al posto dei suoi occhi mentre mi rimirava in quell'outfit, soprattutto dopo tutto quello che lei e la sua famiglia avevano fatto per me.
Fui solo grata che la gonna fosse abbastanza lunga da far credere che quelle che indossavo non fossero autoreggenti, ma collant.
L'entusiasmo di Eve, tuttavia, si smorzò subito, sostituito invece da una grande disperazione, quando uscii dalla porta di casa Macks, con la valigia già pronta. Mi strinse a sé e mi supplicò di restare ancora un po' - anche perché così poteva continuare a shipparmi con Ruben, ma questo me lo disse sottovoce all'orecchio, di modo che io fossi la sola a sentirla. Cindy, dietro di lei, con un fazzoletto già ad asciugarle gli occhi, annuiva freneticamente: ero sicura che stesse piangendo per lo stesso identico motivo.
E proprio in quell'attimo, Ruben mi afferrò per il colletto della mia giacca e iniziò a trascinarmi con forza verso la macchina di Kevin, già pronta con tutte le mie cose, strappandomi con furia dall'abbraccio di Eve.
Risi un po', non posso negarlo.
Il monolocale che avevo scelto era proprio nei miei gusti: non troppo moderno ma neanche troppo antiquato, piccolo, ma non minuscolo. Ai miei occhi, era un vero e proprio gioiello. Aveva un corto corridoio d'ingresso un po' stretto, dai muri bianchi, che poi si slargava e mostrava la stanza: un pavimento in laminato dal colore del cioccolato, pareti dalla tinta in crema, un letto matrimoniale attaccato alla parete destra, con un piumone azzurro già pronto per essere usato, un tavolino in legno, ovale, al centro della stanza dove mangiare, e sulla sinistra, invece, i fornelli ad induzione, il forno statico incastrato sotto il mobile del lavandino, il frigo d'acciaio e anche un microonde sul ripiano in granito della cucina. Sopra di esso, i vari pensili, anche loro in legno, che quel giorno riempimmo con la prima spesa appena fatta per me stessa.
Kevin e Ruben mi aiutarono col trasferimento, a disfare le poche cose che avevo. Gli effetti personali di Jesse, invece, li avrei portati con me ai dormitori. Avevo la sensazione che sarebbe stato proprio lì, in quel posto in cui mio fratello, mentendomi, mi aveva mandato per salvarmi, che avrei trovato il coraggio per guardarli.
Ci impiegammo due ore, ma il risultato fu soddisfacente. Di mio, in realtà, non avevo granché a parte i vestiti e qualche libro, la maggior parte dei miei averi li avrei lasciati ai dormitori. Quando terminammo, era ormai tardo pomeriggio, Kevin sospirò e guardò l'orologio da polso. «Devo andare» ci disse, «ho un incontro col viceprocuratore, l'ennesimo, mi sta facendo disperare più di quanto non faccia già la famiglia Macks.»
Sollevò lo sguardo verso me e Ruben, davanti a lui, e si massaggiò la fronte. «Adesso riposate, credo che tutti quanti noi ne abbiamo bisogno, tra pochi mesi inizierà il delirio, godiamoci questa pace più che possiamo.»
Annuii a fatica, e lo accompagnai verso la porta, scambiandomi con lui qualche altra informazione in merito a come procedere per gli avvenimenti futuri. Prima di uscire, Kevin mi sorrise: il suo sorriso non più professionale, ma paterno, quello con cui mi aveva dato l'ultima spinta per dire "Sono pronta", e mi carezzò il capo.
«Ottimo lavoro, Callisto Murray» disse. «Ottimo lavoro.»
E io sorrisi a mia volta.
Lo salutai ancora, mentre lui se ne andava, e quando richiusi l'uscio e mi voltai, pronta per chiedere a Ruben se voleva restare lì a cena, senza alcun preavviso, senza alcuna esitazione da parte sua, la sua bocca mi aggredì.
La sorpresa fu talmente tanta che le chiavi mi caddero di mano e mi ritrovai ad indietreggiare senza volerlo. Allora lui ne approfittò per schiacciarmi contro la porta, col suo corpo gigante a intrappolare il mio che, in confronto, era una mollica.
Mi schiuse le labbra con le proprie, con una violenza e un fermento tali da farmi singhiozzare, la lingua prevaricò su ogni cosa, andò a levigare anche il più piccolo suono che provavo ad emettere, a legarsi alla mia per impedirle di parlare, tra mosse e carezze dissolute che bastarono perché la testa mi iniziasse a girare.
Per qualche secondo fui preda assoluta di istinti e sensazioni, la mente si annientò del tutto, i pensieri si fusero con le pulsioni del corpo, solo attraverso quest'ultimo ero ancora in grado di udirli: gridavano uniti alle cellule il desiderio primitivo che mi stava scuotendo dall'attimo in cui mi aveva ingabbiata così, come un animale lui e come un animale io.
Tentai in ogni modo di ricostruire una sorta di razionalità, ma mi venne impossibile riuscirci sotto i suoi tocchi spudorati, le mani che mi setacciavano ogni centimetro del corpo attraverso i vestiti, i suoi baci che di volta in volta si facevano più profondi e prevaricanti, il suo corpo che continuava a opprimermi lì, tra lui e la porta, quasi incastrata tra due muri.
Un solo pensiero lucido mi attraversò la testa, il ricordo di quanto mi aveva detto settimane prima davanti alla macchina: Non avrò alcuna pietà.
E nel riascoltare quel suono, capendo finalmente il suo intrinseco significato, anche il più infinitesimale pezzo che andava a compormi bruciò per la follia di quanto appena compreso.
Non sapevo che fare, non sapevo come muovermi, provai a dimenarmi, a staccarmi da quelle labbra per dirgli qualcosa, qualsiasi cosa, ma lui mi spinse ancora contro la porta, la mia schiena batté sul suo legno, e le sue mani mi strinsero violente le natiche, spingendo il mio bacino contro il suo fino a farmi percepire quell'eccitazione che lo stava corrodendo quanto ora corrodeva me.
Squittii tra la disperazione e l'impazienza, con il cuore che si consumava come una supernova e ardeva tutto il sangue, fino a trasformare vene e capillari in una ragnatela di fiamme. Mi sembrava di essere finita in un altro universo, uno in cui solo coi corpi e la sessualità si poteva comunicare, in cui le parole, il verbo umano, non erano che un lontano ricordo, e ogni sillaba veniva invece pronunciata dai tocchi, i baci, le carezze disinibite.
Mi aggrappai con le dita al suo petto, alla sua camicia bianca, e persi il senno di quanto avrei dovuto fare o pensare. Ero sconvolta dal modo in cui con quel suo singolo gesto irruento mi ero trasformata in pura carnalità: lo volevo e basta, adesso, in quell'esatto momento.
Sebbene un attimo prima stessi pensando tutt'altro, sebbene un attimo prima fossi pace assoluta e quiete nell'animo, gli era bastato solo intrappolarmi così per scatenare la guerra in me e farmi singhiozzare tra le sue labbra, supplicarlo col corpo di farmi tutto ciò che voleva.
Il potere che aveva su di me, quel modo che aveva di condurre la mia indole di solito così serena in un ginepraio di istinti, mi induceva a temerlo e al contempo venerarlo. Sentivo già il calore bagnato pulsarmi tra le cosce, aumentare a velocità folle ogni volta che sfiorava il suo marmoreo, che si strofinavano in continuazione, l'uno a tentare di spadroneggiare sull'altro e viceversa.
Le sue dita mi strinsero con forza il sedere, sotto la gonna che aveva sollevato senza esitazione, arpionando la pelle nuda dei glutei; singhiozzai ancora e mi ritrovai in balia del delirio a sbottonargli la camicia, ma la smania era così tanta che a fatica arrivai a metà strada, prima che lui mi sbattesse di nuovo, irruento, contro la porta, per sottomettermi al suo desiderio folle.
Avrei voluto dirgli qualcosa, nel tentativo di calmare gli animi di tutti e due, sentivo che in quell'occasione, nel perderci così, avremmo raggiunto un livello che non ero sicura fossimo pronti a vivere insieme; ma la sua determinazione era così salda da indurre le mie incertezze a crollare in un attimo, sgretolarsi come crackers sotto la pianta di un piede.
Continuava a baciarmi, a mangiare tutte le mie parole, quasi sapesse già che se le avesse lasciate uscire, avrei tentato di frenare il nostro bisogno. La sua lingua scavava e modellava, continuava a tessere quel filo che si stava infiocchettando al cuore di entrambi, collegandoli inesorabilmente a un fato di impulsi.
Si spingeva contro di me per farmi capire chiaramente quanto e come mi desiderava e quanto e come sapeva lo desiderassi a mia volta, e a quel punto non potei che considerarmi sconfitta, non potei che chiudere gli occhi e arrendermi a quella volontà che ci aveva fuso insieme, lì e ora.
Lasciai che fosse quell'istinto a parlare per me, le mie mani scesero dal suo petto alla sua vita, arrivarono alla cintura dei pantaloni, e così le sue tra le mie cosce, scivolarono sotto gli slip. Sussultammo quando ciascuno di noi trovò l'eccitazione dell'altro, la sua a indurirsi e accalorarsi sempre più nel mio palmo che lo carezzava scattante, la mia ad ammorbidirsi e inumidirsi sempre più con l'intrusione delle sue dita.
Sobbalzavamo insieme, predatori e prede nello stesso momento, a divorarci con le labbra e scoprirci a vicenda. Le sue dita erano incessanti, non la smettevano di spingersi in me, uscire, spingersi di nuovo, ruotare e quasi ballare, andare a controllare che tutto fosse come doveva essere, che ad ogni loro più piccolo sfioramento quel madido calore che mi consumava dentro si amplificasse fino all'estremo, fino a farmi tremare le gambe.
Così io tormentavo lui, provocandolo a mia volta, senza mai smettere di risalire e ridiscendere con la mano sulla sua eccitazione, ad assicurarmi che rispondesse anche al tocco più ingenuo, che continuasse a pulsare e ribollire sotto la mia stretta che non smetteva di pomparlo in su e in giù, di carezzarne ciascuna parte.
La sua bocca mangiava i miei gemiti, la mia i suoi respiri gutturali, le lingue che proseguivano la loro lotta in riflesso a quella che stavamo avendo più in basso con le nostre stesse mani.
Ero fuori di me, sapevo solo di non voler interrompere qualunque cosa noi stessimo creando in quel momento. Mi spingevo contro le sue dita più che potevo e così lui faceva con le mie, la sua mano libera scivolò sul mio petto e io non seppi proprio come spiegarmelo, ma nonostante il delirio di quella situazione riuscì nell'impresa in cui avevo fallito poco prima su di lui: sbottonarmi il maglione rosa fino a dove gli era concesso, la vita, dov'era stato incastrato sotto l'elastico della gonna.
Sentii quell'indumento aprirsi in due e cascarmi come un fiore a schiudersi, rivelando il mio torace, il reggiseno di pizzo bianco. Sussultai ancora quando con le dita, feroce, tirò quest'ultimo giù del tutto, per permettere ai seni di emergere, di venir temprati a loro volta dal tocco caldo della sua mano, sedotti sulle punte nell'incastro spietato dei polpastrelli.
Quasi avrei voluto odiarlo, perché in quella follia che ci stava travolgendo lui restava l'unico abbastanza lucido da poter predominare in assoluto. La mia presa sulla sua eccitazione si fece più lenta e delicata, travolta com'ero dalle esortazioni con cui non smetteva di prevaricarmi: le sue dita che mi titillavano, che mi sconfinavano nei recessi, le altre che inglobavano il mio seno, lo serravano con forza nel palmo, ne tiravano furenti il capezzolo, la bocca che mi assaporava nell'eternità di quel bacio.
Ed era questo il suo intento, lo sapevo bene, e proprio per questo lo detestavo e adoravo al tempo stesso. Mi ritrovai a tremare, mentre avvertivo l'ormai noto preludio del piacere assoluto a contrarmi i muscoli interni tra le gambe, quelli che stava invogliando, far scivolare la lussuria nella carne, trasmetterla al sangue e poi al resto del corpo.
Sotto la sua esperienza, mi trasformavo in una macchina, un vero e proprio circuito elettrico di bramosia che era lui ad accendere, e adesso la luce mi stava abbagliando ogni cellula, stava rivestendo tutte le sfaccettature del mio spirito e fisico, e lui aumentava la forza con cui renderla ancor più sfolgorante.
Mi ritrovai ad aggrapparmi di nuovo alla sua camicia, e lui mi schiacciò ancor più contro la porta, fino a quando non ebbi un solo centimetro di libertà per muovermi, e sotto quell'ultimo scontro persino i miei ultimi blocchi mentali, i pochi che mi erano rimasti, si sciolsero per far spazio alla pazzia totale.
Il circuito si fuse, la corrente ad attraversarlo fu troppa, l'elettricità lo travolse senza che più potesse contenerlo, stesso accadde a me: mi fusi e mi sciolsi, persi ogni mio senso che non fosse quello del piacere, dimenandomi ovunque sotto di lui, gemendo nella sua bocca, mentre il delirio si impossessava dei miei anfratti da lui scandagliati, e tutto si contorceva e così i miei pensieri e le mie sensazioni.
Accompagnò ogni spasmo, uno dopo l'altro, li aiutò a perdurare il più a lungo possibile sotto lo scatto delle dita, la presa quasi violenta sul seno e il collante delle bocche. Gli strinsi aggressiva la camicia, fino a quando non mi tesi del tutto, non gli gridai tra le labbra, dilaniata dall'ultima contrazione che mi mise in tensione ovunque, persino nelle ciglia.
Una cascata di soddisfazione pura mi cadde addosso l'attimo dopo, in quell'istante in cui muscoli e nervi poterono rilassarsi per festeggiare la felicità che li aveva posseduti poco prima. Le sue labbra si staccarono dalle mie, e non ebbi modo di dirgli qualcosa, di chiedergli qualcosa, mi afferrò per le spalle e mi costrinse a voltarmi con la faccia verso la porta, le mie mani su di essa, ancora in piedi.
Sussultai ancora, sapevo già che quella sensazione di rilassamento non mi sarebbe stata concessa un istante di più. Udii lo specifico suono di un pacchetto che veniva scartato e la consapevolezza di quanto stava per accadere, della sua presenza dietro di me, la sua eccitazione, il modo in cui mi avrebbe assalita, tutti questi fattori insieme furono sufficienti per far risalire alle stelle il desiderio, far comprimere le mie parti intime perché si preparassero al meglio per godere della sua offensiva.
Mi afferrò per la vita, mi costrinse a indietreggiare seppur di poco con le gambe, così che fossi inclinata in avanti col busto verso la porta, e per un attimo mi chiesi quando mi avrebbe sfilato gli slip. Sobbalzai ancora non appena percepii le sue dita sollevare l'orlo della gonna, ripiegarlo sopra la mia vita in modo da scoprire il sedere, e scostare brusco il tessuto delle mutandine di lato per rivelare quel che stava nascondendo, quel che lo stava attendendo.
Quel banale gesto che pensavo esistesse solo nei romanzi erotici più assurdi bastò per farmi perdere di nuovo il senno. Mi divaricò di più le gambe ed io feci per voltarmi per guardarlo negli occhi, ma lui decise proprio allora di affondarmi dentro, tutto insieme, tutto d'un colpo, tutto d'un fiato.
Un «Sì!» profondo mi scosse la voce e il corpo. Risorse alla mente quello che mi aveva detto quel giorno, che quando l'avremmo fatto coi vestiti non sarebbe stato per pudore ma per l'esatto contrario, e realizzai quanto avesse ragione. Avere gli abiti addosso tirava ancor più lo spago del mio desiderio, così tanto da indurmi a credere di star sognando, ma era reale, tutto di quello che stavamo costruendo insieme lo era: la sua carne nella mia che la dilatava con forza pulsante e ribollente e i nostri respiri che si univano seppur i volti non potessero guardarsi.
Gemetti ancora quando approfondì quella sua prima spinta fino a non lasciare più un solo centimetro di spazio vuoto in me. Tentai di appiattire le mani contro la porta, per aggrapparmici meglio, pronta a rispondere ai suoi affondi col bacino, ma lui mi afferrò entrambe le braccia. Non mi diede il tempo di chiedergli cosa stesse facendo, me le mise entrambe dietro la schiena, in quel margine d'aria che separava il mio torace dal suo, e le incatenò al suo braccio, mentre con l'altra mano libera mi stringeva la vita, le dita posate in basso sull'addome.
«Rub-»
L'assalto cominciò subito dopo, uccidendomi la voce. Iniziò ad accedere e ritrarsi così, senza mai uscire veramente del tutto, aiutando il mio corpo a seguire il suo ad ogni efferata penetrazione. Mi chiesi come facessi a reggermi ancora in piedi, non lo comprendevo proprio, tutto di quel che stavamo facendo, di quel che stavo provando e vivendo, mi eccitava così tanto da non riuscire neanche a percepire altro.
Entrava, sfondava, si spingeva fino all'ultimo, si ritirava e ricominciava da capo nella sua solita frenesia immorale, agevolando il mio fisico ad accettarlo con la mano sul mio basso ventre che lo accompagnava in quel percorso, mentre mi bloccava le braccia dietro.
Era un'incursione oscena ai miei occhi, l'intimità mi sembrava singhiozzare insieme a me ad ogni centimetro con cui lui la apriva col suo arrivo turbolento. In quella posizione, con i vestiti ancora addosso, lo sentivo in me a un livello primitivo, come veri e propri animali, e questo mi eccitava al punto da farmi credere che lo fossimo diventati davvero. Ero certa che, finito quell'atto, mi sarei vergognata a morte, ma ora che lo stavo vivendo lo amavo alla follia e non potevo che disperarmi entusiasta per questo.
Era brusco e rapido, ma non mancava affatto di intensità, ad ogni assalto mi apriva al massimo, slargava quella cavità dentro cui si gettava e questa si arroventava per lui, si bagnava, pompava e tendeva e rilassava a ritmo con le sue aggressioni da me tanto amate, per rubargli ogni stilla di appagamento, far sì che ad ogni immersione di lui anche lei annegasse.
Il suo respiro contro la mia spalla, i miei versi e lamenti, il rumore dei nostri corpi, la sua eccitazione che irrompeva al mio interno, schiudeva le carni, loro che la blandivano fino a diventare un bagno di fuoco le cui fiamme lei aumentava ad ogni singola spinta violenta, e il suo nome che mi battezzava le labbra vittime di quell'amore incosciente: tutti questi fattori si scontravano, litigavano al punto da perdere le loro singolarità e unirsi insieme, smarrivano i colori che tanto li distinguevano e diventavano un'unica, tormentata sfumatura di lussuria.
Di nuovo avvertii la mia intimità iniziare a contrarsi, l'estasi che ti induceva a credere di star morendo iniziare a irrigidire i nervi, prodotta da quell'incresciosa fabbrica di affondi da lui realizzata; ogni singolo passaggio di quel processo fu commentato dalla mia voce, dai versi affannati che mi scuotevano, i lamenti, il modo in cui lo chiamavo.
E aumentava, aumentava, aumentava, sentii il piacere indicibile tornare, pronto a buttarmi ancora una volta dal precipizio per farmi affogare nel suo oceano, e adesso stavo singhiozzando così forte che a stento respiravo. Più mi avvicinavo a quell'apice, più quei miei singhiozzi si accorciavano, ed ero vicina, così vicina che mi ritrovai a supplicarlo; ma di colpo lui si fermò, dentro di me, senza alcun avvertimento, distruggendo in un istante tutto quell'intricato e perfetto meccanismo che a un attimo avrebbe dato i suoi frutti.
Rabbia, vergogna e delusione mi deturparono i battiti del cuore, così tanto che non riuscii neanche a lamentarmi, a insultarlo o pregarlo; fu come venir catapultati in una tormenta di neve proprio nell'attimo in cui ti stavi per addormentare profondamente nel tuo letto, al caldo sotto le coperte, al fianco del camino acceso.
«Ru-»
Lasciò andare le mie braccia, mi avvolse il torace, mi costrinse a risollevarmi così che la mia schiena fosse contro il suo petto, sebbene arcuata.
Finalmente, udii la sua voce ustionante all'orecchio, puro desiderio: «Ti avevo avvertita: non avrò alcuna pietà.»
E mi chiesi come fosse possibile che solo quelle tre parole bastarono per far sparire così l'ira e indurre di nuovo la brama a travolgermi, perdonargli subito quanto appena fatto solo perché era lui, solo perché eravamo noi.
Senza più muoversi da dentro di me, iniziò a far scivolare le sue mani sul mio corpo, la destra sui seni esposti, a stringerli uno alla volta, la sinistra in basso, sull'elastico della gonna dov'era stato incastrato il maglione rosa. Singhiozzai quando scivolarono sotto di esso. «Io non so se-» ma non seppi che dire, non seppi come spiegare la mia folle paura e pazzia voluttuosa.
Avevo il terrore che sarei esplosa di piacere e al tempo stesso il desiderio irrefrenabile che ciò accadesse subito, ora, in quell'istante. Non riuscivo nemmeno io a comprendermi, mi sentivo come i suoi occhi: cielo sereno da una parte e tormenta d'autunno dall'altra. E quando le sue dita trovarono il fascio di nervi, proprio sopra il luogo in cui ci univamo, sotto il tessuto delle mutandine, e l'altra mano strinse con furia il seno, eccolo che lui riprese il suo crudele assalto senza alcun avvertimento, senza più alcuna briciola di esitazione, con una sola certezza con sé: farmi perdere del tutto il senno a causa dell'estasi, il più in fretta possibile.
E così andò.
Fu troppo, tutto quanto fu troppo: il modo in cui mi tormentava quel fascio di nervi, senza pudore, senza neanche un po' di gentilezza, svergognato e così diretto da dargli subito fuoco. Il modo in cui mi modellò il seno nel palmo, continuandolo a plasmare col tocco, a pizzicarlo sulla punta, farla fremere fino al delirio. Il modo in cui mi assalì con nemmeno una goccia di freno, spingendosi in me, schiudendomi ancora, indietreggiando e ripetendo tutto da capo a velocità animalesca. Il modo in cui le mie carni interne si facevano timbrare da ogni suo colpo funesto, accogliendolo nell'incastro perfetto di fuoco e umidità, divampando e contraendosi per provocarlo e provocarsi. Il modo in cui mi baciò e morse la spalla, e il suo respiro ansimante mi si ruppe dentro, squarciando i miei avidi d'aria e piacere.
Persi tutto quello che ero, a calcarmi fu solo quell'insania che squassò il corpo da capo a piedi, il grido soffocato con cui lasciai uscir fuori la belva di bramosia che mi stava divorando all'interno, da lui generata. Mi aggrappai ai suoi fianchi dietro di me, andando incontro ai suoi affondi più che potevo, spingendo il bacino all'indietro quando lui lo spingeva in avanti, farneticante a causa del delirio, per far ascendere ancor più il circolo di dissennatezza, convincere i muscoli ad assorbire anche il milligrammo più inutile da quella cascata di cupidigia.
Lui mi ustionò il collo con le sue labbra, il suo bacio peccaminoso di bocca, piercing e denti, ed io sussultai stretta tra le sue mani e braccia, stretta attorno a quella prigione di stimoli costanti, gracchiando versi e parole incoscienti, divorata da lui come da me stessa, con le gambe che mi tremavano e si irrigidivano.
I miei polmoni vomitarono un interminabile, sostenuto gemito che sgusciò dalla bocca aperta, mi sentii traboccare tra le gambe e fuori, lo serrai a me il più possibile, strizzando gli occhi, irrigidendomi ovunque nel vano tentativo di non polverizzarmi mentre lo spasmo mi distruggeva pezzo per pezzo con così tanta violenza da farmi godere in ogni cellula.
Quando quei secondi di piacere si conclusero, mi ritrovai a lamentare parole incomprensibili, mentre anche l'ultimo sprazzo di lussuria iniziava a svanirmi dal corpo sciogliendosi in esso così da perdere la sua origine, lasciando alle sue spalle solo l'appagamento a riempirmi tutti i muscoli e nervi.
Cercai di riprendere fiato, ancora aggrappata ai suoi fianchi, chiusi gli occhi, e solo allora mi accorsi che lui non aveva ancora finito. Sobbalzai nel sentirlo muoversi al mio interno l'attimo dopo, oscillando, spingendosi contro le pareti delle carni per fomentarle ancora, ridando vita alla fiamma.
Si strofinò ancora dentro di me, mi tesi di nuovo, ma tutto d'un tratto, proprio come accaduto prima, si fermò. Uscì del tutto ed io mi ritrovai a rischiare di cadere a terra per la delusione, se non fosse stato per le sue braccia che ancora mi sostenevano.
Mi girai per guardarlo, ma di nuovo le sue labbra furono sulle mie, come a volermi impedire a tutti i costi di studiargli il viso in modo lucido. I nostri vestiti caddero a terra uno dopo l'altro con tonfi che alternarono i respiri rovinosi di entrambi. Mi ritrovai nuda come lui, con solo le autoreggenti nere addosso, l'unico indumento che si rifiutò di togliermi, le braccia ad avvolgergli il collo, le sue a stringermi per la schiena e poi il sedere.
Mi afferrò le mani, mi costrinse ad aggrapparmi meglio e con forza al suo collo, e non capii, all'inizio, fino a quando lui non si piegò in basso e le sue braccia non si infilarono sotto le mie cosce.
Un urlo mi esplose dalle labbra quando mi sollevò da terra, a gambe aperte, e lui si posizionò in mezzo ad esse. Finii con le spalle contro la porta, il resto del busto curvato ad arco verso di lui, le mie cosce piegate sopra i suoi avambracci che le sostenevano, le sue mani arpionate ai miei fianchi allo stesso livello dei suoi.
Mi aggrappai con più forza al suo collo, divorata da tutte quelle sensazioni così assurde. Stavamo riproducendo scene che non credevo pensabili nella vita vera, e mi sentivo piuttosto stupida in realtà, perché se ci avessi riflettuto non ne sarei stata così sorpresa: ero molto più piccola e pesavo molto meno di lui, sostenermi in quel modo, rispetto a tante altre cose, non gli doveva essere così difficile.
Un altro grido soffocato mi sfuggì, non appena mi penetrò di nuovo, in quella posizione, aiutandosi con la presa sul mio bacino per indurlo ad andargli incontro. Scivolò fino in fondo con uno scatto rapido ed io chiusi gli occhi per intensificare quella sensazione già assurda al massimo.
E lì si fermò, non si mosse più.
Il mio petto tremava a causa dei respiri sconnessi, mi costrinsi a risollevare le palpebre, a guardarlo per bene per la prima volta in viso.
E ciò che vidi mi lasciò senza fiato, più di quanto non avesse già fatto lui fino ad ora.
I suoi occhi... c'era qualcosa di diverso nei suoi occhi. Come se fosse tormentato da una lotta continua tra gioia e sofferenza, ad incarnarsi proprio nella loro eterocromia, come se stesse cercando, solo nel guardarmi, una risposta in cui non osava sperare. Era eccitato al massimo come me e forse proprio per questo non riusciva più a celare tutti quei sentimenti che aveva camuffato anche a sé stesso per così tanto tempo.
Mi guardava e mi amava.
Proprio così, semplicemente così.
Con il supplizio di chi dell'amore non ne sa niente, di chi lo ritiene solo una leggenda antichissima. Con il tormento di chi non avendolo mai visto non sapeva riconoscere quell'emozione, ma la provava in sé e adesso se n'era accorto, di sentirla, e voleva capire, voleva comprendere a tutti i costi e darle finalmente un nome, perché non riconoscerla lo uccideva tanto quanto non provarla.
E finalmente compresi a cosa si riferiva il suo "Tutto", il "Tutto" per cui non me l'avrebbe fatta passare liscia.
E mi sentii amata anche così, anche se lui non sapeva di amare, perché era quello il più assurdo paradosso dell'amore: ti nasceva dentro e metteva le sue radici nell'anima, che tu lo sapessi distinguere o meno, che tu l'avessi mai visto o meno. Spontaneo quanto il mondo e l'universo stesso, deflagrava nel cuore e ne incantava ogni battito, e tu ti ritrovavi ad ascoltarne la sua sinfonia pur incosciente, a comporla anche se di musica non ne sapevi niente e di note conoscevi solo quelle della violenza.
Restammo a guardarci per un tempo che mi parve interminabile, coi respiri che s'univano quanto lo erano ora i nostri corpi. Lo strazio che gli lessi negli occhi, quella paura inesorabile di non sapersi scoprire pur conoscendosi a fondo, mi indusse a tremare nella sua stretta.
La sua, compresi, non era solo una vendetta, ma l'unico modo che aveva di comunicarmi i suoi turbamenti, quelli di cui era inconsapevole persino adesso e che comunque lo affliggevano così tanto da portarlo a guardarmi così.
Inspirai a fondo, col cuore che traboccava tutto l'amore che il suo ancora non era in grado di far uscire, e tra le labbra che ancora mi tremavano scaturirono le sole parole con cui spiegargli tutto, la sola risposta che stava cercando.
«Ti amo.»
La presa delle sue mani sul mio bacino si fece così forte da farmi quasi male, tutto il suo viso si contrasse, si irrigidì con violenza, e un uragano di emozioni andò a devastargli lo sguardo, in un'oscillazione infinita tra felicità e terrore.
Così lo ripetei ancora: «Ti amo.»
Lui inspirò a fondo, gonfiò il petto, si chinò con furia con il capo su di me, mi baciò funesto.
Allora cominciò a muoversi, ritraendosi subito dalle mie labbra, ed io mi ritrovai a singhiozzare di nuovo, ad aggrapparmi più forte al suo collo.
«Ancora» lo sentii ordinarmi, mentre mi apriva con le sue incursioni, rapido e sadico come sempre, facendo tremare tutto il mio corpo sospeso, retto solo dalle sue braccia. «Ancora.»
Mi guardava con occhi severi, brilli a causa dell'estasi e di quel sentimento appena condiviso, ed ogni volta che mi entrava dentro io mi sentivo sciogliermi e ricompormi.
«Ti amo» singhiozzai a stento, e le sue spinte si fecero più intense, «Ti amo!» e ancora, e ancora, «Ti amo, Ruben!» e le sue mani adesso mi spingevano il bacino contro il suo, una vera e propria guerra tra le nostre intimità, la sua che sfondava la mia, la mia che inglobava la sua, e da quelle incastrature improvvise e torride si generava il bocciolo dell'euforia per entrambi, che accresceva e fioriva di assalto in assalto, sempre di più. «Ti amo! Ti amo!»
L'antagonismo tra il calore impetuoso che si accumulava nei miei recessi e la freddezza del legno sulla mia pelle non fece altro che ampliare la beatitudine di quel bocciolo che iniziava a schiudere i suoi milioni di petali. «Ti amo! Ti amo!»
Era tanto solerte quanto profondo, non permetteva alla marcia celere degli scontri di mancare di carnalità e potenza, e anche se non c'era un istante di pace tra un affondo e un altro, lui mi invadeva fino all'ultimo centimetro, stimolava le mie carni a riprendere la loro evoluzione in fonte di apoteosi materiale. Le sentii ricominciare a contrarsi ad ogni petalo del bocciolo che si spiegava man mano, uno ad uno, e diffondere il profumo dell'inesorabile fine a tutto il resto del corpo ancora tremante, ancora sussultante contro la porta.
Grida e gemiti si susseguivano, suppliche con cui lo pregavo di non fermarsi, altre con cui continuavo a dirgli di amarlo, e lui che ne approfittava per inabissarmi sempre più in quel delirio, per provocare il mio corpo fino a quando non lo indusse a tendersi di nuovo, a rintraprendere la strada del piacere, ed io persi il respiro, a bocca aperta e sopracciglia contratte, per lasciarmi morire felice.
Lo notò all'istante, spronò quell'ascesa più che poté incrementando non tanto la velocità quanto la profondità e collera delle spinte. Serrò la mandibola e mi vincolò al suo sguardo ossessivo, al modo in cui ansimava nello scrutare il mio volto deturparsi per quell'agonia così incantevole, le mie labbra che boccheggiavano alla ricerca di aria, la fronte che si logorava per la smania.
Persi del tutto il senno, più non mi importò di ciò che stavo dicendo, di quanto me ne sarei vergognata subito dopo. L'unico mio desiderio era istigarlo a delirare come me, strappargli via quell'assurdo controllo che ancora non aveva perso del tutto, persino in quel momento.
Così mi ritrovai a gridare con tono straziato le sole parole che sapevo avrebbero devastato entrambi, le sole che dall'inizio di quella follia avevo bisogno di pronunciare per indurci al delirio, con il rumore sordo delle mie spalle che si scontravano contro la porta e quello della sua eccitazione che si immergeva nella mia: «Ti amo! Ti amo! Ahh! Oddio! Ruben, oddio! Ahh! Sì! Così! Ruben, ti amo! Non ti fermare! Ti prego, Ruben, ti prego!»
«Cazzo!»
Mi inchiodò la schiena alla porta, intrappolandomi tra il legno e il suo corpo, schiacciandomi il petto con il suo, in un gesto tanto aggressivo quanto erotico per me, così da penetrarmi al massimo, ritirarsi quasi del tutto e conficcarsi di nuovo con furia. Senza più quella velocità folle, stavolta, ma con singoli colpi di bacino calcolati che mi sollevavano. Così viscerali da colpire a ripetizione un punto preciso e sensibile nei miei recessi che, stimolato in quel modo, mi condusse alla follia assoluta.
Il mio intero corpo prese vita da solo nell'attimo in cui venne folgorato dall'orgasmo. Le gambe mi si tesero d'improvviso nell'aria, le cosce si contrassero soffocandogli i fianchi con cui le separava, le mie braccia gli si attorcigliarono al collo nella stretta di un cappio. Fui fulminata da quella pioggia di saette che continuò a contorcermi, distendermi, obbligarmi a dar voce a quel piacere inumano con un grido acuto con cui chiamai il suo nome.
La mia eccitazione serrò efferata la sua per condurla al limite ultimo, farla scaricare come stava accadendo a lei, e si contrasse di nuovo nel sentirla, finalmente, costringersi a fermarsi il più a fondo possibile nelle mie carni, irrigidirsi ancor più e pulsare brutale e rovente per liberare il proprio flusso di piacere.
Inspirò a fondo, il capo contro il mio orecchio, gracchiò un'altra imprecazione, ora sottovoce, mentre tentava di controllare gli spasmi che lo stavano travolgendo, ed un lungo mugolio mi sfuggì ancora nel vederlo e sentirlo così sia dentro che fuori.
Singhiozzai, la faccia affondata contro la curva del suo collo, là dove si trovava il tatuaggio della ragnatela, abbracciandolo con braccia e gambe in attesa che entrambi potessimo acquietarci, e quando successe, dopo fin troppo tempo, una valanga di brividi sopraggiunse subito a investirci: l'effetto collaterale più piacevole mai esistito a quel mondo, il susseguirsi perfetto di una follia tanto assurda da sembrare la più razionale di tutte.
Tremavo ancora, avvolta dal sudore quanto lo era lui, col fiato che non ne voleva sapere di ritornare normale, mentre aspettavo che anche quei tremiti svanissero col passare dei minuti. I nostri respiri spezzati a calcare l'aria rovente che avevamo creato coi corpi. Mi sporsi indietro col capo per guardarlo, affannata e disorientata dal piacere appena vissuto, e la sua bocca trovò la mia l'istante stesso in cui lo feci.
Mi baciò con dolcezza, una delicatezza che andò a compensare tutta la furia e l'animalesco istinto che ci avevano posseduti prima. Ci separammo e finalmente mi permise di riposare i piedi a terra, ma ero così scombussolata dall'appagamento che dovetti aggrapparmi al suo petto per non cadere.
Allora lui, senza dir niente, mi prese di nuovo a sé, sollevandomi in quel modo principesco che tanto odiava. Sussultai, mentre lo vedevo marciare verso il letto oltre il corridoio di ingresso. Mi ci posò sopra, attento, sdraiandomi sul materasso, ed io persi molti minuti a fissare il piumone, soffocare la faccia dentro di esso per cercare di digerire quanto avevamo appena fatto, quanto gli avevo appena confessato, nella solitudine con cui mi lasciò per quel lasso breve di tempo per sistemarsi.
Quella successione assurda degli eventi mi investì come un treno, sentii il corpo tremare di nuovo, ma non più per i brividi di piacere, affondai ancor più la faccia nel piumone.
Gli avevo detto che lo amavo.
Glielo avevo detto proprio ad alta voce.
E non avevo idea di come l'avrebbe presa.
Sapevo che mi amava anche lui, così come, però, sapevo quanto quel sentimento lo spaventasse e gli fosse ignoto. Se fossi stata più lucida, in quel momento, avrei trovato un modo migliore per dirglielo, l'occasione giusta, perché adesso non ero affatto sicura su come comportarmi, avevo il terrore che si allontanasse, che-
Sobbalzai quando avvertii il suo corpo sdraiarsi accanto al mio, le sue mani costringermi a voltarmi sull'altro fianco così che i nostri petti si scontrassero. Mi strinse a sé con una furia spaventosa, persino più di quella di prima, ed io feci altrettanto, lasciando che il calore della sua pelle sciogliesse il ghiaccio delle paure che aveva già preso a congelarmi il cuore. La curva del suo collo accolse ancora una volta il mio viso, percepii il timbro delle sue labbra contro il mio capo, le sue mani scivolare lene lungo la mia schiena.
E poi, tutto d'un tratto, la sua voce ancora roca dall'appagamento ma profonda come non mai: «Io non sono come te.»
Sentii una fitta trafiggermi il petto, ma mi costrinsi ad attendere che finisse di parlare, che spiegasse tutto. Mi costrinsi a non delirare.
«Non sono forte come te» proseguì, con le mani a fermarsi a metà schiena. «Non saprei riprendermi come ci sei riuscita tu, dopo la morte di Jesse, se tu scomparissi.»
Sollievo e felicità innescarono nuove deflagrazioni nel cuore, stavolta festanti per quanto stava accadendo, sofferenti, però, nel sentire il dolore che calcava ogni sillaba pronunciata.
«Non saprei rialzarmi, se ti succedesse qualcosa. Quando ti hanno rapita, ho pensato di star per morire, ho pensato che mi avessero ammazzato sul serio.»
Strinsi i denti, sprofondai ancor più il viso contro il suo collo, assorbendo tutte quelle parole, quella confessione che, ne ero certa, gli costava molto, lui che si intendeva solo di bugie degli altri, non dei propri sentimenti.
«Non troverei il coraggio di andare avanti, odierei il mondo intero, lo distruggerei a mani nude e poi distruggerei me stesso.»
Intrufolò le dita tra i miei capelli, mi accorsi che ora a tremare eravamo entrambi.
«Io non lo so cos'è l'amore. Non l'ho mai visto né mai provato. So solo che tu sei mia e io sono tuo. So solo che se smettessi di essere mia, l'inferno in confronto sarebbe il paradiso per me. So solo che se questo che sento adesso per te non è amore, allora non amerò mai per il resto della mia vita.»
Ebbi la sensazione di star per piangere, così affogai gli occhi contro il suo collo, mentre le sue dita riprendevano a giocare coi miei capelli, la sua voce si faceva più roca.
«Sei troppo pericolosa per me, Callisto Murray» sussurrò a fatica. «Dalla prima volta che ci siamo incontrati, non hai fatto altro che dimostrarmi quanto mi fossi sbagliato sul mondo, con la tua idiozia.»
Mi aggrappai con le mani alla sua schiena, mentre le lacrime cominciavano a gocciolarmi dagli occhi e così la felicità nel cuore.
«Sei troppo pericolosa per il mio cuore, Callisto Murray» bisbigliò di nuovo. «Sei così idiota che sei la più intelligente di tutti, proprio come diceva Pop, e voglio che tu continui ad esser così, ma proprio perché sei così, ho il terrore che ti portino via un'altra volta, che tu non possa più esser mia.»
Soffocai il respiro contro la sua pelle ancora accaldata, levigata dal sudore, e mi aggrappai con le dita alla sua schiena, i polpastrelli a ricalcare le linee in rilievo delle sue cicatrici, e nel farlo sentii quelle stesse cicatrici crescermi nella carne del cuore.
«Non sono come te» sussurrò ancora, e la sua voce cominciò a tremare quanto i nostri corpi. «Non sono buono come te. Forse lo sono stato una volta, forse lo sono un po' ancora adesso, ma non come te, di questo ne sono certo. Perché semmai capiterà una situazione simile a quella, so già che brucerei il mondo intero pur di salvarti e non me ne fregherebbe nulla, mai più lascerò che ti torcano un solo capello, a costo di commettere sul serio una strage. Preferisco finire all'inferno da morto avendoti accanto adesso, che andare in paradiso e vivere senza di te ora.»
Annuii contro il suo collo, accettandolo così come lui mi aveva accettata, assorbendo quel calore diffuso dalle sue parole, in modo che andasse a inondarmi e a portare la primavera all'inverno che da troppi anni mi aveva raggelata nell'animo.
«Sii idiota quanto vuoi, ma non permettere mai che qualcuno ti strappi via da me, mai. Hai voluto dimostrarmi che l'amore esiste anche per noi, queste sono le conseguenze.» Mi costrinse a risollevare il capo, a guardarlo negli occhi, quegli occhi così rari e così magnifici, adesso inchiostrati da un amore sofferto, una felicità atroce. «Per colpa tua, io non posso più accontentarmi di me come prima, perché adesso tu sei mia e io sono tuo, e se tu te ne vai, io non mi basto più.»
L'emozione mi dilagò nel cuore, andando a tramortire ogni pensiero, sentii gli occhi bruciarmi, la sua mano sfiorò la mia guancia, la cullò delicata. «Mi hai rovinato, Callisto Murray, per sempre» parlò sottovoce. «Sei la mia più grande condanna, con la tua idiozia, e la cosa più assurda è che è proprio perché lo sei che voglio che tu continui a esser mia.»
Posai le mani sulle sue spalle, le sue labbra si stamparono contro le mie, in un bacio che consacrò quella confessione finale, la sola e unica che mai avrebbe potuto darmi e io accettare; lacrime calde mi bagnarono il viso e lui le asciugò una ad una coi pollici, assaporandomi la bocca così come io assaporavo la sua, quasi con timidezza, quel genere di timidezza che si scambia una coppia appena nata, e in fondo, in realtà, un po' lo eravamo davvero.
Quel bocciolo senza colore, adesso, aveva trovato il proprio nome nel petto di entrambi, e il suo profumo ci invase tra un bacio e l'altro, una carezza e l'altra, vestendoci di quell'affetto sincero che solo noi due avremmo mai potuto creare.
La sua mano ridiscese dalla mia schiena alla mia vita, per poi cadere giù ancora, avvolgere il gluteo nel palmo con forza. Mi strinsi di più alle sue spalle, un verso spezzato ad attraversarmi mentre la sua bocca scivolava dalla mia per andare a marcarmi il collo, e di nuovo i miei pensieri si sciolsero, di nuovo tutto quanto gocciolò a terra lasciando come materia stabile solo il desiderio.
«Non...» balbettai, mentre il suo corpo mi spingeva la schiena sul letto e iniziava a sovrastare il mio. «Non ti sei... vendicato abbastanza?»
«Tu mi sottovaluti, Callisto Murray» sussurrò al mio orecchio, le mani che riprendevano a mapparmi ovunque. «Eppure non sei la prima a definirmi bad boy?»
«Lo so, ma-» Squittii, non appena stuzzicò le punte dei seni.
«Ti avevo avvisata» mormorò ancora, mentre mi mordicchiava la curva del collo, «che non te l'avrei fatta passare liscia. Mi hai condannato, perciò prendi atto delle tue azioni.»
«Non... Non l'ho...» Faticavo a respirare adesso, tormentata com'ero da come mi modellava tra le sue dita, il mio viso a incendiarsi così tanto da farlo appena sorridere contro la mia carne. «Non l'ho fatto apposta...»
«Sei davvero la stessa ragazza che mi ha chiesto di togliermi i pantaloni e ha tentato di sfilarmi la maglia anche se ci conoscevamo appena?»
La sua lingua e i suoi denti mi provocarono di nuovo il collo, per farmi fremere di più, già in visibilio.
«Era una cosa... diversa.» Sussultai ancora tra i singhiozzi, quando le sue mani mi divaricarono le gambe e le dita andarono a incitare il fuoco che si stava creando al loro centro.
«Te lo dissi allora e te lo dico adesso» mi mormorò con voce profonda, il suo respiro a scaldarmi le labbra: «Tu non hai senso del pericolo, eccoti il risultato di ciò.»
Poi mi baciò.
Nota autrice
Vi sorprenderà, ma FORSE ho trovato il modo per impedirmi di lanciarmi dalla finestra quando pubblico questi capitoli. Un modo un po' infame, direte voi, ma STOCAZZO (pt 232828032032).
Qual è il metodo?
Leggere le scene di sesso di libri trash per aumentare a dismisura la mia autostima e pensare "Beh, dai, in confronto a loro, io sono la nuova Ernest Hamingway!"
Ebbene sì, muffins, l'ho fatto, l'ho fatto davvero. E NON ME NE PENTO E MEN CHE MENO VERGOGNO. Finita di scrivere questa scena lunghissima di sesso sono andata a recuperarmi tutti i libri trash che conoscevo e a leggermi le loro scene """"erotiche"""" che più che eccitarti ti seccano le ovaie come le dichiarazioni di Andrea Giambruno e qualsiasi incel, al solo scopo di ricomporre il mio ego polverizzato come in "Signor Stark, non mi sento tanto bene."
Crudele, lo so, ma una mossa super efficace, se posso vantarmi da sola.
Chi l'avrebbe mai detto che 50 Sfumature, After, Better e Paper Princess potessero risultare utili a qualcosa? Specie a ridare un po' di vita alla mia autostima, nota per essere più suicida di Dazai di Bungo Stray Dogs? (SE NON AVETE VISTO QUEST'ANIME MUOVETEVI A FARLO, È UN FOTTUTO CAPOLAVORO)
Dovrei mandare dei fiori a queste scrittrici per ringraziarle per essere riuscite nell'impresa che nemmeno il mio psichiatra in cinque anni è riuscito a compiere: risollevarmi l'autostima. Secondo voi a E. L. James piacciono i crisantemi?
Ah, sia chiaro, se a voi questi libri son piaciuti, non è un problema! Ognuno ha i suoi gusti, non sono qui per condannarvi (quello lo fa solo Callisto con Ruben, LOL)
(A mio modo, in realtà, anche a me piacciono, ma per motivi diversi. Confesso che, come Jesse - mi sono ispirata a me per questo suo tratto - li adoro anche perché mi fanno sganasciare, sono tipo una droga per quanto mi appaiono trash, e soprattutto, proprio come Jesse, amo lasciare recensioni in cui spiego tutte le cose che non vanno e vedere le fan indignarsi e ammattirsi per insultarmi e dirmi che non capisco un cazzo. Sì, fan di "Kiss me like you love me", sto parlando soprattutto di voi. Masochista, sì, ma come sapete, come Cristiano Grigio, sono dotata sia di masochismo che di sadismo. 50 sfumature di demenza, così si chiama la storia della mia vita)
Però siamo sinceri, in 50 sfumature , ad esempio, ci sono narrazioni così:
"Mi impala"
"Capelli post-coito" (che diavolo significa non ne ho idea, mi sono immaginata 'sti capelli che prendono vita manco Medusa per assumere le forme più assurde subito dopo che Christian ha investito Anastasia col suo lussssstro callllllorrrr)
"La mia dea interiore fa il triplo carpiato mentre vengo immensamente" (Minchia è 'sta dea interiore ancora non l'ho capito, giuro, so solo che è una a cui piace indossare abiti assurdi e fare salti mortali che manco la Cagnotto)
"Io non faccio l'amore, io fotto, forte"
Sul serio, davanti a narrazioni del genere, davvero volete condannarmi nel sentirmi una scrittrice un po' più decente?
Non mi pentirò MAI di quanto appena fatto, MAI.
Anche perché ne avevo davvero bisogno, soprattutto perché sono stata costretta ad utilizzare un termine che era dentro la lista di PAROLE DA NON USARE MAI IN UNA SCENA DI SESSO, ovvero la parola "orgasmo".
L'avrete notato, ma nelle scene precedenti ho cercato IN OGNI MODO POSSIBILE di non tirarla fuori. Non so perché, ma mi cringia tantissimo (il che è assurdo, perché è una parola comunissima e anche la meno trash di tutte, se proprio devo essere sincera, non lo so perché, vi giuro). Quindi sono ricorsa ad altri termini e frasi per dare lo stesso significato.
Il problema era solo uno: avevo finito TUTTI i termini con cui sostituirla. Climax? Usato. Apice del piacere? Usato. Acme? Usato. Spasmi? Usato.
E avrete notato anche questo: io ODIO ripetere gli stessi termini, rovinano tutta la bellezza della storia, secondo me.
Non vi dico il panico che mi è preso quando mi sono accorta che non esiste un sinonimo per le parole "capezzolo", "seno" (no, mi rifiuto di usare la parola "tette" in una scena erotica) e "reggiseno".
Quindi sì, sono stata costretta a usare il termine "orgasmo" che avevo giurato a me stessa di non usare mai, che avevo bandito come la chiesa cattolica coi libri di Dan Brown. Era nell'indice delle parole erotiche proibite, insieme a "cazzo", "uccello", "clitoride", "pene", "vulva" e tante altre ancora.
E non sapete quanto mi sono disperata per questo, sul serio, stavo piangendo sangue. Ricorrere al mezzo ignobile della lettura dei libri trash è stato l'unico metodo con cui impedirmi di porre fine una volta per tutte alla mia vita.
Infame? Sì. Efficace? Altrettanto.
Anche perché questa scena di sesso, tra quelle descritte finora, è la più spinta di tutte, e questo già mi uccideva dentro. Cioè, l'ha - letteralmente e non - sbattuta contro la porta. Avete idea di quanta candeggina volessi bere mentre la scrivevo? Di quanta ANCORA ne vorrei bere adesso che l'ho pubblicata, magari condita con un bel po' di cianuro e perché no, anche un po' di benzina che non può mai mancare? Darebbe un tocco speziato al cocktail, secondo me.
Ma non potevo fare altrimenti, perché Ruben è un cazzo di bad boy, è uno che comunica col sesso, e travolto com'era dall'angoscia di non capire se stesso (che si porta dentro da quando l'ha riportata a casa e si è trattenuto fino a quell'attimo), la paura di quanto successo col rapimento, il bisogno di far capire a Callisto che lei è SUA e lui è SUO, e tutto il resto, era inevitabile che si comportasse così. Sarebbe stato troppo irrealistico fargli fare l'ammmmore dolcemente in missionario con petali di rosa fru fru che svolazzavano tutto attorno che neanche Maria Antonietta e Fersen durante il loro primo incontro romantico in Lady Oscar.
Ve lo immaginate Ruben che dice a Callisto, mentre i loro capelli si allungano magicamente e i vestiti scompaiono sempre magicamente: "Callisto, ora dimentica che sono il re dei bad boy"?
Ecco.
Quindi sì: libri trash.
Mi dispiace, scrittrici di libri trash, per avervi usato come piedistallo per risollevare il mio animo suicida, ma non me ne frega 'na ciola, sinceramente: tra il mio spirito di autoconservazione e la vostra dignità, vince il mio spirito di autoconservazione. SEMPRE.
Non sono mica buona come Callisto, io.
E non vi dico come volevo buttarmi da un grattacielo quando ho dovuto trascrivere le parole che Callisto grida a Ruben alla fine per farlo impazzire a sua volta. Volevo saltare i gemiti alla "Ahh!" e "Oddio!" e "Sì, così!" a qualsiasi costo e trasporre solo le due frasi principali.
Ma diciamocelo di nuovo, sarebbe stato realistico? Avete mai provato/visto un amplesso (che è un amplesso forte, diciamocelo, super appassionato e "istintivo") senza gemiti del genere? Davvero una ragazza in preda all'orgasmo (QUANTO ODIO SCRIVERE QUESTA PAROLA, DANNAZIONE) riuscirebbe a parlare lucidamente e senza emettere UN SOLO verso?
La stava - letteralmente e non - sbattendo contro la porta, e lei stava godendo quanto io davanti alla caponata e la parmigiana di mia nonna, non era POSSIBILE che certi gemiti non uscissero tra una frase e l'altra. E non potevo neanche NON mettere il discorso diretto, perché era necessario che venissero riportate le due frasi fondamentali che li andavano a intercalare, ovvero: "ti amo" e "ti prego, Ruben, ti prego".
Perché non so se ve lo ricordate, ma quest'ultima frase è la stessa che Callisto grida la prima volta che lo fanno, nel capitolo "Armadio", e proprio per questo lei l'ha utilizzata, sapendo bene quanto piaccia a Ruben.
Quindi sì, di nuovo: libri trash.
FONDAMENTALI per impedirmi di finire nelle testate giornalistiche di domani come la scrittrice che si è suicidata perché aveva scritto una scena erotica e si vergognava troppo.
Davvero, non so spiegarmi perché. Eppure, nella vita reale, io sono più volgare di Sasha Porter ed Edith Morrison messe insieme. Sono letteralmente uno scaricatore da porto e me ne sbatto le ovaie se qualcuno mi sente. Se i miei genitori ultracattolici mi beccassero a guardare un video porno di una gang bang mi vergognerei meno di quanto lo sto facendo adesso, probabile anzi (probabilissimo in realtà) che davanti ai loro visi sconvolti, mi metterei a inneggiare la libertà sessuale di ogni essere umano e a tentare di indurre a mia madre l'infarto (come Michael con la suocera) mentendole e dicendole che sono una pansessuale che desidera unicamente relazioni aperte e/o poliamorose, solo per il gusto di farla ricoverare.
E lo so bene, visto che ad oggi sto aspettando con goduria il momento in cui troverà il mio amato Bug's Bunny (chi ha letto Mai più Cenerentola SA), fintamente celato in modo che creda stia nascondendo chissà che cosa, e le verrà un colpo, come perfetta vendetta per entrare in camera mia senza permesso, di nascosto, quando non ci sono, per iniziare a ispezionarla che manco i RIS, andando a sollevare persino le mattonelle del parquet, alla ricerca della TROKAH (mia madre è un po' fissata con 'sta cosa. Da quando ho iniziato a fumare sigarette, c'ha il terrore che mi getti anche nel magico mondo di Maria oltre che quello della nicotina, e no, non mi riferisco alla Maria in cui lei, cattolica, crede profondamente)
Trasformo le canzoni più famose in canzoni volgari e le CANTICCHIO anche in mezzo alla strada fregandomene altamente (leggete Teorema XY per avere conferma). Leggo libri erotici trash da quando ho tredici anni. Se la legge italiana me lo permettesse, lancerei preservativi dal tetto del palazzo più alto della città come se fossero coriandoli per invogliare la gente a scopare sempre ma farlo sempre protetto anche.
Certe volte mi domando se sono deficiente.
E sapete qual è stata la cosa più umiliante? Che non avendo mai potuto sperimentare simili posizioni di persona (per vari motivi, il primo tra tutti che sono single, il secondo che anche quando non lo ero prima e anche se non lo fossi adesso, sono alta un metro e una torre di Pisa e peso altrettanto, penso che manco The Rock potrebbe sollevarmi in quel modo e sostenermi per più di un minuto) mi sono dovuta fare LE FOTTUTE RICERCHE su internet per vedere come funzionavano nel dettaglio. Sono finita tipo in settordicimila siti di sessuologia che mi ricordavano ancora più il mio status da single e facevano venir voglia ancora più di buttarmi dalla finestra.
E sì, lo so che tanto ve lo state chiedendo, la risposta è sì.
Mi so guardata pure i video, ho preso i fottuti APPUNTI per non dimenticarmi i dettagli. E non so se avete presente, ma la maggior parte di quei video sono per lo più recitazione assoluta, quindi ho dovuto pure studiarli come un fottuto scienziato con una specie animale appena scoperta per cercare di capire cos'era vero e cos'era falso (ahimè, Dio non mi ha dato in dono la capacità di Ruben di scovare quasi sempre le menzogne), con le cuffie alle orecchie da cui continuavano a partirmi gemeti e finti orgasmi e "Ohhhhhhhhh, sì, come sei strettahhhh" o "Fottimi tutta come un bignè!!!"
Immaginatevi la scena: io, davanti al computer, a guardare quei video in posa Gendo Ikari di Evangelion, le mani strette tra loro davanti al viso, gli occhiali (da riposo) luccicanti, lo sguardo severissimo, per analizzarli nel dettaglio, prendendo appunti, con nelle orecchie esplosioni di "Mmmmmm, baaaaaby, you are soooo smallll" e "Ohhhh siiii, patatina Chips!!!"
Io letteralmente così:
Umiliante. Semplicemente umiliante.
C'è gente che va su pornhub per trastullarsi da sola, io ci vado (anche) per scrivere scene di sesso tra un bad boy e una idiota.
Davvero, avete idea di quanto stesse crollando la mia autostima già di per sé, per natura, sotto lo zero?
Quindi sì, per la terza volta: libri trash.
E meno male! Altrimenti questo libro non si potrebbe mai concludere a causa della mia dipartita prematura.
Bene, ora che mi sono confessata che manco a dieci anni col prete, quando ammettevo vergognosa di aver bestemmiato per la prima volta, senza volerlo - guardando il cartone animato "Il principe d'Egitto" e aver detto ad alta voce, nel momento in cui Dio uccideva tutti i primogeniti egiziani che non c'entravano una ciola con la crudeltà del faraone e la prigionia degli ebrei, "Certo che Dio qua è proprio uno stronzo immenso!", guadagnandomi così le ire funeste di mia madre e mio padre - possiamo iniziare con il pippone-analisi del momento.
Perché Ruben, invece di fare tutto quel discorso complicatissimo, non ha semplicemente detto a Callisto "ti amo"?
Perché, miei cari muffins, ci sono tre motivi distinti che si dovrebbero intuire:
1) Ruben non ha mai visto l'amore, non sa com'è fatto. Per questo dice, "se quello che provo per te non è amore, allora non amerò mai".
2) L'amore che Ruben prova per Callisto non può essere contenuto in due semplici parole come "Ti amo", perché va ben oltre, e non è delicato e buono come quello di Callisto. Come detto qui, Ruben ammette SUBITO che non è forte come lei, che se le succedesse qualcosa, si lascerebbe andare alla violenza e alla crudeltà. Si amano a vicenda, sì, e per questo stanno e staranno insieme, ma le loro personalità e i loro vissuti li portano a vivere quello stesso sentimento in maniera diversa. Sotto certi aspetti, l'amore che lui prova per lei e quello che lei prova per lui sono molto diversi, seppur uguali in tanti altri aspetti.
3) Per Ruben, amare Callisto, come lui stesso dice, è anche una condanna. Una condanna che ADORA e lo rende FELICISSIMO, sia chiaro, ma al tempo stesso lo terrorizza proprio perché, non essendo forte come Callisto, sa bene che, se la perdesse, non riuscirebbe più ad andare avanti.
Forse non proprio un amore "sano" al 100%, sì, ma di nuovo, stiamo parlando di un bad boy (tsundere), sarebbe stato ancor più strano se lo fosse stato.
E così come lui accetta la bontà di Callisto, la sua "idiozia", così Callisto accetta il suo "lato tennnebbbbrosssssoh", questo è l'incastro con cui decidono di amarsi. Sbagliato, forse, per alcuni aspetti, ma perfetto per loro.
Non ho mai avuto la pretesa di mostrarvi un rapporto sano al mille per mille, sia chiaro. Con la presenza di un bad boy (tsundere) era inevitabile che non potesse esserlo del tutto. Vorrei però specificare che il fatto che non sia sano al 100% non significa che sia anche TOSSICO.
Ruben NON VUOLE cambiare Callisto (lo ribadisce più volte), non ha alcuna intenzione di rinchiuderla e impedirle di conoscere altre persone, non vuole che lei smetta di essere "idiota" anche se questo può farle correre dei rischi e lui ne soffrirebbe atrocemente. La ama proprio perché lei è così, il suo è solo un avvertimento: "Continua a fare l'idiota, ma stai attenta a ciò che ti circonda, perché mi ammazzeresti se ti succedesse qualcosa".
Persino nella sua gelosia comica che ci fa tanto ridere, non ha mai limitato Callisto, al massimo presa in giro per le sue cotte e offendendosi in alcune occasioni come un bambinone. È possessivo (al limite del ridicolo in certi momenti lol), Ruben, sì, e anche molto, ma non tossico. Anche se è geloso di Eve, ve lo dico chiaramente, (anche se ora che sa che li shippa è molto più tranquillo LOL), MAI si permetterebbe di pretendere che le due non siano più amiche.
Ruben sa bene quanto Callisto tiene ad Eve, come sa bene quanto Eve tiene a Callisto. A suo modo, tiene a sua volta ad Eve, sia perché vuole bene alla ragazza che ama, sia perché la sua famiglia ha aiutato sia lui che sua madre tantissimo (soprattutto a scappare da Kevin per andare a salvare Callisto e compiere la sua apocalisse lol).
Un ragazzo tossico, ad esempio - *coff coff* Hardin *coff coff*, se al posto di Ruben avesse visto Callisto abbracciare James, non si sarebbe limitato a mettere il broncio, come minimo ,*coff coff* Hardin *coff coff*, avrebbe dato un pugno in faccia a James (dopo essersi ubriacato - riferimenti a personaggi tossici puramente NON casuali).
Allo stesso tempo, Callisto NON VUOLE cambiare Ruben. Sarebbe una pretesa troppo assurda: lui ha vissuto nella violenza per TUTTA LA VITA. Come disse Anna, ormai quella violenza è parte integrante di lui. Può imparare a controllarla e controllarsi, a far uscire di più quella bontà (che finalmente ha riconosciuto a sé stesso) ma non potrà mai togliersela via del tutto. Callisto può AIUTARLO semmai ad affrontare i pericoli e gli ostacoli della vita imparando a ricorrere all'altra arma (che Kevin gli ha detto di usare al posto dei pugni), ovvero il cervello, ma di certo non può cancellare per sempre il suo passato e ciò che ha comportato nel suo animo.
MAI, MAI nella vita scriverò una relazione tossica, muffins, ve lo posso giurare sulla caponata e la parmigiana di mia nonna, il mio cane Oscar e la mia gatta Arwen (i miei quattro capisaldi, il motivo per cui ancora non mi sono davvero buttata dalla finestra). Non me ne frega che piacciono, me ne sbatto le palle che vendono milioni e milioni di copie, me ne fotto che se ci riuscissi potrei diventare famosa come Erin Doom o E. L. James.
FOTTESEGA.
Se piacciono, ben venga, se vendono, ben venga, se la gente adora leggerle, ben venga. Non sono qui per giudicare i gusti degli altri, non ho alcuna pretesa né diritto di farlo, ma sono una scrittrice e quindi scrivo quello che piace A ME.
A me le relazioni tossiche fanno schifo, fanno cagare proprio, le ho sempre odiate da che ero ragazzina. Quindi NO, non le scriverò MAI, anche se questo significasse che Ruben è "meno" bad boy di tutti gli altri "bad boy", nonostante la fatica che ho impiegato per dar vita a un bad boy che non avesse la patata, e Callisto meno "Hope Summer Verginy" delle altre.
FOTTESEGA PT. 2
La relazione tra Callisto e Ruben non è perfetta, non è sana al 100%, sì, ma NESSUNA relazione lo è, e non mi riferisco solo a quelle romantiche. È proprio questo il mio obiettivo: mostrare l'imperfezione dei legami, talmente imperfetti che però li rendono ancor più magnifici e umani.
Ma no.
Non è tossica.
Mai lo sarà.
Per quanto riguarda il dialogo tra Anna e Callisto, è molto importante. Come ribadii in un commento nel capitolo "Sopravvivenza", Anna non crede alle parole di Callisto, poiché un'estranea, ma a suo modo, adesso che è stata "salvata" da lei e ha visto la bontà non solo in quella ragazza ma anche nella famiglia Macks, ha permesso che tali parole le entrassero dentro e, pian piano, iniziassero a diffondersi.
Non è un caso, se prima di questo capitolo ho pubblicato l'extra su baby Ruben tsunderino, perché lì viene citato il suo NOME, da Pop. Un altro elemento fondamentale per tanti motivi:
1) Ti fa capire la vita che ha condotto Anna anche prima di avere Ruben, dopo esser stata cacciata di casa. Il mondo deviato e crudele in cui è sopravvissuta, e il fatto che, anche in un mondo del genere, ha trovato "qualcuno" che non l'ha trattata esattamente come una macchina del sesso. Certo, la pagava, certo, la considerava una puttana come gli altri, ma quel briciolo di "bontà" che le ha dato è stato il primo della sua vita, talmente importante da indurla a chiamare così Ruben appena nato.
2) Perché ti mostra di nuovo il degrado del Dump, la violenza, i soprusi, la crudeltà.
3) Perché ti fa vedere che Anna, sempre inconsapevolmente, DA CHE RUBEN ERA NATO, non è mai riuscita ad odiarlo del tutto, pur partendo con quel desiderio. Mai gli avrebbe dato, altrimenti, il nome dell'unica persona che, a suo modo, l'ha trattata come un essere umano e si è preoccupata per lei, si è accorta che era incinta.
4) Perché ti fa vedere che Pop, sempre a suo modo, è stato importante non solo per Ruben, ma anche per Anna. Non so se si è capito, ma io amo davvero tanto la figura di Pop.
5) Perché si ricollega al capitolo extra che precede questo: il ritratto, e ti spiega indirettamente tantissime cose. Pop fece quel ritratto per Ruben perché lui non dimenticasse l'umanità e la bontà che tanto lo caratterizzava, incarnata nel giorno in cui si sono parlati per la prima volta, perché Ruben era talmente buono, sin da bambino, da voler chiacchierare persino con un tossico spara-stronzate che chiunque altro avrebbe evitato. Per questo gli ha fatto quel ritratto, sempre per questo gli ha detto che gli servirà in futuro, perché così ricordasse ciò a cui non dovrà MAI rinunciare e farsi portar via: la sua bontà e umanità.
Nell'attimo in cui Ruben ha buttato nella spazzatura quel foglio, subito dopo la morte di Pop, sempre inconsciamente ha buttato anche la sua bontà e umanità, e sempre per questo Anna - che aveva capito il significato intrinseco di quel ritratto, sempre grazie alle chiacchierate che a sua volta si faceva con Pop per scoprire di più su suo figlio - ha recuperato il disegno e l'ha conservato, non volendo che Ruben se ne dimenticasse.
L'amore che questi due tsundere si scambiano ogni volta mi fa lacrimare sempre.
E niente, credo di aver detto tutto. Torno a leggere libri trash per sentirmi una scrittrice migliore. Fatemi sapere cosa ne pensate (se osate prendermi in giro per la parola ORGASMO giuro che ammazzo Anna al capitolo dopo, immediatamente)
Ah, VI PREGO, VI SUPPLICO, ditemi che ne pensate di 'sta scena di sesso, o corro comunque il rischio di lanciarmi da un grattacielo (insieme ai preservativi)
Un bacio!
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