Armadio
«Eve, che cosa significa che io e Ruben stiamo nella stessa stanza?»
Eve sollevò il sopracciglio. L'avevo trascinata via dalla hall per andarci a rifugiarci nel bagno delle donne del primo piano, un piccolo locale dalle piastrelle bianche e le cabine con le porte colorate di un azzurro tenue.
«Beh» commentò, «significa che tu e Ruben starete nella stessa stanza.»
Stringevo ancora in mano la chiave che mi aveva dato e non avevo la più pallida idea di cosa stesse succedendo.
«Perché?»
Lei inclinò il capo. «Perché no?»
Giusta risposta, non potevo dirle nulla su questo.
«Non... non mi sembra il caso.»
«Quindi non vuoi?»
Altroché se lo volevo, ed era proprio questo il problema. In tutta la mia vita, non mi ero mai ritrovata a pensare che un giorno sarei arrivata a desiderare un ragazzo così tanto. La mia mente e il mio tempo erano sempre stati occupati da Jesse, non c'era mai stato spazio per altro. Ed ora, invece, eccomi lì, a emozionarmi come una ragazzina all'idea di condividere una stanza e un letto con Ruben, un giovane della mia età che conoscevo da pochi mesi.
«Non sarebbe meglio... se dormissi con te?» domandai a quel punto, con le guance che prendevano fuoco più di quelle di James quando si imbarazzava.
«È quello che vuoi?»
Avvampai ancor più, Eve sorrise sorniona. Incrociò le braccia al petto e si posò con la schiena sulla parete del bagno. «Perché sinceramente, da quello che ho visto, mi sembrate abbastanza in intimità per poter dormire nella stessa stanza» commentò con voce cinguettante. «Non vorrei apparire come la classica amica che fa battute zozze, ma ogni volta che vi guardate vi mangiate con gli occhi.»
Non avevo dubbi su questo, almeno da parte mia. «È proprio questo il problema» pigolai con voce vergognosa.
Lei corrucciò la fronte, confusa. «In che senso?»
Inspirai a fondo. Mai avrei creduto che un giorno mi sarei ritrovata a parlare di cose del genere con qualcuno. «Il fatto è che...» Non sapevo nemmeno da dove cominciare. «Noi due, sai, io e Ruben... Non stiamo... effettivamente insieme.»
Sollevò l'altro sopracciglio.
«Ci siamo letteralmente baciati per la prima volta ieri» ammisi ancora.
Il sorriso sornione si fece più grande.
«E non lo so...» Anche se le mie labbra erano sollevate, non riuscivo comunque a far sbollire il mio volto infuocato, seppur ci provassi in ogni modo. «Non so se è il caso. Voglio dire, sono qui a Nicewood per mio fratello, non sarebbe corretto nei suoi confronti fare una cosa del genere. E poi... non sarebbe troppo presto? E se-»
«Frena, frena, frena.» Sollevò una mano per bloccarmi. «Prendiamo punto per punto. Uno: tuo fratello.» Iniziò ad elencare con la mano, la fronte corrucciata. «Jesse non ha nulla a che fare con la tua relazione con Ruben.»
Mi irrigidii sul posto.
«Approfondire la tua relazione con Ruben non significa nulla. Non stai sminuendo la malattia di Jesse, non la stai ignorando e men che meno la stai insultando. Solo perché tuo fratello è malato, non significa che tu non possa "divertirti"» tracciò le virgolette nell'aria con le dita «con qualcuno. Hai una tua vita, Callisto, ed è giusto che tu te la goda appieno come desideri. Baciarti con un ragazzo o fare qualcosa di più profondo con lui non vuol mica dire che ti dimenticherai di tuo fratello e che screditerai le sue sofferenze, e di certo non significa che la sua malattia non ti faccia più star male. Non avresti alcun motivo di sentirti in colpa.»
Sapevo che da un punto di vista razionale aveva ragione, ed ero certissima che al posto suo Jesse mi avrebbe fatto lo stesso discorso, ma il mio cuore, comunque, faticava lo stesso a crederci.
«Due: pensi che sia troppo presto» continuò Eve. «Callisto, non esiste un tempo specifico per le relazioni.»
Strinsi con più forza la chiave in mano.
«Da quel che ho potuto vedere, tu e Ruben vi andate dietro a vicenda da un sacco di tempo e siete anche molto affiatati. Non vedo quale sarebbe il problema.»
«Ma-»
«Ci sono coppie che stanno insieme per anni interi senza fare niente, aspettano il matrimonio e poi subito dopo si lasciano, altre che sono finite a letto al primo appuntamento e non si sono mai lasciate e via dicendo. Il tempo conta veramente ben poco per queste cose» proseguì, il suo volto si fece più comprensivo. «Se posso permettermi, Callisto, io penso che tu sia così abituata a soffocare i tuoi desideri e i tuoi bisogni da non riuscire più a credere di essere in diritto di rivendicarli.»
Bruciavo di vergogna, perché non potevo negare che aveva ragione dal principio alla fine, e il fatto che se ne fosse accorta nonostante tutte le mie menzogne mi umiliava ancora di più.
«Ho visto come lo guardi» disse, «e ho visto come lui guarda te. Cosa ci sarebbe di male?» Mi sorrise compiaciuta.
Era vero, lo sapevo, e una parte di me non voleva far altro che abbracciarla e ringraziarla per aver riconosciuto in quel modo le mie necessità. Eppure, faticavo ad ammetterlo. Mi vergognavo a voler dire che sì, mi sarebbe piaciuto davvero tanto dividere quella stanza con Ruben e sì, farci qualcosa di più di un semplice bacio; e non era perché avevo paura di esser considerata una poco di buono, non era nemmeno perché non avevo esperienze alle spalle.
Il motivo reale era sempre e soltanto uno: in tutta la mia vita, non mi era mai capitato di fare qualcosa per me.
E adesso... adesso che ne avevo l'occasione, mi sembrava così... innaturale, così sbagliato.
Mi umettai il labbro. «Anche se non stiamo insieme?»
Eve si strinse nelle spalle. «Le relazioni cambiano a seconda degli individui, Callisto.» Strinse le braccia al petto. «E poi... a volte non c'è bisogno neanche di definirle, nascono e basta.»
Inspirai con furia dalle narici. Aveva ragione anche su questo, lo sapevo, ma era... era difficile. Era davvero tanto, tanto difficile.
«Comunque...» mi ritrovai a dire, «dubito che Ruben accetterà.»
«Oh, ha già accettato.»
Sbarrai gli occhi. Eve sorrise. «Gliene ho parlato mentre tu eri fuori in giardino con James, si è detto subito d'accordo.»
«Ma...» Proprio non riuscivo a capire.
«E poi, non è detto che farete per forza qualcosa» aggiunse. «Magari sarete così stanchi che sprofonderete subito nel magico mondo di Morfeo, appena toccherete le lenzuola. Certo, ci rimarrei male, visto tutto l'impegno che ho messo, però non ve ne farei una colpa.»
Ero ancora più confusa di prima.
Ruben era d'accordo?
Ruben?
Quel Ruben?
Sì, era vero, non eravamo più nella fase in cui per qualunque cosa mi ringhiava contro, adesso ci baciavamo e stringevamo per mano... ma mi sembrava strano lo stesso.
Sapevo di piacergli, non avevo dubbi su questo, lui non era certo il tipo che si metteva a baciare ragazze che non gli interessavano, ma comunque faticavo a comprendere... come fosse possibile.
«Callisto.» Mi ridestai nell'attimo in cui Eve mi pizzicò la guancia, il suo volto davanti al mio, improvvisamente serio. «Non perderti nelle tue riflessioni, non ne uscirai mai. Ascoltami, questa è l'unica cosa importante, l'unica che ti deve interessare: che cosa vuoi fare tu? Vuoi stare in stanza con lui?»
Deglutii, i suoi occhi, quegli occhi così belli, i primi che mi erano stati amici in una vita di assoluta solitudine, mi squadravano da capo a piedi. Sapevo che avrei potuto ricorrere di nuovo al mio sorriso menzognero, sapevo che sarebbe stata la scelta più giusta da fare, eppure, nel vederli, compresi di non riuscirci.
Perché ero cambiata.
Ero cambiata.
Proprio come quella sciarpa descritta da James, adesso il mio mondo non consisteva più in mio fratello, c'erano tanti altri colori a sfumarlo. Non ero più solo io, non c'era più solo Jesse.
E senza volerlo, intrecciando tutti quei legami, avevo iniziato a dar voce a tutti quei sogni che prima mi ero sempre negata. Avevo iniziato a pensare a me, a me soltanto, a Callisto Murray, non alla sorella di Jesse.
«Sì» bisbigliai a fatica, il sorriso di Eve diventò stratosferico.
«Sono super fiera di te» mi disse gongolante, pizzicandomi di nuovo la guancia. «Ovviamente, da brava amica quale sei, se davvero finirete per avere un'intensa notte di passione, mi aspetto che tu mi racconterai tutto nel dettaglio più tardi.» Mi fece l'occhiolino e io avvampai ancora. «È uno dei comandamenti dell'amicizia.»
Scoppiai a ridere, non riuscii a trattenermi. «Davvero?»
«Ah-ah» confermò lei, annuendo. «E ho come l'impressione che Ruben sappia il fatto suo in quel campo. Voglio dire, è un bad boy, come lo definisci sempre tu. Un bad boy ha sempre grandi esperienze.»
Guardai la chiave ancora stretta in mano, gonfiai il petto.
«Non voglio farmi aspettative» dissi alla fine. «Andrà come andrà.»
Lei sorrise.
«Sono più che d'accordo.»
*
La stanza dell'hotel era veramente carina. Piccola, ma confortevole, con un pavimento in parquet lucido, un letto matrimoniale dal piumone azzurro e i cuscini più grandi e morbidi che avessi mai visto. Accanto ad esso, un mobiletto con un minifrigo al suo interno e un abat-jour vintage sul suo ripiano. Sulla parete destra si trovava una finestra che si affacciava al balcone, coperta da una tenda color ocra.
Quando entrammo, i riscaldamenti erano già accesi e l'aria si era infusa di un calore piacevole, un tepore che ricordava gli inizi della primavera e che aiutò i miei nervi a rilassarsi.
Ruben non aveva detto nulla per tutto il tempo, dal momento in cui lo avevo raggiunto con la chiave a quello in cui avevamo aperto la porta della stanza. Come al solito, aveva la sua classica espressione corrucciata che non lasciava mai intendere cosa stava veramente pensando. Lo guardai muoversi dentro quella camera con tranquillità, per poi posare il borsone con il nostro cambio, quello che ci aveva dato Eve, sulla scrivania.
Ero tesissima.
Mai nella vita mi ero sentita così nervosa. Mi sembrava di avere i muscoli avvitati tra loro in maniera così violenta che faticavo a piegarli. Il che era strano, davvero. Negli ultimi mesi, avevamo passato ore intere in camera mia, mentre applicavo la pomata sui suoi lividi, ma stavolta era diverso, era il mio stesso corpo a farmelo capire. Il cuore mi sembrava una fornace e i polmoni parevano fatti di carbone, non sapevo nemmeno come riuscissi a respirare.
Il mio sorriso, poi, era più sollevato che mai, un chiaro, specifico segno del fatto che il mio inconscio stava facendo di tutto per camuffare il panico.
«Tieni.»
Sussultai quando Ruben mi lanciò qualcosa contro, a stento riuscii ad acciuffarla prima che cadesse per terra. Era una busta di plastica, l'aveva tirata fuori dal borsone. Guardai al suo interno e mi venne da ridere: era il cambio che mi aveva comprato Eve. Tirai fuori dal suo interno il pigiama: maniche lunghe, pantaloni lunghi, di un rosa confetto adorabile e a pois bianchi.
«Vado a lavarmi.»
Lo vidi muoversi verso la porta del bagno a passo sicuro, e mi ritrovai a sospirare quando scomparì al suo interno.
Coprii il volto con le mani, inspirai a fondo dalla bocca.
Non ero davvero pronta.
O meglio, lo ero, ma non nel modo in cui avrei voluto.
Cosa avrei dovuto fare, esattamente?
Non avevo alle spalle esperienze, e quel poco che ne sapevo di relazioni amorose e sessuali era dovuto ai dannati libri trash che Jesse leggeva sempre.
Avrei dovuto parlarne con Ruben? Ricordavo di aver letto in qualche articolo di giornale che per avere una buona relazione comunicare era un passo fondamentale, esprimere i propri desideri e titubanze un requisito necessario per portare quel legame a un passo successivo. Il problema era che non avevo proprio idea di come parlarne. Cosa avrei dovuto chiedergli?
"Ehi, Ruben, vuoi fare sesso con me?"
Pessima idea.
"Ehi, senti, mi piacerebbe farlo, tu che ne pensi?"
Davvero, davvero pessima.
Dio, ero una persona senza filtri, questo sì, ma non fino a questo punto.
A passo titubante, mi avvicinai al letto e mi misi a sedere sul suo bordo. Il materasso era morbidissimo, di quelli che ti facevano credere di star sprofondando in una nuvola, e i cuscini erano giganteschi, dalle federe bianche decorate con stampe floreali.
E purtroppo per me, colpa sicuramente di tutti i maledetti libri spazzatura di Jesse, la mia mente non faceva altro che pensare a tutte le cose che avremmo potuto fare su quel letto.
Mai lo avrei creduto possibile, ma persino la mia faccia tosta stava iniziando ad imbarazzarsi.
Udii dal bagno chiuso il rumore della doccia, dell'acqua che scrosciava, e quel suono non fece altro che buttare benzina sul fuoco della mia immaginazione tutt'altro che casta.
Non avevo nulla di cui vergognarmi, ne ero più che consapevole. Ero un'adolescente, una diciottenne, in fondo, come Jesse diceva sempre ero preda degli ormoni, e quella era la mia prima relazione, avere dei desideri sessuali era più che naturale.
Ma proprio non avevo idea da dove cominciare, e il pensiero di parlarne con Ruben mi spaventava a morte. Non ero come lui, non sapevo dire quando mentiva, il nostro era sempre stato un rapporto piuttosto sbilanciato.
Sentivo il cuore battere all'impazzata, con così tanta violenza da farmi male, e per distrarmi iniziai a ispezionare un po' quella stanza. Mi sporsi dal bordo del letto, verso il comodino al suo fianco, e aprii il primo cassetto.
Al suo interno trovai una bibbia. Ah, quindi le mettevano davvero, credevo fosse una leggenda nata dai film.
E poi, più in fondo, all'angolo...
Oddio.
Richiusi il cassetto.
No.
Anche quella credevo fosse una leggenda dovuta ai film, e di certo non mi aspettavo che un albergo mettesse una cosa del genere nello stesso cassetto della Bibbia.
Tornai a guardare il comodino.
La mia mano si mosse da sola, riaprì il cassetto.
Eh sì.
Era davvero un pacco di preservativi.
Accanto a una bibbia.
Dio.
Richiusi il cassetto.
Beh, era senz'altro... un modo nobile per invogliare la gente a fare sesso protetto, giusto? Non c'era nulla di strano in questo, anche se, certo, quella bibbia accanto bastava per farti venire i sensi di colpa.
Riaprii il cassetto.
Il pacchetto era rosso, ancora sigillato. Quando lo presi in mano, era più leggero di quanto mi aspettassi. Lessi le scritte sul cartone: sei preservativi in totale, e diavolo, era stato prodotto letteralmente due settimane prima.
Lo rimisi dentro il cassetto.
Richiusi il cassetto.
No, no, no.
Mi accucciai sul materasso, affondai il volto dentro il cuscino, nel tentativo di soffocarmi. Magari, provocandomi l'asfissia, avrei smesso di avere tutti quei pensieri a luci rosse.
Mi sentivo ridicola, assolutamente, totalmente ridicola. Avrei soltanto voluto chiamare Eve e chiederle di prestarmi un po' delle sue capacità di seduzione, quel tanto che bastava per non farmi venir voglia di prendere una pala e scavare una fossa ai miei piedi in cui sotterrarmi.
Scostai il viso dal cuscino, tornai a guardare il comodino.
Aprii il cassetto.
Non avevo mai visto dei preservativi di persona. Certo, li avevo visti su internet e anche in alcune pubblicità, ma era la prima volta che mi capitava di averci a che fare fisicamente. Titubante, presi il pacchetto e lo aprii, sfilando fuori uno di quei profilattici. Un quadratino d'alluminio dal peso di una piuma.
Oddio.
Era stranissimo. Non sapevo dire se mi faceva impressione o se ne ero totalmente incuriosita. Una parte di me voleva a tutti i costi scartare l'involucro per vedere com'era fatto il profilattico in sé, un'altra invece si sentiva avvampare e desiderava soltanto fingere di non averlo mai visto.
«Cosa diavolo stai facendo?»
Sussultai, sentii un infarto colpirmi il cuore, quando sollevai lo sguardo e mi ritrovai a pochi metri da me Ruben, già in pigiama, appena uscito dal bagno, con i capelli ancora umidi e lo sguardo irritato di sempre.
I suoi occhi scesero dal mio volto a ciò che stringevo in mano, e io ebbi l'improvviso desiderio di buttarmi dalla finestra di quella stanza.
«No!» esclamai nel panico. «Erano... Erano nel cassetto» provai a giustificarmi, indicando il cassetto colpevole con un sorriso che Dio solo sa come avessi fatto a far nascere, «e non sapevo-cioè, ero solo... Mi sembrava... Sai, non ne avevo mai visti prima di persona, quindi...» Più parlavo, più peggioravo la situazione, e la sua fronte si stava aggrottando sempre di più. Scagliai l'intero pacchetto dentro il cassetto, con così tanta violenza che alcuni degli involucri di alluminio si rovesciarono al suo interno, lo richiusi con una forza inaudita e mi sollevai in piedi di scatto.
«Vado a fare la doccia anche io» dichiarai con una solennità mostruosa, come se avessi appena affermato di star andando a salvare il mondo.
Non ebbi il coraggio di guardarlo in faccia, corsi verso la busta con il mio cambio e mi affrettai a raggiungere velocemente il bagno. Sentivo i suoi occhi su di me, che mi bruciavano la schiena, ma proprio non avevo il coraggio di sapere che espressione e luce avessero assunto.
Una volta dentro la toilette, caddi in ginocchio a terra, sulle mattonelle bianche, e presi un grosso respiro, il volto ormai un incendio indomabile.
Calma, dovevo stare calma.
Non era detto che sarebbe successo qualcosa tra noi quella notte. Conoscendo Ruben, anzi, le possibilità, ahimè, erano piuttosto basse. Il mio terrore era che si accorgesse di quanto invece sperassi che qualcosa accadesse davvero. Era così bravo a capire quello che pensavo, nessuno dei miei sorrisi l'avrebbe mai ingannato, e io non ero pronta a venir presa in giro da lui per quel motivo.
Mi risollevai da terra con forza e, in quel momento, sentii il cellulare vibrare.
Lo tirai fuori dalla tasca dei pantaloni; l'imbarazzo e la vergogna di quel momento svanirono in un istante, sostituiti da una risata.
Buona sera, principessa ballerina,
Come stai? Spero tutto bene. So che la visione del tuo fantastico e meraviglioso fratello in preda alla febbre ti ha sicuramente accaldato il cuore, e per questo motivo ti scrivo per assicurarti che, purtroppo per te, la mia interpretazione di Giovanna D'Arco è giunta a termine. Un vero peccato, devo dire, perché sono stato così magistrale da poter meritare l'Oscar. L'ultimo capace di andare a fuoco così, prima di me, è stato solo Notre Dame.
Mi dispiace, ma dovrai ancora aspettare prima di poter stappare lo spumante per esserti liberata di me. A quanto pare, sono destinato a tormentarti ancora a lungo.
So che hai parlato con la clinica e so che ti hanno dato gli ultimi aggiornamenti sulla mia condizione, non aver paura, principessa ballerina, nemmeno una sedia a rotelle sarà capace di smorzare il mio innato fascino donnaiolo. Al contrario, con la pietà che solo un malato terminale come me può creare, riuscirò a conquistare anche il cuore di pietra di Piper, l'infermiera più stoica e crudele di questa clinica e della storia del mondo, colei capace di farti provare le pene dell'inferno con una semplice iniezione. Una sorta di Signorina Trinciabue, con l'unica differenza che almeno quest'ultima aveva le tette, Piper manco quelle.
Non ti devi preoccupare per mamma e papà, ho già pensato a tutto io, non ti daranno fastidio. E se lo facessero, per favore, dimmelo. So che non vuoi crearmi problemi, ma posso gestirli, dico sul serio.
Grazie per essermi venuta a trovare. Le infermiere mi hanno detto che sei rimasta con me praticamente tutta la giornata. Hai saltato la scuola, eh? Ah-ah, Callisto, non si fa. Di' la verità, non avevi voglia di studiare e hai usato la scusa del fratello in punto di morte per saltare le lezioni. Sono fiero di te, sorellina.
Sono ancora un po' rincoglionito dalla febbre e da tutti gli antidolorifici e sì, se te lo stai chiedendo, ahimè mi sono di nuovo pisciato addosso, ma a questo punto direi che posso considerarlo un successo. Mi sarei spaventato di più se a uscire dal mio corpo fosse stato altro, sarebbe stato imbarazzante. Ti immagini? Forse le infermiere mi avrebbero denunciato per molestie sessuali. Secondo te una giuria sarebbe capace di metter dietro le sbarre un malato terminale?
Io sto bene, principessa, non ti preoccupare. So che non hai dormito niente per stare con me sin dal primo mattino, perciò ora fammi questo favore e riposati. Non ti voglio vedere più con quelle occhiaie, dico davvero, sembri un panda che è stato picchiato a sangue da Rocky.
Ah, e se sei in compagnia di Mr Bad Boy, mi raccomando, usate sempre i preservativi. Non per dire, ma diventare zio a un attimo prima di schiattare è troppo persino per me. Va bene che sono il fan numero uno delle storie trash, ma nemmeno io arrivo a tanto.
Adesso torno a dormire. Sì, lo so, ho passato le ultime ventiquattr'ore a fare solo questo, ma ogni tanto ci sta. Ti prometto che domani, quando mi verrai a trovare, sarò più vivo di Jon Snow nella sesta stagione del Trono di Spade.
Un bacio, principessa ballerina, e buona notte.
P.S.
I preservativi, mi raccomando, al gusto menta e tabacco, altrimenti che Bad Boy è?
Risi per almeno trenta minuti. Mi bastò quello, quel semplice messaggio, perché tutta la vergogna, l'imbarazzo e la tensione provati fino a un attimo prima scomparissero come se non fossero mai esistiti.
Risposi velocemente a Jesse. Sapevo che sicuramente non avrebbe letto il messaggio, doveva essersi già addormentato, ma comunque lo feci. Mi sentivo un po' in colpa a nascondergli quello che stavo facendo in quel momento – il mio viaggio a Nicewood, il mio incontro con Emma – ma sapevo di star facendo la cosa giusta. Mi era bastato leggere quel messaggio per capirlo.
Era per Jesse, e tanto era sufficiente per rendermi felice.
Alla fine del messaggio, gli scrissi:
Domani indossa il tuo cappellino più bello.
Finito ciò, mi andai a lavare.
Venti minuti più tardi uscii dal bagno con una serenità in cuore che non avrei mai creduto di poter provare, con addosso il pigiama che Eve mi aveva comprato. Trovai Ruben già sdraiato a letto e mi venne da ridere al vederlo. Dormiva proprio come me l'ero immaginato nella mia testa: sdraiato a pancia in su, sopra le coperte, le braccia incrociate al petto e l'espressione rigida di sempre.
Era ancora sveglio, pur essendo le sue palpebre chiuse, lo capivo dal modo in cui quest'ultime gli vibravano piano.
A passo acquattato, mi misi a mia volta sul letto. Ero rilassata come non mai, cinguettavo quasi mentre mi infilavo sotto il piumone e le lenzuola.
«Il tuo buon umore è fastidioso» lo sentii dirmi e io ridacchiai.
«Jesse mi ha scritto» ammisi. «Sembra stare un po' meglio.»
Sollevò le palpebre. Continuò a mantenere il volto dritto davanti a sé, ma gli occhi caddero su di me, che avevo già la testa affondata nel cuscino.
«Sei mai stato in un albergo?» gli domandai a quel punto, lui scosse la testa. «Nemmeno io, sai? Li ho sempre visti solo in tv. Non pensavo fossero così. È divertente.» Mi ritrovai a sorridere di nuovo. «Quand'ero bambina, avrei tanto voluto dormire in uno di essi.»
«Sono solo posti in cui riposare, non cambia nulla.»
«Vero» ammisi. «Però è diverso.»
Non rispose, forse per confermare le mie parole.
«Che altro avresti voluto fare?» domandò all'improvviso, e io lo guardai confusa. «Da bambina, che altre cose avresti voluto fare?»
Ci riflettei su con attenzione. Era passato davvero tanto tempo dall'ultima volta a cui ci avevo pensato.
«Mi prometti che non mi insulterai?»
«Impossibile.»
Figurarsi.
«Quando andavo ancora a scuola, alle elementari» dissi, «ogni giorno si formavano un sacco di coppiette. Sai come? Con quei fogliettini che ci si lanciava tra i banchi, quelli dove si scriveva "Vuoi metterti con me?" e sotto si disegnavano le tre caselle da spuntare "sì", "no" e "forse".» Risi al ricordo. «All'epoca lo trovavo super romantico.»
«Chissà perché non avevo dubbi.»
«Però a me non piaceva nessun bambino della mia classe, quindi non avevo motivo per farli.»
«Certo che no, erano troppo giovani per te, senza una differenza di età di almeno cinquant'anni non avrebbero mai potuto attirare il tuo interesse.»
«Non era per quello! Era perché i maschi mi prendevano sempre in giro per il mio nome» mi difesi oltraggiata. «Le bambine però mi invidiavano un sacco. Jesse veniva sempre a prendermi, quando uscivo da scuola, e tutte erano perdutamente innamorate di lui. Ero orgogliosissima, mi vantavo un casino.»
Il suo labbro ebbe un leggero tremolio, l'ombra di un sorriso.
Sorrisi anch'io.
D'improvviso sentii i miei occhi farsi pesanti, di piombo. La stanchezza degli ultimi giorni mi cadde addosso in un attimo, andando a intrufolarsi fra i muscoli e i nervi, anestetizzandoli fino a non permettermi più di sentirli.
«E poi...» Sbadigliai, coprendo la bocca con il piumone. «Mi sarebbe piaciuto... accarezzare un elefante...»
«Un elefante?»
Annuii a fatica, le palpebre che faticavano a reggersi. «Mi piacciono gli elefanti» ammisi. «A primo impatto... ti viene da pensare che siano davvero brutti... e invece quando li guardi bene... capisci che sono delle creature bellissime. I loro occhi...» Sbadigliai ancora. «Non lo so, mi hanno sempre trasmesso... dolcezza. Avrei voluto... esser bella... come loro.»
Forse disse qualcosa, ma non lo sentii, stavo già sprofondando nel mio oblio personale, ma avvertii una carezza sul capo, lene e delicata, che mi indusse a sorridere.
Nella bruma del mio sonno, mi parve di sentire una voce, un sussurro che realizzò uno dei miei più grandi desideri inespressi, senza neanche saperlo:
«Lo sei già.»
*
Uscire, dovevo uscire.
C'era l'oscurità, troppa oscurità.
Le tenebre che prendevano vita e mi si infilavano in gola, mi otturavano lo stomaco, mi masticavano le interiora.
C'erano le voci, quelle voci sottili, piene di bestemmie e maledizioni, entravano nelle mie orecchie e come vermi strisciavano nelle cervella, per non lasciarmi più andare.
C'era la pipì, la pipì bollente che mi bagnava tutto l'inguine, le cosce, e il suo odore era così forte da farmi annegare.
C'erano le mie mani legate, le fascette che trucidavano i polsi, e il dolore agonizzante della loro plastica che penetrava nella carne.
C'era la mia voce, ma non era più umana, erano urla da bestia, da cane, a cui nessuno avrebbe più risposto.
C'era il cuore che mi pompava così forte da farmi male, e il sudore che mi colava addosso, e il caldo di quell'abitacolo della notte, e il respiro che non ne voleva sapere di arrendersi, e il sapore della bocca asciutta.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
Non volevo, non volevo, non volevo.
Mi farò perdonare, lo giuro, ma vi prego, lasciatemi uscire.
Jesse, ti prego, fammi uscire.
Trovami, Jesse, trovami, fratellone.
Sono qui, mi senti? Sono qui, Jesse! Nel posto in cui mi nascondo sempre! Ti prego, torna a cercarmi! Sono qui, ho paura! Ho tanta, tanta paura!
Ma a rispondermi furono solo gli insulti da fuori. Latrati. Condanne. Maledizioni.
E io mi feci piccola, provai a rendermi minuscola, perché sentivo quell'armadio farsi sempre più stretto, restringersi di minuto in minuto, e sapevo che presto non avrei più avuto neanche lo spazio per sollevare il capo.
Ti prego, ti prego, ti prego.
Aiutami.
Jesse, aiutami.
«Callisto.»
Spalancai gli occhi, ma per qualche secondo non riuscii a vedere niente, solo le tenebre di quell'armadio che ancora mi sentivo addosso, a circondarmi e rimpicciolirsi attorno a me.
«Callisto.»
Mi sforzai di rimanere lucida, di controllare i respiri, i battiti del cuore che, impazzito, cercava disperatamente di saltare fuori dal torace. Mi accorsi dopo qualche secondo del volto di Ruben sopra il mio, lo sguardo serio, gli occhi decisi, un'ombra di preoccupazione che di rado mostrava.
Deglutii. Avevo la bocca secca, il petto mi tremava e si squassava in esplosioni di paura che faticavo a contenere. Cercai di guardarmi attorno, realizzai, dopo qualche istante, dove mi trovavo, perché ero lì, cos'era successo.
Un sogno, un sogno, mi ripetei nella mente, era solo un sogno, adesso non ci sono, mamma e papà non ci sono.
Mi sollevai a sedere, Ruben fece altrettanto. Lo guardai. Non aveva l'espressione corrucciata di sempre, ma non appariva neanche sereno, anzi, tutto il contrario. Gli occhi rimasero fermi su di me, senza aggiungere altro, in un'osservazione che bastava per farmi capire tutto.
Mandai giù altra saliva, a fatica, mi costrinsi a sorridere. «Sto bene» mormorai. «Sto bene.»
Le sue labbra chiuse si tesero, un'ombra gli divorò le iridi. «Sei fradicia di sudore.»
Sussultai. Mi resi conto con estrema vergogna di quanto aveva ragione. Il pigiama che Eve mi aveva comprato, quel bellissimo pigiama rosa a pois bianchi, era aderito alla carne come una seconda pelle. La frangia mi si era incollata alla fronte, gocce copiose mi cadevano dal mento e venivano assorbite dal materasso del letto.
«Sto bene» ripetei, squassata da una risatina, «è solo che il riscaldamento dell'hotel è davvero forte. Sono una che soffre molto il caldo e-»
«Callisto.»
Tanto bastò per chiudermi le labbra, ma comunque non riuscì a fare altrettanto col sorriso.
Lo guardai negli occhi. Non c'era giudizio, compassione o pietà nello sguardo che mi rivolgeva. A tratti faticavo a interpretarlo. Di una sola cosa ero certa: sapeva già tutto, senza che io dovessi dirgli niente, e questo, in qualche modo, mi rasserenava. Mi faceva sentire sollevata.
Si spostò dal materasso e si sporse verso il comodino dal suo lato, piegandosi per aprire il minifrigo al suo interno. Ne tirò fuori una bottiglietta d'acqua e me la passò in silenzio.
«Grazie» mormorai. La aprii e cominciai a sorseggiare. Il sapore di quell'acqua era divino. Mi sembrava di abbeverarmi di un vino prelibatissimo.
«Quindi è per questo che non dormi mai.»
Quando me lo chiese, avevo già finito la bottiglietta. Me la tolse via dalle mani, lanciandola nel cestino poco distante dal letto. Fece centro senza battere ciglio. Avrei voluto tanto commentare quel canestro così perfetto, ma sapevo che non me l'avrebbero permesso.
«Dormo, ogni tanto» risposi, cercando di staccare il tessuto bagnato del pigiama dalla pelle. «Secondo te Eve si offenderà perché le ho rovinato il regalo?»
«Parli nel sonno.»
Sussultai, e anche sorridente non riuscii a nascondere il tremore che mi attraversò tutto il corpo quando lo guardai.
«Non è vero» mormorai tutto d'un fiato.
Ruben sollevò di poco l'angolo sinistro della bocca. «No, non lo è.»
«Perché hai mentito, allora?»
«Sei stata tu a cominciare.»
Non potevo dargli torto. Non potevo neanche criticarlo. Il mio secondo nome era Menzogna, d'altronde, e lui più di tutti lo sapeva. Attaccarmi con la mia stessa arma era stata una mossa crudele e sleale da parte sua, eppure sapevamo entrambi che era anche l'unica con cui avrebbe potuto farmi capire il suo unico avvertimento.
Non ti puoi nascondere.
«Va' a farti la doccia» disse alla fine. «Non puoi tornare a dormire così.»
Aveva ragione. Scivolai dal materasso e mi misi in piedi. Mi accorsi che le mani mi tremavano ancora; il corpo, a differenza della mente, non era ancora riuscito a svegliarsi del tutto. Era certo di essere ancora intrappolato in quell'armadio e niente che gli dicessi bastava per convincerlo che il sogno era finito.
Mi mossi verso la mia borsa, all'angolo della stanza.
«Che stai facendo?» mi domandò Ruben, ancora sul letto.
«Prendo i vestiti che ho usato oggi» risposi, mentre li sfilavo fuori. Erano tutti accartocciati, ma erano sempre meglio del pigiama fradicio che avevo addosso in quel momento. «Non voglio rovinare quelli per domani, questi dovrebbero-»
Qualcosa mi planò addosso, coprendomi la vista. Un tessuto delicato e leggero. Me lo sfilai dalla testa, stringendolo in mano. Era la maglietta del pigiama che indossava, azzurra. Mi voltai a guardarlo sorpresa. «Non sentirai freddo a torso nudo?» gli chiesi.
«Non avevi detto che i riscaldamenti dell'hotel erano forti?»
Era seduto ancora sul materasso, il torace completamente scoperto, le gambe incrociate. Mi guardò in un gesto di sfida, come a provocarmi nel continuare la mia strada delle menzogne.
Sbuffai con un sorriso. «Pensare che pochi mesi fa mi hai impedito di toglierti la maglietta, totalmente indignato, e guardati adesso: te la sei sfilato tu da solo senza che facessi o dicessi niente.»
Inarcò un sopracciglio, non disse altro.
Continuando a sorridere, mi diressi in bagno.
Sotto il getto forte della doccia, mentre strofinavo il bagnoschiuma contro la pelle cercando di rimuovere il sudore che l'aveva ricoperta come uno strato d'olio, mi domandai come mai l'incubo mi avesse travolta così all'improvviso, perché proprio quella notte.
Forse era la risposta alla paura a cui non avevo ancora dato voce né nella mente né nel cuore: il terrore che i miei genitori scoprissero che non ero ai dormitori, che ero andata a Nicewood, di nascosto, senza dire niente a nessuno. Se poi avessero scoperto che stavo per portare una vecchia compagna di classe di Jesse con me, per incontrarlo... Non volevo neanche pensare alle conseguenze. Non volevo neanche provare a immaginarle.
Non me l'avrebbero mai perdonato.
Se anche Jesse si fosse dimostrato estasiato da quell'incontro, sapevo, ne ero sicura, che loro avrebbero trovato il modo di colpevolizzarmi in qualche modo. La strategia più usata era quella di accusarmi di volerlo umiliare, ricordargli i bei vecchi tempi in cui era ancora in salute per farlo vergognare della sua attuale condizione.
Vuoi solo rovinarlo per sentirti migliore.
Sentii il vomito risalirmi in gola, ma lo ricacciai giù, nello stomaco. Non era poi così sorprendente che avessi fatto quel sogno, adesso che ci riflettevo.
Fui costretta a lavarmi anche i capelli. Il sudore non aveva risparmiato neanche loro. Per fortuna le camere dell'hotel erano insonorizzate, quindi potei usare il phon anche a quell'ora tarda, senza preoccuparmi di disturbare i clienti delle altre stanze.
Mentre mi asciugavo davanti allo specchio sopra il lavandino, osservai il mio riflesso. Avevo davvero un aspetto patetico: gli occhi rossi, sgranati, la pelle del viso pallida, quasi cadaverica, le labbra secche che ancora tremavano.
Dubitavo che Eve avesse preso in considerazione l'eventualità che la mia "notte di passione" si sarebbe trasformata nella rappresentazione horror che adesso avevo davanti allo specchio. Quasi mi dispiaceva deluderla in quel modo.
Finii di asciugarmi i capelli, infilai gli slip e poi guardai la maglia del pigiama che Ruben mi aveva lanciato. L'avevo piegata sul comò accanto al lavandino. La strinsi tra le mani prima di aprila davanti a me: era davvero enorme, se messa a paragone col mio fisico. La infilai in fretta, per poi tornare a guardarmi. Su Ruben quella maglia andava quasi stretta, su di me, invece, sembrava una mongolfiera gigante dentro cui nuotavo. Mi arrivava ben oltre le cosce e nascondeva quel poco di curve che possedevo.
Eppure, nel vedermici dentro, non potei fare a meno di sghignazzare felice.
Almeno fino a quando non feci cadere lo sguardo sulle mie mani, abbandonate sui fianchi. Tremavano ancora e non riuscivo proprio a fermarle, per quanto mi sforzassi. Sospirai.
Scesi ancora più giù: mi guardai le gambe. Fui grata ad Eve per avermi convinta, all'inizio della nostra amicizia, a depilarmi più spesso. Dubitavo che Ruben avrebbe mai veramente badato a dei peli sulle gambe, non mi sembrava per niente il tipo, ma comunque mi sarei vergognata a morte se mi avesse vista come la nuova versione di Big Foot.
Uscii dal bagno a piedi nudi, lo trovai ancora sul letto, seduto a gambe incrociate. La luce dell'abat-jour antica sul comodino là accanto illuminava il suo profilo, bagnando con un velo aranciato la pelle nuda del torace, i lividi che andavano a comporla, come gocce dilatate di sfumature violette.
Un po' mi vergognavo a farmi vedere così. Era strano non indossare dei pantaloni. Il pensiero correva a velocità folle alla vergogna che avrei potuto provare se per sbaglio, mentre dormivo, la maglietta si fosse sollevata senza che me ne accorgessi. Non indossavo neanche un reggiseno e quella maglia era davvero larghissima. L'altra parte di me, invece, fremeva per qualche reazione da parte sua. Non si aspettava che mi saltasse addosso, quello no – anche se ci sperava – ma pregava di leggere nei suoi occhi quel desiderio di cui si parlava tanto nei romanzi amati da Jesse, quando scene simili si presentavano.
Lui stava tamburellando l'indice sulla coperta del letto, a un ritmo tutto suo, come se si stesse inventando una canzone sul momento. Si bloccò nell'istante in cui scorse la mia ombra raggiungerlo, sollevò il viso in silenzio, si fermò a fissarmi.
Non disse nulla.
Non commentò affatto.
Non mostrò alcuna emozione.
Rimase impassibile come al solito, la fronte forse leggermente corrucciata, ma lo era anche prima che indossassi il suo pigiama, non potevo illudermi su questo.
Mi misi a sedere sul letto, accanto a lui, tra la delusione e il sollievo, con un sorrisetto più di nervosismo che di menzogna. Provai a canticchiare senza aprire le labbra la sigla di Crystal Ballerina, puntando i miei occhi sulle mie gambe accavallate, i piedi nudi, ma sentivo il suo sguardo trafiggermi, scavarmi così a fondo da rivoltarmi come un calzino, e sapevo bene che non lo stava facendo per i motivi che speravo.
«Quando resti a dormire da tuo fratello» lo sentii chiedermi, «non hai questi incubi?»
Mi umettai le labbra secche, intrecciai le mani e iniziai a muoverle fingendo un mini-slalom. «No» ammisi. «Di rado mi addormento profondamente quando sto con Jesse. Una parte di me resta sempre sveglia per assicurarsi che tutto vada bene e i macchinari non segnalino alcuna anomalia.» Curvai la bocca. «Se sono così esausta da crollare accanto a lui, non ho mai degli incubi. Credo che...» Mi fermai un istante, deglutii. «Credo che il mio corpo e la mia mente siano consapevoli di poter star tranquilli, quando sono al suo fianco.»
Sapevo che mi stava analizzando dalla testa ai piedi, destrutturando nella sua testa il mio sempiterno sorriso, alla ricerca di eventuali menzogne da parte mia, ma mi sentii comunque arrossire, ed evasi i suoi occhi concentrando tutte le mie attenzioni sulle mie dita che giocherellavano tra loro.
Mi sforzai di parlare: «Sto bene, davvero.» Feci spintonare i polpastrelli dei pollici tra loro, come in una gara di sumo. «Ci sono abituata, non è nulla di grave.» Mi venne da ridere. «Mi dispiace solo di averti spaventato.»
«Tu sei spaventata.»
Sentii un brivido graffiarmi la schiena come un'unghia sulla lavagna. Fastidioso, vomitevole, e irrimediabile.
«Ti ho chiamato decine di volte e non mi hai mai sentito. Non ti muovevi neanche. Continuavi a sudare e a respirare male. Sembravi sul punto di andare in asfissia.»
Continuai a giocherellare con le dita. «Non ci sarei andata» dichiarai con serenità. «Te l'ho detto, sto bene. Non è nulla di-»
«Continui a muovere le mani perché non vuoi che mi accorga di quanto ancora ti tremino.»
Sussultai. Il sorriso mi sembrò appiccicarsi al viso come uno squarcio, un taglio violento nella carne. Ruben mi afferrò il polso destro, lo trascinò insieme al braccio vicino al suo petto, per poi lasciarlo lì, fermo.
La mano, quella mano che avevo fatto di tutto per nascondere, vibrava come una corda di chitarra pizzicata con furia. La sua compagna, ora sulla mia coscia, la imitava.
Sollevai lo sguardo, trovai il coraggio di incrociare i suoi occhi. La luce dell'abat-jour sembrava averglieli affilati come coltelli, mi aprivano con le loro lame e guardavano l'anatomia dei miei sentimenti nascosti, quelli che non osavo pronunciare o pensare, sempre celati dietro la crepa del sorriso.
Capii nell'attimo stesso in cui le sue pupille si fusero nelle mie che non avrebbe avuto più senso mentire. La bugia era sempre stata l'unica arma a cui mi ero potuta affidare per continuare a vivere senza perdere nessuno, ma davanti a lui sentivo – sapevo – di non poter fare altro che lasciarla cadere.
Qualunque menzogna gli avessi scagliato contro, qualunque finzione avessi provato ad ereggere tra noi come un muro, l'avrebbe distrutta subito.
Era il motivo per cui mi piaceva così tanto, il motivo per cui ero felice di averlo accanto, ma ora... ora sapevo che mi stava chiedendo molto più di non mentire.
Voleva che parlassi.
Che per la prima volta la verità baciasse le mie labbra, raccontasse tutto.
E avrei voluto chiedergli perché, che senso aveva. Tanto, in fondo, già sapeva. Aveva visto le cicatrici, il panico che mi aveva distrutta uscita dall'ascensore, aveva visto come ero stata abbandonata al Dump, da sola, a piedi. Sapeva già, non c'era bisogno di dirlo ad alta voce.
Avevo paura di dirlo ad alta voce.
Per quanto fossi più che conscia del fatto che in quella stanza d'hotel eravamo solo noi due, per quanto realizzassi che nessun altro lo sarebbe venuto a sapere se avessi parlato lì, in quel momento... la Callisto bambina, quella che avevo dovuto rinchiudere nell'armadio delle lacrime mai piante, non faceva che tremare e supplicare di non farlo, non dirlo. Loro se ne accorgeranno subito, ti troveranno subito, e lo sai poi cosa accadrà. Lo sai, lo sai benissimo. Appena pronuncerai quelle parole, appena usciranno dalle tue labbra, compariranno dietro di te, ti distruggeranno per sempre, non potrai mai più, mai più, rivedere Jesse.
«Non sono qui» lo sentii dire con forza. «Non sono qui, Callisto.»
I bracciali che mi coprivano il polso pesavano come non mai, li sentivo fondersi con la carne, diventare tutt'uno con essa.
Inspirai a fondo, l'aria nella stanza sembrava sabbia, mi ridiscese dentro a granelli, soffocando tutto. Non riuscivo a far altro che sorridere, mentre osservavo le mie dita che non riuscivano a star ferme, che continuavano a muoversi, spasmodiche, come grilli impazziti, come se avessero preso vita.
«Penserai che sia una cosa stupida» mormorai alla fine, sghignazzando. Non mi rispose, non ce ne fu bisogno.
Soffocai i tremiti che mi stavano squarciando il petto, li intrappolai nel cuore, tra un battito e l'altro, li costrinsi ad obbedirmi.
«Quando Jesse era ancora... sai, quando non si era ancora ammalato» mi ritrovai a bisbigliare. «Ci piaceva giocare a nascondino in casa.»
Osservai le nostre ombre che tinteggiavano il letto e le coperte smosse, unendosi in figure amorfe, macchie di pece che sporcavano il piumone.
«Avevo un posto preferito in cui andarmi a nascondere.» Le mie labbra ancora arcuate e la mia voce non riuscivano a trasmettere l'urlo che mi stava dilaniando, frantumando le costole. «Era l'armadio che si trovava in soggiorno. Un armadio vecchio, vuoto, in legno di quercia. La mamma l'aveva comprato solo perché le piaceva, perché si adattava col design dell'appartamento.» Una risatina. «A furia di usare sempre quel nascondiglio, Jesse sapeva già che mi avrebbe trovato lì, ma ogni volta fingeva di non pensarci, di dimenticarsene, perdeva tempo a cercare da altre parti per non far finire subito il gioco.»
La sua presa sul mio polso si fece più leggera, scivolò con il palmo sulla mia mano ancora tremante, la strinse tra le dita, senza dire nulla.
«Adoravo aspettarlo in quel piccolo abitacolo, era così... semplice e perfetto. Nell'oscurità riuscivo a sentire i suoi passi che si muovevano nell'appartamento e lui chiamarmi a gran voce, chiedere: "Sei sotto il letto, Callisto? O sei dietro la porta? Vediamo sotto il tavolo, allora! Stai sicura che ti prendo, sorellina! E ti mangio vivo!".» Mi tremarono le spalle. «Era così divertente che dovevo tapparmi la bocca per non farmi sentire mentre ridevo. Il mio momento preferito era l'attimo in cui iniziava ad aprire l'anta dell'armadio e la luce filtrava nell'oscurità. Allora, senza indugi, gli saltavo addosso e gli dicevo: "Ti ho preso io! Ti ho preso io!".» Risi ancora, travolta dal ricordo. «Jesse mi abbracciava e mi faceva volteggiare in aria, si fingeva sempre sorpreso, come se non se lo aspettasse, e rideva come ridevo io, sembrava più bambino lui di me.»
Ma c'era qualcuno che non rideva, in quei momenti.
Qualcuno che ci guardava soltanto, da lontano, simulando un sorriso che non arrivava mai agli occhi.
«I nostri genitori... non dicevano niente. Ma anche così, sapevo che non erano felici di vederlo affezionato a me in quel modo. Credo fossero invidiosi, non lo so.» Presi un altro respiro, gonfiando più che potevo i polmoni. «Jesse non è mai andato d'accordo con loro, e non hanno mai capito perché. Penso che trovassero ingiusto che io, la figlia che non avevano mai voluto, riuscivo ad ottenere tutte le attenzioni del figlio che adoravano.»
Le sue dita s'intrecciarono alle mie, il loro tepore aiutò i tremori a dissolversi pian piano.
«Poi Jesse si è ammalato» mormorai. «Era così grave che a stento riusciva a stare a casa. Appena tornava, una nuova emergenza lo costringeva a riandare in ospedale. Dio solo sa come ha fatto a resistere per tutti questi anni.» Mi schiarii la gola improvvisamente secca. «E in sua assenza, i miei genitori hanno capito di poter fare tutto quello che volevano con me. Di potermi punire... come avevano sempre desiderato. Non solo perché mi considerano la causa della sua leucemia, ma anche perché mi ritengono la ladra del loro bambino.»
Volevo solo smettere di parlare, cucirmi la bocca e il sorriso con cui continuavo a narrare la tragedia che mai nessuno aveva conosciuto, ma le parole mi sfuggivano dalle labbra come se fossero sempre state lì, sotto la lingua, in attesa dell'occasione giusta per scappare e liberarsi dalla prigione delle menzogne.
«All'inizio... le punizioni arrivavano molto distanti tra loro. Non ci ho dato molto peso le prime volte. Mamma mi distruggeva tutti i vestiti preferiti, o papà mi schiaffeggiava all'improvviso, senza un vero motivo, anche quando chiedevo una cosa banalissima come l'orario. Mi andava bene, però, non... non pensavo fosse poi così pericoloso.»
Presi aria dalla bocca con forza.
«Ma poi... io, sai, sono allergica alle nocciole. Mamma e papà lo sapevano, e così, ogni tanto, hanno iniziato a farmi trovare sul piatto una fetta di torta alle nocciole. Pretendevano che la mangiassi tutta, dicevano che l'allergia era tutta una mia invenzione, perché ero viziata, perché volevo attirare le attenzioni e toglierle a Jesse. Se mi rifiutavo, mamma mi spalancava la bocca e papà mi ficcava la fetta in gola, mi costringeva con la forza a deglutirla e poi, quando la reazione allergica iniziava...» Mi fermai, chiusi gli occhi, sentii il sorriso vacillare, ma lo conservai con forza, mentre le loro voci mi esplodevano in testa. Stai solo fingendo, ti piace fare la vittima, non stai veramente male, l'unico a soffrire è tuo fratello, lo sai, tu non hai mai provato il vero dolore, tu, tu, tu, tu, tu. «Aspettavano che io ammettessi di essere la causa di tutto, di essere la colpevole della leucemia di Jesse, prima di iniettarmi l'adrenalina.»
Non osavo guardarlo in viso. Sapevo che non mi avrebbe condannato, sapevo che non mi avrebbe giudicata, ma il mio corpo, ormai abituato ad entrambe quelle reazioni, ne aveva comunque il terrore. Concentrai l'attenzione sulle nostre mani unite. Nessuno, da fuori, avrebbe mai potuto indovinare ciò che gli stavo raccontando: la mia voce era serena, il sorriso sempre appuntato in bocca. Ma era il mio cuore a sanguinare, i pensieri a latrare come bestie.
«Ho pensato di parlarne con mio fratello» ammisi. «Ma ero solo una bambina e lui stava così... così male. Non aveva neanche il tempo di uscire dalla sala operatoria che il giorno dopo finiva in terapia intensiva per un'infezione. E mi sono detta... mi sono detta che se si trattava solo di una fetta di torta ogni tanto... che se si trattava di tollerare quel supplizio solo qualche volta... avrei potuto farcela. Che Jesse... stava soffrendo molto più di me.»
Ero contenta che non parlasse, felice che non ponesse domande. Ero terrorizzata al pensiero di crollare, se l'avesse fatto. E non era ancora il momento, non era ancora il momento.
«Inoltre, anche se ero piccola, sapevo bene quanto costavano le sue cure. Siamo in America, d'altronde, persino una bambina come me era consapevole di quanto il nostro sistema sanitario faccia schifo. Ma i nostri genitori avevano i soldi, tanti soldi. Potevano garantirgli tutte le terapie e le medicine di cui aveva bisogno. Se avessi fatto qualcosa, se avessi detto qualcosa...» Mi umettai le labbra. «Ho preferito non parlare. Volevo sperare... che le punizioni si limitassero a quella fetta di torta. Volevo crederci davvero.»
Forse era stata quella la mia prima bugia.
«Quando ho compiuto undici anni, Jesse mi ha preparato una festa di compleanno a sorpresa, nella sua stanza d'ospedale» dissi. «Lui era l'unico che lo festeggiava, ai miei non interessava. Si è fatto portare non so come una torta gigantesca, con tantissime fragole e panna, di nascosto. Il dolce più delizioso che abbia mai mangiato in vita mia.» Mi venne da ridere al ricordo di come aveva usato la panna per scrivermi SCEMA in fronte. «Quando il personale sanitario ci ha scoperto, ha fatto una ramanzina a Jesse che è durata per ore, ma lui se ne è fregato altamente. Ha detto: "Per la mia sorellina questo ed altro."» Sghignazzai. «Ma poi... l'ospedale ha avvisato mamma e papà di quello che era successo e...» Mi fermai.
«Hanno dato la colpa a te?»
La sua voce non lasciava trasparire alcun sentimento. Ero felice di ciò. Non ero pronta... a sentirmi compianta o consolata.
«Già» ammisi con uno sbuffo, una risata tremula. «A quel punto, hanno detto che dovevano punirmi con più forza per farmi comportare bene. E non so come, ma mamma si è ricordata...» Chiusi gli occhi, contai per tre secondi, li riaprii. «Si è ricordata di quanto mi piaceva usare l'armadio per giocare a nascondino con Jesse.»
Le sue dita che stringevano le mie si avvitarono quasi ad esse.
«Come ti ho detto, era un armadio inutilizzato... ma aveva una serratura, e mamma la chiave.» Mi morsi l'interno delle guance, sentivo il sorriso paralizzarmi il viso. «Papà ha preso delle fascette di plastica, mamma mi ha messo le mani dietro la schiena e lui mi ha legato i polsi con tutta la forza che aveva. E all'inizio, quando mi hanno trascinato per i capelli dentro l'armadio, ricordo che ho pensato: "meglio della torta." Solo una volta dentro ho capito...» Mi si seccò di nuovo la gola. «Ho capito che la torta era il paradiso, in confronto.»
«Quanto ti tenevano là dentro?»
Irrigidii le spalle.
«Dipendeva da tanti fattori» ammisi. «La prima volta mi hanno tenuto là dentro per tre giorni.» La presa della sua mano sulla mia si fece così forte da farmi quasi male. «Papà aveva fatto dei buchi nel soffitto dell'armadio così che ci fosse il riciclaggio d'aria. Hanno detto a Jesse che mi ero presa una brutta febbre e per questo non potevo andarlo a trovare in ospedale.» Mi schiarii la gola. «Il primo giorno sono stata zitta, non mi sono mossa, ho pensato che così mi avrebbero liberato presto. E poi, come ti ho detto, quell'armadio mi piaceva tanto. La mia preoccupazione più grande era il dolore che provavo ai polsi. Mi sembrava che di secondo in secondo le fascette si chiudessero sempre di più, ho avuto il terrore che mi tagliassero le mani. Un pensiero stupido, se ci pensi.» Risi, non so se di me o se di tutta quella situazione. «Il secondo giorno ho iniziato a sentirmi male e sono impazzita completamente quando...» Mi morsi il labbro, sentii la vergogna e l'umiliazione incendiarmi il viso. «Sai, non potevo andare in bagno, quindi...»
Scorsi il suo petto gonfiarsi.
«L'odore era così forte... e non sapevo... non sapevo che fare...» Sbattei le palpebre, ancora e ancora. «I giorni seguenti non li ricordo molto bene. So solo che ho urlato tutto il tempo, che ho perso la voce pur di farmi sentire, li ho supplicati, pregati, ma non è servito a nulla. Penso... penso di aver avuto delle allucinazioni a causa dell'oscurità e della paura. Se provo a ripensarci, vedo solo mostri nelle tenebre che provano a sbranarmi, e sento voci che mi si infilano in testa come vermi e...»
Mi bloccai, deglutii con forza. «Quando alla fine papà è tornato e ha riaperto l'armadio, ho capito che quello sarebbe stato per sempre il mio incubo più grande. E anche loro... anche loro l'hanno capito.» Scoppiai in una risata che mi scosse tutto il corpo. «Perché quello era l'armadio che amavo, quello era l'armadio in cui mi nascondevo per farmi trovare da Jesse... ma adesso... lui non mi avrebbe più trovata. Non mi avrebbe più salvata.» Ridacchiai. «Ironico, vero? Alla fine, non credo neanche che gli interessasse così tanto farmi impazzire là dentro, quello che davvero volevano erano rovinarmi per sempre il bel ricordo che avevo di Jesse. E ci sono riusciti alla perfezione.» Risi di nuovo. «Anche le punizioni successive... le ho sempre preferite all'armadio, sempre.»
«Ho iniziato a indossare i bracciali per nascondere i lividi che le fascette mi provocavano sui polsi» continuai. «Erano gli unici segni fisici che mi lasciavano, sapevano che, provocandomene troppi, avrebbero rischiato di farsi scoprire, soprattutto avrebbero rischiato che Jesse se ne accorgesse. Le cicatrici si sono formate dopo, nel corso degli anni, e dato che i miei non hanno mai smesso di usare quelle fascette, non hanno mai avuto il tempo di rimarginarsi a dovere. Hanno continuato a inspessirsi sempre di più e non si sono mai sbiancate.» Sospirai. «In quel periodo... per non dare sospetti a nessuno, specie mio fratello, ho deciso di non piangere più e di continuare a sorridere sempre. Come Crystal Ballerina. Ha funzionato, nessuno si è accorto di niente, ma i miei genitori... non ne sono stati molto contenti. Non mi sentivano più urlare dall'armadio, quindi hanno aggiunto altre punizioni.»
Silenzio.
Un lungo, atroce silenzio.
«Quando... beh, quando... non riuscivo più a trattenermi dopo ore rinchiusa là...» Arrossii di nuovo, senza volerlo. «E papà apriva l'anta e sentiva l'odore... diceva...» Serrai la mascella. «Diceva: "Neanche i cani la fanno dentro casa. Sei peggio di un animale."» Corrugai appena la fronte. «E così, per insegnarmi a comportarmi bene, diceva che dovevo venire addestrata proprio come un cane. Sempre con i polsi legati dietro la schiena, mi trascinavano fino al termosifone dove a terra avevano lasciato...» Il mio sorriso... non riuscivo a controllarlo più, continuava a gonfiarsi, ingigantirsi. Era come se mi divorasse, come se mi sbranasse tutta la faccia. «Una ciotola per cani ricolma di cibo avariato o pesantemente ammuffito.»
Lo sentii inspirare a fondo, scostai lo sguardo sulle nostre gambe accavallate che si guardavano senza sfiorarsi.
«Le intossicazioni alimentari mi portavano inevitabilmente a passare notti intere a vomitare, e mamma urlava che lo facevo apposta, che stavo esagerando, che non era niente di che e volevo solo attirare l'attenzione. Così, appena mi riprendevo un po', sparpagliava per terra una quantità assurda di gusci di noci e mi costringeva a inginocchiarmici sopra e a passare lì ore e ore, senza alzarmi mai, mentre lei e papà guardavano la televisione dal divano e mi controllavano.»
Le sue dita s'intrecciarono alle mie, ma ancora non avevo la forza di incrociare i suoi occhi. Mi chiesi se mi considerasse completamente pazza, visto che non avevo smesso di sorridere una sola volta, di ridere.
«È andata avanti così fino a quando non mi sono trasferita ai dormitori della scuola. Non succedeva tutti i giorni, però. La maggior parte del mio tempo lo trascorrevo con Jesse, a prendermi cura di lui. Ma per forza di cose ero costretta a tornare a casa, volente o nolente, e a quel punto le punizioni ricominciavano. A volte ero fortunata, si dimenticavano di legarmi i polsi, quando mi mettevano nell'armadio. Così potevo grattare con le unghie l'interno delle ante. Non serviva a niente, ma almeno... almeno potevo muovermi e mi faceva sentire meglio.»
Raddrizzai la schiena, sentivo delle formiche camminarmi sottopelle, lungo tutta la spina dorsale.
«Poi, all'inizio dell'estate... abbiamo ricevuto la batosta: per Jesse non c'era più nulla da fare. Ma i miei... i miei si sono rifiutati. Loro... loro hanno sempre voluto credere che prima o poi sarebbe guarito. E così... hanno scovato da non so dove la clinica in cui si trova adesso, a cui lo avrebbero sottoposto a una terapia sperimentale. Le possibilità di successo erano pochissime, forse meno dell'1%, ma non gliene importava niente. Non volevano accettare la realtà, la negavano categoricamente. E Jesse all'inizio... si è rifiutato. Credo che fosse stanco... molto stanco. Che volesse arrendersi. E dato che era già maggiorenne, poteva scegliere da solo, i miei non avevano più potere decisionale sulle sue cure.»
Mi schiarii ancora la gola. «Qualche tempo dopo, però, ha cambiato idea. Ha accettato di fare la terapia, di trasferirsi in quella clinica, ma a una condizione: che io tornassi a frequentare la scuola.» Schioccai la lingua. «I miei non ne erano affatto felici, e se devo essere sincera neanche io. Tornare a scuola significava doverlo lasciare da solo per tantissime ore in clinica. Non avrebbe avuto nessuno al suo fianco. E se gli fosse successo qualcosa...» La mia mano stretta nella sua aveva cominciato a sudare, ma non sembrò dargli fastidio. «Mi sono opposta con forza, con tutte le mie forze, gli ho detto che non avevo intenzione di lasciarlo da solo, che mi rifiutavo di abbandonarlo così... e allora Jesse... ha tirato fuori la carta del suo ultimo desiderio.»
Risi ancora. Mi ritrovai a pensare senza volerlo: Che bastardo.
«Da piccola, poco dopo la sua diagnosi, gli avevo promesso che avrei realizzato il suo ultimo desiderio, a qualunque costo. E lui era più che consapevole del fatto che non mi sarei mai permessa... che non avrei mai osato rimangiarmi la parola data. Jesse lo sa, lo sa bene il potere che ha su di me, cosa sarei disposta a fare per lui. Appena ha tirato fuori le parole "Il mio ultimo desiderio" sapeva che mi aveva in pugno. Ho dovuto accettare, non ho avuto altra scelta, proprio come voleva lui.»
E l'avevo odiato per questo, l'avevo odiato per avermi costretta a lasciarlo così, ad abbandonare il mio cuore da solo, in una clinica nuova, a tentare una terapia che quasi sicuramente avrebbe accresciuto solo i suoi dolori e non i suoi giorni di vita. Appena aveva pronunciato quelle parole magiche, con quel sorrisetto beffardo che tanto lo caratterizzava, avrei voluto soltanto andare da lui e prenderlo a schiaffi, urlargli contro di non usare mezzi così infami nei miei confronti.
Ma poi lui aveva sollevato gli occhi - i suoi occhi verdi, risoluti - e nell'istante in cui avevano incrociato i miei, mi ero ritrovata inevitabilmente a sorridergli e a dirgli: "Va bene, lo farò."
«Probabilmente penserai che sono pazza» bisbigliai, «ma avrei preferito... avrei preferito continuare a subire quelle punizioni... e restargli accanto... piuttosto che lasciarlo lì da solo... e trovare serenità e pace nei dormitori.» Mi ritrovai a ridere spasmodica. «Jesse ha detto che era necessario... perché tornassi a condurre una vita normale... a sentirmi un'adolescente, così da non ritrovarmi spaesata una volta che non ci sarà più e non dovrò più prendermi cura di lui, ma io...» Deglutii. «Sento di starlo umiliando ad ogni giorno e ora che gli sto lontana. Ad ogni secondo che gli sto separata, sento di star diventando il mostro che i miei genitori affermano sempre che sono. Quello che gli ha provocato la malattia, che vuole infangarlo, che vuole vantarsi della sua esistenza normale davanti alla sua che è tutt'altro, quello che si gode la propria vita fregandosene delle sofferenze del fratello, quello che non merita il suo amore, che non...»
Mi fermai, chinai lo sguardo sul materasso, nello spazio che separava le nostre gambe.
«Insomma, non è strano?» Non sapevo più cosa stavo dicendo, non riuscivo a capire se a parlare fossero i miei pensieri o i miei sentimenti. Le parole schizzavano a raffica dal mio sorriso, schegge di paure e terrore che mai avevo osato ammettere a me stessa, nemmeno nei miei incubi più concreti. «Le possibilità di rimanere incinta con una vasectomia sono infinitesimali, forse una su un milione, eppure eccomi qua. E mia madre non ha tradito mio padre, ne sono certa. E se...» Un'altra risata mi scosse. «E se davvero io fossi un mostro che è stato mandato per ammalarlo? E se davvero fosse sempre stato questo il mio destino? Quello di provocargli solo e soltanto agonia? E se come dicono sempre loro fossi il seme del diavolo e a-»
«Callisto.»
Le sue mani mi contornarono il volto, mi costrinsero a sollevarlo per guardarlo in faccia. I suoi occhi erano seri, decisi, una certezza che mai aveva posseduto incartava le loro iridi splendenti. «Quale mostro» tuonò con voce forte, imperiosa, «tremerebbe terrorizzato dopo un incubo?»
Provai a voltare il capo, ma lui mi forzò a mantenerlo fisso verso il suo viso.
«Quale mostro accetterebbe di subire tutte quelle torture, solo per stare al fianco del fratello malato?»
Il sorriso divampò insieme al panico e al sollievo.
«Quale mostro si farebbe quattro ore di viaggio in treno, sapendo bene il rischio che correrebbe se venisse scoperto dai suoi aguzzini, si inginocchierebbe davanti a tutti in mezzo alla strada, per permettere al fratello di rincontrare il suo primo amore, prima che muoia?»
Avrei voluto evadere dal suo sguardo, ma i suoi occhi me lo impedivano. Si rifiutavano di concedermi quella fuga, mi inchiodavano a sé, senza lasciarmi via di scampo.
Strinsi le sue braccia tra le mani, i bicipiti tesi dalla determinazione e l'ira. La luce dell'abat-jour gli guizzò negli occhi, accendendoli come fuochi bianchi.
«Quale mostro» pronunciò deciso, «accetterebbe di rinunciare per sempre alla sua felicità, se Dio in cambio guarisse il fratello?»
Mi morsi il labbro.
«Di mostri io ne ho incontrati tanti, dove vivevo» dichiarò. «Mariti che non esitano a picchiare e uccidere le loro mogli, anche solo per una stronzata come dei piatti non ancora lavati. Spacciatori che con la merda che vendono distruggono la vita di centinaia di persone e se ne sbattono altamente, pensando solo a contare i soldi. Poliziotti corrotti che per una mazza di banconote si girano dall'altra parte davanti a una denuncia di stupro. Donne che preferiscono crescere le bottiglie di alcool in credenza invece che i figli e abbandonano quest'ultimi alle strade. Dottori che prescrivono ricette false e usano i guadagni per andare a prostitute più tardi. Uomini che drogano drink di sconosciute e le violentano per poi gridare che sono state loro a volerlo. Membri di gang che trivellano di pallottole i bambini innocenti dei loro rivali. E te lo posso assicurare, Callisto, nessuno di loro farebbe una sola delle mille cose che hai fatto tu per tuo fratello.»
Inspirai con forza dalle narici. La sua voce sembrava aver occupato tutto lo spazio dentro la mia testa, aveva cancellato, ucciso quelle dei miei genitori, che da troppo tempo mi infestavano i pensieri con la stessa agonia del cancro di mio fratello.
«Vuoi sapere chi sono i veri mostri in questa storia?» continuò. «Non sei tu e nemmeno tuo fratello. Gli unici mostri qua sono i vostri genitori. Che razza di genitore colpevolizzerebbe mai la figlia perché lui non riesce a farsi amare dal primogenito? Qualunque genitore normale, umano, si domanderebbe che cos'ha provocato la rottura del loro rapporto, si chiederebbe in cosa ha sbagliato per indurre il figlio ad allontanarlo, non condannerebbe e punirebbero con delle torture agonizzanti una bambina innocente che ha solo avuto la sfortuna di nascere con una gravidanza non programmata.»
Posò la fronte contro la mia con forza, facendomi sussultare. «Non si sono neanche presi cura di tuo fratello, hanno lasciato fare tutto a te. Sei tu ad aver subito le conseguenze della sua malattia, sei tu che l'hai curato, che hai passato le notti con lui in ospedale. Il loro unico contributo è stato il denaro. È facile uscire i soldi, soprattutto se ne hai in abbondanza; ma stare dietro a un malato giorno e notte, accettarne le sue condizioni, anche quelle più disgustose, sorridere per lui, è un sacrificio che, ti assicuro, neanche la stragrande maggioranza degli adulti sarebbe disposta a compiere e che tu, invece, sin da quando eri una bambina, hai fatto senza esitazione. Credi che i tuoi genitori avrebbero mai pensato di fare quello che hai appena fatto tu: giungere a Nicewood, solo per rendere felice Jesse? Te lo dico io: no, è un pensiero che non sfiorerebbe neanche l'anticamera del loro cervello.»
Sospirò con forza, come se avesse appena finito una lunga, tremenda corsa. Il suo alito mi bagnò le labbra. «Nessun mostro si rifiuterebbe di piangere e si violenterebbe per sorridere ogni giorno, solo per poter continuare a vedere la persona che più ama al mondo felice fino alla fine.»
Mi tremò il sorriso, strinsi le mani con cui ancora mi contornava il volto e presi un grande, lungo respiro.
«Non lo cosa devo fare» ammisi alla fine. «Non lo so... se sono pronta a denunciarli... quando Jesse morirà.»
I suoi pollici mi carezzarono gli angoli degli occhi, come a voler asciugare le lacrime che ancora non potevo mostrare. «Non riesco... Io non riesco neanche a immaginare la mia vita dopo di lui» mi sfuggì una risatina. «E non lo so... non lo so davvero cosa devo fare, non lo so più.»
«Lo capirai» mi mormorò. «Lo capirai.»
Avrei tanto voluto crederci, ma non ci riuscivo.
Chiusi gli occhi, respirando con forza. Mi concentrai su quell'unica azione.
«La sai una cosa buffa?» mi ritrovai a dire, una volta essermi calmata. «Quando Jesse ha iniziato a ricoprirsi di lividi a causa della malattia, avevo l'abitudine di baciarglieli. Non perché guarissero prima, ero consapevole che non poteva succedere, ma perché sapevo quanto gli faceva male vederli, quanto gli ricordavano la sua leucemia. Così, glieli baciavo. Pensavo che baciando una ferita si imparava in parte ad amarla.» Socchiusi gli occhi. «E lo invidiavo tantissimo per questo: perché sapevo che nessuno avrebbe mai potuto farlo con me.»
Lui si era proposto, varie volte, ma le uniche ferite che volevo baciasse erano anche le uniche che non avrebbe mai dovuto scoprire. Quella consapevolezza mi dilaniava il cuore ogni volta. Gli mostravo graffietti di cui non mi interessava niente, per cui non provavo alcun dolore, e sentire il timbro delle sue labbra su di essi non mi rasserenava affatto, al contrario mi induceva a condannarmi con più forza di prima per mentirgli così, per celargli sempre il mio segreto, per sorridergli anche quando avrei solo voluto scoppiare in lacrime tra le sue braccia.
Le mani di Ruben scivolarono lentamente dal mio viso al mio braccio sinistro, lasciando dietro di sé una scia di calore. Sentii le sue dita avvinghiarsi ai bracciali sui polsi e solo dopo qualche istante mi resi conto di cosa stava facendo.
«Non-»
Il primo bracciale cadde sul piumone con un tonfo attutito.
«Ruben.»
Il secondo pure.
«Per una notte puoi farne a meno» mi rispose, mentre li sganciava uno ad uno, con fare naturale.
Li vidi cadere sul letto come sassi giganti, si susseguivano l'un l'altro senza freno, e più i miei polsi si scoprivano, più mi sentivo andare a fuoco per una vergogna che non sapevo spiegarmi. Mi incendiava il sangue fino a trasformare le vene in un labirinto di fiamme, e il mio respiro si spezzò quando concluse la liberazione di entrambi i miei polsi.
Gli occhi mi caddero sulle cicatrici ancora rosse e in rilievo. Sembrava che qualcuno avesse preso strati e strati di pelle e li avesse cuciti uno sopra l'altro su tutto il perimetro dei polsi, realizzando un'opera grottesca, vomitevole.
«Le ho già viste, Callisto.»
«No, non è questo» mormorai. «È solo che... le nascondo sempre. Non sono abituata a... mostrarle così. Mi sento... Mi sento nuda.»
L'angolo della sua bocca tremò. Mi strinse il polso destro, se lo portò in viso. Trattenni il fiato.
Le sue labbra timbrarono con forza la cicatrice, marcandone con il loro calore la pelle in rilievo.
Inevitabilmente, mi venne da ridere. Una risata genuina, che battezzava la nascita di una felicità mai provata in cuore fino a quel momento e che si riverberò in tutta la camera, quando passò a baciare la cicatrice del polso sinistro.
Se mi fosse stato concesso, se solo avessi potuto permettermelo, mi sarei lasciata annegare dalle lacrime. Avrei permesso loro di scorrermi in viso con la libertà che da tempo bramavo, ma stavolta per il conforto di vedere un mio desiderio esaudito.
Si mosse veloce, la sua bocca marchiò la mia ancora sollevata nel riso.
«Qua non c'è nessuna ferita, però» mi ritrovai a dirgli.
«Sì, invece» rispose lui, gli occhi fissi nei miei. «Il sorriso è la tua più grande cicatrice.»
Mi sentii affogare.
«Allora» bisbigliai contro le sue labbra, «lo rifaresti di nuovo? Non credo che un solo bacio basterà. Ho anni di sorrisi da recuperare.»
Premette con forza la bocca contro la mia, chiusi gli occhi, inspirando a fondo. Mi resi conto di sentirmi più leggera, come se l'anima si fosse disintossicata da tutta l'oscurità con cui le torture dei miei genitori l'avevano inquinata. Ed ero... ero felice.
Ero davvero felice.
Sorridevo, ma non fingevo.
Non c'era un solo strato di bugia nel bacio che ci stavamo scambiando, non la più piccola goccia di menzogna.
Era vero, era reale.
Ero io.
E non riuscivo neanche a ricordare l'ultima volta in cui avevo desiderato poter esser sincera con qualcuno, non riuscivo neanche a ricordare l'ultima volta in cui avevo osato sognare di essere vista coi miei polsi nudi da qualcuno che non mi avrebbe giudicato per questo, che non mi avrebbe condannata.
La sua mano s'intrufolò tra i miei capelli e così la sua lingua, alla ricerca della mia. Mi accorsi di non tremare più, di stare al contrario provando un calore infinito, ma così piacevole che mi sembrava di nuotare in un lago generato da gocce di sole.
Avrei voluto solo mostrargli il mio cuore, fargli vedere con quanta gratitudine battesse per lui, per averlo visto così, con tutte le sue ammaccature e graffi.
E mi sentivo diversa, mi sentivo nuova ma anche me stessa. Tra le sue braccia che mi stringevano mi pareva di appassire e rinascere, ma era delicato, gentile, un ciclo di vita e morte che mi accoglieva senza catene e gabbie, senza lasciare più lividi sulla carne dell'anima.
Mi aggrappai alle sue spalle, avvolsi le braccia attorno al suo collo, e non so come i nostri petti si scontrarono come le labbra. Avvertivo i tremori del suo battito che si schiantavano con i miei, e mi ritrovai a pensare che nella vita certe ferite nascono per essere perdonate solo dagli occhi di chi le sa guardare davvero.
Aveva ancora addosso l'odore del bagnoschiuma del bagno, era quasi strano non sentire l'effluvio di sigaretta che tanto lo caratterizzava; eppure, ero felice, perché mi resi conto che indossavamo lo stesso profumo. Essergli simile, anche solo per quell'aspetto, mi indusse a sorridere ancora.
Mugolai quando cademmo sul letto, io sotto e lui sopra, senza che le nostre labbra si staccassero mai. Ed ero fuoco sotto i suoi tocchi e baci, e lui il fiammifero che mi aveva accesso, e comunque gliene ero grata, perché anche se bruciavo, non mi consumavo. Mi sentivo fiamma eterna, se era lui a custodirmi.
Quello era un affetto che non avevo mai conosciuto, una passione che non mi era mai stata concessa.
Feci scivolare le mani lungo la sua schiena nuda. Sentivo i suoi muscoli e nervi lavorare e contrarsi sotto le dita, feci per aggrapparmi ad essi, per poi fermarmi l'attimo dopo.
«Ti faccio male?» gli chiesi, staccandomi per qualche secondo.
Un'ombra di confusione gli attraversò gli occhi.
«I lividi» mormorai. «Hai ancora i lividi sulla schiena. Se li tocco, ti faccio male?»
Per qualche istante parve pensare di non aver capito bene, come se il mio quesito gli risultasse impossibile da comprendere, e poi, dal nulla, scoppiò a ridere. Era così raro vederglielo fare che mi persi nell'ascoltare il suono di quella risata: forte, sicura, la risata di chi, senza neanche rendersene conto, ama la vita.
«E hai avuto addirittura il coraggio di pensare di essere un mostro» dichiarò con tono ilare. I suoi occhi erano divertiti come non mai, una luce scintillante li abbagliava, trasformandoli in biglie. «Sei davvero stupida, Callisto Murray.»
«È una domanda naturale» mi difesi, offesa. «Curo i tuoi lividi da mesi, non mi perdonerei mai se te li peggiorassi.»
«Stavamo pensando alle tue ferite, non le mie.»
«Lo so, ma...» Mi sentii arrossire.
«Callisto» mi chiamò, «non sono Jesse.»
Aggrottai la fronte. «Certo che no. Vomiterei dal disgusto, se mi trovassi a fare cose simili con lui.»
«Non voglio che tu ti prenda cura di me in quel modo» disse con voce sicura. «Non sono malato, non ne ho bisogno.»
«Lo so che non sei malato-»
«No, non lo sai» mi bloccò subito lui, posando la fronte contro la mia con un colpo deciso che mi fece sussultare. Mi resi conto ben presto che in quella posizione non avevo modo di sfuggirgli. Ero sdraiata sotto di lui, le sue gambe aperte intrappolavano le mie chiuse, le sue braccia ai lati della mia testa, piegate sul cuscino. Riuscivo a sentire il calore del suo corpo in ogni singola cellula, anche senza sfiorarci, e quel calore mi scavava i battiti del cuore fino a rivoltarli, mi scivolava nella carne e le dava fuoco. «Perché questo è l'unico modo che conosci per prenderti cura di qualcuno, ma non funziona con me.»
Gli occhi di Ruben nei miei mi facevano sentire sviscerata. Erano la mia più meravigliosa tortura: adorare il modo in cui condannavano ogni mia bugia e al tempo stesso sentirmi morire quando avidi me la strappavano di dosso.
«Non voglio la sorella di Jesse Murray» dichiarò, «ma Callisto. Sono stato chiaro?»
Il suo tono non ammetteva repliche. Mi sentivo quasi indignata, ma non potevo neanche negare che una parte di me fremeva dopo aver sentito quella dichiarazione. Sentii la mia mente annebbiarsi, una caligine spessa e densa offuscarmi i pensieri e più non sapevo cosa dire o come comportarmi.
Aprii la bocca per parlare, mormorare parole sconnesse, e a quel punto lui ne approfittò: mi baciò con forza, quasi violenza. Un lungo, deciso bacio di lingua, labbra, piercing e denti. Si scontravano tra loro e al tempo stesso si allacciavano in legami mai conosciuti, strette così forti da avvitarmi anche lo stomaco, ma in un modo piacevole, che infettava tutti i muscoli con brividi di fuoco ed eccitazione.
Lui mi indagava, mi assaporava, mi sembrava di essere diventata cibo tra le sue labbra; la sua meticolosa attenzione a ogni dettaglio gli permetteva di notare anche la più piccola reazione da parte mia: respiri accennati, tremolii delle dita, battiti mancati. Non potevo fingere in alcun modo, negargli verità; leggeva e traduceva ciascuna menzogna.
Ogni volta che pensavo che quel bacio finisse, eccolo che riprendeva, più determinato e deciso di prima, ed era così umido, così sadico nella sua scoperta, che mi sentivo già nuda, spoglia di tutte le mie barriere.
Mi morse il labbro una, due volte, il suo corpo si abbassò sul mio, i nostri petti che si sfioravano ad ogni inspiro, intrappolandomi per la prima volta in una gabbia che era nata non per ferirmi, ma per proteggermi.
Scostò le ciocche della mia frangetta, le spostò di lato, e poi ridiscese con la bocca lungo la curva del collo; pensai che avesse il fuoco al posto delle labbra, perché ad ogni bacio che lasciava sulla pelle nuda mi sentivo ustionata. Provavo quella strana forma di dolore che s'intrecciava al piacere, e nel percepirla mi dissi che forse avrei dovuto preoccuparmi, ma il mio corpo era dell'idea opposta. Ad ogni bacio sulla carne, ad ogni scottatura marchiata da quella bocca, avvampava e tremava di gioia.
Avvertii il tocco della sua lingua proprio all'angolo della spalla, il suo risucchio, e poi i denti che mordicchiavano il contorno dell'orecchio, le sue mani che ridiscendevano lungo il mio corpo, lo mappavano con le dita, senza mai fermarsi, in un'ispezione continua che sembrava non trovare pace. Respirai brace al posto dell'aria, mi aggrappai alle sue spalle così larghe, solo per costringerlo ad avvicinarsi ancor più a me; il petto mi esplodeva ad ogni suo tocco.
Non ero mai stata una campionessa in intelligenza, ma avevo studiato educazione sessuale, come tutte le adolescenti me ne ero interessata e, non potendo chiedere consiglio a nessuno, mi ero informata da sola. Sapevo benissimo cosa stava succedendo, cos'era quel calore che provavo dentro e che mi faceva sentire la pelle una fornace e il cuore una bomba che solo le sue mani potevano disinnescare.
Mi ero sempre chiesta cosa si provasse, e neanche nella più fervida delle mie immaginazioni avevo mai pensato fosse così. Così forte, così violento, così imbarazzante.
Tutti i pezzi di me ringhiavano e si dilaniavano solo per sentirlo, solo per averlo. Erano disperati, avrebbero fatto qualunque cosa per farsi sfiorare da lui. L'affanno mi travolse quando le sue dita scivolarono sotto l'orlo della maglietta, iniziando a risalire piano la pelle nuda del mio stomaco. E adesso sentivo un lago di fuoco tra le cosce, nella mia parte più intima, e più le sue mani risalivano, plasmandomi come se fossi argilla bagnata sotto i tocchi dei palmi, più quel calore umido si faceva disperato e aggressivo: pulsava con un cuore tutto suo, andando a spodestare quello che avevo nel petto.
La maglietta del suo pigiama, quella che stavo indossando, risalì con la sua esplorazione, in maniera così lenta da apparirmi come una tortura. Mi baciò ancora, la lingua a divorarmi, e io sentii i seni farsi pesanti, di piombo, gonfiarsi in attesa del suo tocco, dei suoi palmi che ascendevano lungo i fianchi, per poi bloccarsi appena sotto il petto.
Avevo l'impressione di star impazzendo, volevo solo chiedergli di risalire ancora, ma Ruben rimase fermo lì, senza più muoversi.
Mi sfuggì un verso, un gemito o una supplica, che lui ingoiò tra le sue labbra. Allora li sentii: i suoi pollici, i suoi pollici che si muovevano con una lentezza straziante e pian piano raggiungevano la base dei seni, la loro curva sottile, indugiando per troppo tempo a carezzarla senza mai proseguire oltre.
Ridiscese con la bocca sul mio collo e nell'attimo in cui ne morse la pelle scattò in su con le mani. Mi inarcai sotto di lui e non riuscii a respirare, quando sentii le dita trovare i capezzoli e iniziare a stringerli, tirarli, con una delicatezza che sfumava nel tormento. E poi lui sostituì quelle dita con le labbra, con una velocità tale che a stento me ne accorsi: e succhiava, mordicchiava, torturava quelle punte fino a farmi sentire la febbre. Ad ogni mossa di lingua, denti e bocca carezzava i miei seni, li stringeva nei palmi, li modellava con le mani.
Nessuno mi aveva mai vista nuda, prima d'ora, eppure non riuscivo a preoccuparmene in quel momento; qualunque vergogna avrei dovuto provare si annientava per i fremiti che mi provocava solo nel toccarmi.
Non notai neanche quando mi sfilò del tutto la maglietta, mi ritrovai con solo gli slip addosso, a cercare il respiro mentre lui continuava quel saccheggio del mio seno, quel lungo e meraviglioso e tremendo banchetto che ad ogni assaggio mi faceva solo desiderare di spogliarlo a mia volta, urlargli che ero pronta, che avrei fatto qualunque cosa lui desiderava, purché mi aiutasse a domare l'incendio che mi aveva appiccato.
Ma non osavo, non ci riuscivo. La mia schiettezza, di solito così naturale, veniva affogata dal desiderio di protrarre quell'agonia così piacevole ancora a lungo. Non riuscivo neanche più a capire cosa il mio corpo voleva che lui facesse, l'unica certezza che avevo era che lo bramava con ogni sua fibra, ad ogni respiro e battito, ad ogni goccia di sangue che mi scorreva in vena.
La mano sinistra di Ruben abbandonò all'improvviso il seno, lasciando solo la compagna ad occuparsi dell'altro, e io deglutii con forza quando la sentii ridiscendere come una colata di magma lungo il mio stomaco, fermarsi di tanto in tanto per tracciare sulla pelle disegni di natura a me ignota, per poi riprendere quel cammino di ustioni.
Un suo dito scivolò sotto l'elastico degli slip, e poi un altro, e un altro ancora, e il punto bollente e bagnato nascosto da quel sottile strato di tessuto pulsò con ancora più forza, come a voler urlare a quella mano di sbrigarsi, di muoversi a toccarlo.
Risollevò la bocca dal seno e la riportò alle mie labbra, la mano destra a stuzzicarmi il capezzolo, la sinistra sotto gli slip. Mi baciò con ruvidezza, vorace e avido, e in quell'attimo le sue dita trovarono il fascio di nervi che da tempo lo stavano chiamando.
Mi aggrappai con forza alla sua schiena, sussultai, le mie gambe si aprirono a lui in una maniera talmente naturale che non ebbi tempo di imbarazzarmene. Non sapevo cosa pensare: era quasi spaventoso realizzare quanto piacere provassi nell'essere toccata così. Mi sentivo una chitarra che veniva accordata dalle sue mani esperte, e a ogni mossa delle sue dita dalla mia bocca partivano note di lussuria che non avrei mai creduto di poter pronunciare e che lui aspirava con forza con i suoi baci bagnati.
Strofinava coi polpastrelli sul punto più bollente di me, lo stuzzicava, quasi a volerlo prendere in giro, si fermava di tanto in tanto, senza staccare mai la mano, per poi riprendere con più furia di prima. Il mio bacino s'inarcava per andare incontro ad ogni sua mossa, e non seppi spiegarmi come ancora riuscissi a respirare, perché non mi sentivo più aria nel corpo, tutto ciò che percepivo era il sapore disarmante della sua lingua che mi rubava la voce, la tortura della mano destra che continuava a giocare col seno, e quella della sinistra che si divertiva a provocare il nucleo di desideri tra le mie cosce.
Parti di me che prima d'ora non avevo mai sentito si contraevano e pompavano sotto quel ritmo scellerato, e più lo facevano, più quella lussuria che mai avevo sperimentato mi si accumulava dentro. Il corpo faticava a contenerla, provava a catturarla e intrappolarla in sé, ma lei aumentava, e aumentava, ed era come versare con violenza una cascata di luce liquida dentro un bicchiere, sperando che quest'ultimo non si rompesse.
Ruben si fermò all'improvviso. Staccò le mani dal mio corpo tutto d'un tratto, come se non fossero mai state lì. La delusione e l'insoddisfazione mi travolsero, tutte le mie cellule piansero disperate perché riprendesse, un singhiozzo di vergogna mi sfuggì dalle labbra.
E poi... poi lui ridiscese con la bocca, replicando il cammino intrapreso prima dalla sua mano sinistra. La stessa mano che ora mi stava sfilando gli slip, senza alcun pudore ed esitazione.
La sua lingua tracciava sentieri di baci e morsi lungo lo stomaco, indugiò per un po' sull'ombelico provocando vortici e uragani sulla pelle e nella mia gola.
Sapevo cosa voleva fare, ne ero più che consapevole, e il pensiero di non esser pronta per quello mi sfiorò un solo istante, per poi marcire nell'attimo in cui mi divaricò le cosce e sentii il suo respiro caldo proprio lì, in quel punto che prima aveva suonato con le dita.
«Ru-»
Il suo nome mi morì tra le labbra, quando iniziò a nutrirsi di me, del mio piacere rovente, con baci famelici, impetuosi. Strinsi con violenza la federa del cuscino in cui affondavo la testa, chiusi gli occhi: sentivo la sua lingua, il modo in cui si cibava di me, in su e in giù, e poi di nuovo, al contrario, e ancora, e poi a succhiare, e poi a bagnare, e poi tutto insieme. Versi che non credevo di poter produrre mi sgorgarono dalla bocca ed esplosero nella stanza.
Percepii un altro tocco, poco più in basso al punto in cui la sua lingua stava giocando, in quell'apertura che attendeva solo il suo ingresso. A stento riuscii a soffocare un grido, quando sentii le sue dita schiudermi le carni bagnate e infilarsi lentamente in me. A quel punto stavo per strappare la federa con le unghie e non riuscivo più a trattenermi dal rispondergli. La mia schiena si inarcava, il bacino gli andava incontro, ed io mi sentivo preda di un delirio, un vortice di follia che aumentava ad ogni sua carezza spietata.
Le sue dita continuavano a scivolarmi dentro e fuori a un ritmo tutto loro, mi scrivevano all'interno, e la lingua pennellava ogni loro movimento, infilava i punti, le virgole, le parentesi tra una parola e l'altra. Era così bello da farmi quasi male, quella cascata di piacere che mi stava riversando dentro era tanto eccitante quanto spaventosa, e il corpo si opponeva in tutti i modi per non infrangersi sotto il suo getto. Un mero istinto di autoconservazione, lui che era abituato solo al dolore.
Ma poi riaprii gli occhi, feci calare lo sguardo in basso, vidi la chioma bruna di Ruben tra le mie cosce, il profilo amplio delle sue spalle bagnato dalla luce dell'abat-jour e tutte le resistenze si sciolsero in un istante.
Mi sembrò di spaccarmi in centinaia di pezzi, puro piacere mi esplose dal punto in cui le sue dita e la sua bocca stavano lavorando e si ripercosse come un terremoto al resto del corpo, tutti i muscoli si contrassero per poi rilassarsi, per poi contrarsi di nuovo e rilassarsi ancora. Mi inarcai, e Ruben mi strinse la natica con la mano libera; trattenni i miei gemiti per quel che potei, mentre venivo accecata da quella sensazione di totale appagamento e sconfitta, con lui che ne accompagnava ogni ondata senza smettere di muovere dita e lingua, prolungandone gli effetti più che poteva.
Non mi lasciò andare fino a quando anche l'ultimo brivido non fu scomparso, solo allora si sollevò dalle mie gambe per guardarmi.
Non sapevo che dirgli e in realtà non sapevo neanche che pensare. Istintivamente avrei voluto chiedergli le cose più stupide che non c'entravano nulla con quello che avevamo appena fatto: se gli piaceva il bagnoschiuma di quel bagno o se preferiva invece quelli dall'odore più neutro, o se aveva mai mangiato il pompelmo con lo zucchero, o se si era accorto che il soffitto di quella stanza era bianco.
Il suo viso non lasciava trapelare emozioni, ma c'era... l'ombra di un sorriso, o qualcosa che gli si avvicinava molto. Cercava di nasconderlo, ma un luccichio divertito gli lampeggiava negli occhi, mentre mi scrutava cercare di riprendere fiato.
«Che bad boy» mi uscì alla fine, senza neanche sapere perché.
La sua risata goliardica fu forse persino più soddisfacente del piacere che mi aveva appena fatto provare, rimbalzò nella stanza e mi indusse a imitarla. I nostri petti ancora vibravano quando ritornò su di me, a baciarmi la spalla.
Avvolsi le braccia attorno il suo collo, le mie dita s'intrufolarono tra le sue ciocche brune. Aveva ancora addosso i pantaloni del pigiama, e attraverso essi riuscivo a sentire il gonfiore della sua eccitazione che si strofinava tra le mie cosce, riaccendendo di nuovo la miccia dei miei desideri.
«Sai...» mi ritrovai a mormorare, «Pop aveva ragione.»
Scostò il capo per guardarmi, un sopracciglio appena sollevato.
«Il piercing» dissi, e mi sentii arrossire. «Funziona alla grande.»
Altre risate gli tremarono nel petto, mi dissi che era così che avevo sempre sognato quel momento: con felicità, divertimento, semplice soddisfazione.
Tornò a divorare le mie labbra con le sue, le sue mani ripresero a mappare il mio corpo. Sapeva bene quello che stava facendo, ciò era evidente, altrettanto non si sarebbe potuto dire di me. Eppure, nonostante questo, con uno spirito istintivo che non sapevo di avere, mi ritrovai a far scorrere le mie mani lungo il suo torace, sfiorandone i muscoli che si contraevano sotto la carne, per poi ridiscendere più in basso.
Mi morse il labbro nell'attimo in cui con le dita andai oltre l'orlo dei suoi pantaloni, pensai di prendere fuoco quando scovai la sua eccitazione e la strinsi impacciata nel palmo.
Era quanto di più diverso mi fossi immaginata, imbarazzante ed elettrizzante allo stesso momento. Lo sentii inspirare con forza, mentre iniziavo ad accarezzarla, in su e in giù, piano, con delicatezza. Versi sordi sgusciarono dalla sua gola e nel sentirli capii che l'euforia di quei gesti non ti trafiggeva solo nel riceverli, ma anche nel darli. Più stimolavo quella sua intimità, più aumentavo il desiderio di entrambi. La sentivo irrigidirsi e gonfiarsi tra le mie dita, e fu strano, perché mi sentivo riempire di compiacimento, come se fossi io la destinataria di quelle carezze.
Il suo bacino si mosse per andare incontro alla stretta con cui lo toccavo, in lunghi e intensi minuti febbrili che mi fecero girare la testa. La sua bocca divorava la mia, sentivo il piercing della sua lingua, il sapore della saliva, e il calore marmoreo che stringevo in mano e continuavo a provocare con sempre più forza e rapidità.
Le sue dita ridiscesero sui miei seni, ne strinsero le punte, e io gracchiai qualcosa, forse gemiti di piacere e dolore, e così proseguimmo per molto, a stimolarci a vicenda.
Passò tanto tempo, un tempo che si accumulò nei nostri corpi insieme al desiderio, fino a diventar poi intollerabile. Ruben mi afferrò la mano e la tolse via d'improvviso, il suo volto era appena corrucciato, ma gli occhi erano fusi nella stessa eccitazione che mi stava sbranando il cuore.
Respiravo a stento, non saprei neanche dire come, certo fu che lui si fermò a guardarmi un istante, un istante con cui riuscimmo a dirci tutto quello che a parole non osavamo pronunciare, in cui lui mi scrutò in volto e mi domandò se ero pronta e lesse la verità nel mio sorriso, uno dei rari nati senza il filtro della menzogna.
Quell'attimo, quell'unico, meraviglioso momento fu sufficiente per farmi capire quanto Eve avesse avuto ragione.
Non importava quanto tempo fosse passato da quando ci eravamo conosciuti e baciati, non importava quale fosse la definizione di quella nostra bizzarra relazione.
Io volevo lui e lui voleva me.
Non avevamo bisogno d'altro.
Un miracolo che in pochi potevano affermare di aver vissuto appieno.
Tornò a baciarmi, ma non più solo in bocca, tappezzò il mio intero corpo con baci così roventi da farmi perdere totalmente lucidità, e non so come non mi accorsi di quell'involucro d'alluminio ora scartato, non so come non mi accorsi dell'attimo in cui si sfilò del tutto i pantaloni.
So però che lo vidi sopra di me, nudo tanto quanto lo ero io, e che invece del proverbiale imbarazzo di sempre mi ritrovai a pensare che era bellissimo così, che tutto quanto, in quel momento, aveva un senso perfetto e preciso e che solo noi due avremmo potuto creare e incidere insieme.
Mi sollevai con la testa per far incontrare le sue labbra con le mie, e lui si intrufolò con il bacino tra le mie gambe; avvertii la pressione della sua eccitazione iniziare a scivolarmi dentro, a una lentezza straziante, e più affondava, più quell'incontro di corpi veniva battezzato da un bruciore e un dolore intenso nelle mie carni, che mi portò a lanciare un verso sofferto.
Ruben si fermò, si scostò dalla mia bocca per guardarmi e di nuovo gli sorrisi. Avrei voluto dire altro, avrei voluto spiegargli che quello era il primo dolore della mia vita che ricevevo con felicità, che se anche ne fosse rimasta la cicatrice, non l'avrei mai nascosta, al contrario ne sarei stata orgogliosa.
Invece, riuscii solo a implorarlo coi baci di proseguire, di finire quello che aveva iniziato, di scoprire ogni mio più segreto recesso. Lui disse qualcosa — un'imprecazione, una bestemmia — ed affondò fino alla fine, con una carica talmente emotiva e fisica che il dolore che provai, quello strappo interno, quella bruciatura sofferente, non fu che un graffio.
Era strano, stranissimo. Mai avrei creduto che unirsi in quel modo a un altro essere umano risultasse così naturale e anomalo allo stesso tempo. C'era una parte di lui dentro di me, adesso, e quella parte non mi apparteneva, eppure la sentivo mia, totalmente mia, come se, nell'accoglierla, avessi accettato anche un frammento della sua anima, di quel dolore arcaico che come me si portava sulle spalle dal giorno in cui era nato.
Rimase fermo, immobile, senza dire niente, per darmi il tempo di abituarmi a quella sensazione. Mi domandai se anche io lo stessi guardando come lui guardava me: con quella sorta di sollievo misto a desiderio, con quell'eccitazione che naufragava in profondo sentimento. Io provavo a respirare, a cercare di adattarmi a quell'assurdo incastro che avevamo creato, lui con i suoi lividi e io con le mie bugie, ed era quasi ingombrante, una vera e propria invasione di cui però ero grata.
Nella stanza si udivano solo i nostri fiati sospesi. Il bruciore che mi aveva trafitto iniziò a scomparire, come se non fosse mai esistito, e adesso a travolgermi fu un senso di pienezza talmente vasto da ritrovarmi a contrarmi attorno alla sua eccitazione, senza neanche volerlo, stringendola nelle carni per conoscerla meglio.
Vidi i muscoli del suo collo irrigidirsi, la mascella serrarsi per quel mio gesto e il suo petto gonfiarsi con un respiro che persino io compresi fosse di piacere.
Così lo feci di nuovo.
Un suono gutturale proruppe dalla sua gola, la sua fronte schiacciò la mia.
«Callisto» mi chiamò con tono di avvertimento, e mai come in quel momento mi ritrovai a pensare a quanto fosse bello il mio nome, se pronunciato dalle sue labbra.
Mi aggrappai alle sue spalle, il cuore in gola.
«La mia pazienza e il mio autocontrollo hanno un limite» mormorò, la voce roca. «Per una volta che provo ad essere gentile, dammi un attimo di tregua.»
Deglutii. Mi chiesi se per lui quella fosse la prima volta che si ritrovava ad avere a che fare con una persona senza esperienza. Se era quello il motivo per cui ancora non si era mosso, per cui attendeva, come se avesse il terrore di ferirmi.
«Non...» Inspirai con forza. «Non ho bisogno... che tu sia gentile.»
Lui mi scrutò in silenzio. I suoi occhi... Dio, quant'erano belli, tesi e antitesi che si scontravano e univano davanti a me, le ciglia folte che dipingevano spicchi d'ombre sul suo volto.
«Io voglio Ruben» mormorai con coraggio. «Non un principe azzurro, non un ragazzo delicato. Voglio Ruben, il ragazzo che è cresciuto nel Dump, che è sopravvissuto senza mai tradire se stesso, che non è gentile, che ha fatto del male, che ha fatto del bene. Voglio Ruben.» Inspirai con furia. «L'ho sempre saputo, che questo sei tu, e proprio perché questo sei tu, ti ho sempre voluto. Non ho bisogno di altro.»
Mi sembrò di sciogliermi dentro il suo sguardo, quando con la mano mi carezzò il viso, la guancia. «Ti chiedo solo una cosa in cambio» sussurrai a fatica, e lui mi osservò in silenzio.
Mi tremò la voce, mentre sorridevo.
«Giurami che non crederai mai alle mie bugie, neanche una.» Sentivo il cuore esplodermi e ricomporsi, così, in continuazione. «Neanche se sarò io a supplicarti di farlo.»
Mi baciò, una risposta sufficiente.
Fu a quel punto che iniziò a muoversi. Il suo corpo si spinse contro il mio, forte, brusco, violento. Lo sentivo scivolarmi fuori e dentro, schiudendo tutti i miei bisogni inespressi, generando boccioli di piacere che mi indussero a gemere e contrarmi attorno a lui, su di lui, in me, su di me.
Si sollevò col busto, le sue mani mi divaricarono al massimo le cosce e io singhiozzai, perché con quel banale gesto ora lo percepivo dilatarmi persino più di prima; il suo ritmo divenne furente, quasi selvaggio. Non ci fu più nessuna delicatezza, più nessuna cortesia: fu solo desiderio contro desiderio, desiderio dentro desiderio, desiderio fuori desiderio.
Ed era stupendo, bellissimo. Forse per un'altra ragazza non lo sarebbe stato altrettanto, forse avrebbe preteso coccole, carezze, un tocco lento e gentile, ma per me non era così. Quello era lui, lo sapevo, lo avevo sempre saputo: la sua bontà non si esprimeva in tocchi di delicatezza, di grazia; era invece nella sua passione, in quell'istinto di sopravvivenza con cui era andato avanti per anni, in quella frenesia che l'aveva condotto fino a lì, in quella camera d'hotel, proprio con me.
Gemiti e lamenti incontrollabili traboccarono dalle mie labbra, mentre continuava a scivolarmi dentro di più, sempre di più. Il rumore dei nostri corpi che si scontravano, dei nostri ansimi folli, dei nostri versi d'unione, esplose nella stanza di quell'albergo, accrescendo quella frenesia quasi insopportabile che mi stava soggiogando.
Si mise a sedere, mi afferrò per i fianchi per sollevarli, usare le sue cosce piegate come appoggio, aiutarli ad andare incontro ad ogni suo colpo, ed io inarcai la schiena per agevolarlo ancora e ancora, tra singhiozzi e respiri sconnessi.
Ed era crudele, lui, crudele come al suo solito: di tanto in tanto rallentava all'improvviso fino a quasi fermarsi, proprio quando l'onda di piacere che mi si stava impennando dentro era sul punto di travolgermi, per poi farla rinascere di nuovo, qualche attimo dopo, riprendendo a muoversi col suo ritmo funesto.
Sadico, sì, spietato come lui era sempre stato. La sua era una tortura magnifica, così bella da farmi perdere il controllo. Quando rallentava di colpo, ero io che col bacino insistevo perché non smettesse, supplicandolo anche a voce. Allora con le dita lui scivolava fra le mie cosce, tormentava quel fascio di nervi che impazziva ad ogni suo tocco, e io mi ritrovavo a contorcermi sotto quelle carezze sleali, ad aggrapparmi al cuscino con le mani. Mi sembrava di morire, ma un morire bello, talmente straziante da essere perfetto.
Andò avanti così a lungo, in quell'afflizione di desideri che mi faceva uscire di senno, con il mio corpo che accoglieva la sua istintività, la brutalità con cui si concedeva a me, e la trasformava in una fonte di eccitazione e totale appagamento.
Quando tornò con le dita tra le cosce, dopo non so quanto tempo speso in quello scontro di carni, mi ritrovai a delirare e a supplicarlo a gran voce: «Ti prego, Ruben, ti prego!»
E bastò.
Fu come averlo incantato. Pose fine a quel gioco che tanto aveva divertito entrambi e iniziò a muoversi a un ritmo più bruto e aggressivo, senza interrompersi mai.
La marea di piacere mi si innalzò dentro ancora e ancora e ancora; forse dissi il suo nome, non so, forse lo scongiurai di continuare, di non smettere, so però che mi sollevai col busto per quel poco che potevo, appoggiandomi sulle braccia piegate sul letto.
So che lui strinse con più forza i miei fianchi e con ancora più forza li aiutò a scontrarsi contro i suoi, ed ogni volta che mi entrava dentro fuochi d'artificio mi esplodevano in corpo, scoppi così forti da non poter udire altro.
Sollevai di nuovo il capo, mi ritrovai a vedere i suoi occhi, il modo in cui mi stavano guardando, mangiando, in cui scesero sul mio corpo nudo, sui seni che sobbalzavano, i capezzoli eretti, il centro delle mie gambe dove ci univamo.
Mi sentivo divorata da loro, e quando tornarono a incontrare i miei, quando vi lessi dentro la chiara promessa che così sarebbe successo davvero, ogni particella di carne, nervi, sangue e muscoli si contraé quasi con pazzia, sotto l'ennesima spinta, devastata da un'ultima conflagrazione che mi fece perdere del tutto il senno.
Non riuscii più a sentire e a vedere niente, se non quella sensazione di assoluto piacere che mi annebbiava tutti i sensi, che mi indusse ad ansimare a gran voce parole per cui, ne ero certa, più tardi mi sarei vergognata a morte. Ma adesso non potevo che abbandonarmi ad essa, ed era così bella, così meravigliosa, così perfetta, che mi ritrovai a sorridere.
E proprio quando pensai che fosse sul punto di scemare, Ruben mi afferrò le gambe e le sollevò. Non capii, stordita, e mi ritrovai a gridare il suo nome nel momento in cui se le posò sulle spalle e mi schiacciò con tutto il suo peso contro il letto.
Un gemito profondo attraversò entrambi non appena affondò di nuovo in me: in quella posizione, così aperta a lui, mi sembrava di sentirlo entrare con molta più irruenza, come se potessi percepirne ogni più piccolo e infinitesimale centimetro mentre mi dilatava all'interno.
Si sdraiò meglio sopra di me, le mie gambe ancora sulle sue spalle, mi afferrò i polsi e li affossò contro il cuscino, ai lati della mia testa. Il suo volto era così ebbro di desiderio che nel vederlo sentii l'incendio divampare un'altra volta e con ancor più violenza di prima.
Non potevo neanche sfuggirgli, ero incastrata tra il materasso e il suo corpo, oppressa dal suo peso, i polsi bloccati dalle sue mani, in una prigione di carnalità che mi rendeva libera come non mai.
Tutto ciò che mi era permesso fare era accogliere i suoi affondi che erano vere e proprie aggressioni, lasciare che mi si incuneassero dentro con squarci di lussuria. Ad ogni suo attacco le mie carni si aprivano e chiudevano a lui in un lago di eccitamento, sempre, fremevano per quella soddisfazione divina. Ed io non riuscivo più a trattenermi, singhiozzavo e ansimavo, la mia voce si squassava a riprova di quanto stessi godendo.
«Di nuovo» lo vidi pronunciare, con quel tono imperioso per cui tanto lo prendevo in giro e che eppure in quel momento mi accese. «Dillo di nuovo.»
Continuò a spingersi in me con ferocia, le nostre pelli ormai rivestite di sudore, odore di sesso, i nostri gemiti e versi che saturavano l'aria. Non c'era più sollievo da quell'invasione violenta e perpetua, e allora capii cosa intendeva, cosa desiderava. Ma adesso il suo volto era proprio sopra il mio, poteva vedere ogni sfumatura delle mie espressioni, e questo mi eccitò così tanto da indurmi a strillarlo con furia: «Ti prego, Ruben, ti prego!»
Una bestemmia, da parte sua, un'imprecazione profonda. Accelerò il ritmo, i suoi colpi si fecero barbari e iracondi, e sotto il loro assalto io mi ritrovai a incitarlo e spronarlo senza più contegno, a chiedergli di più, ancora di più.
Non riuscivo più a controllarmi, il desiderio mi aveva fatto completamente perdere la lucidità, e lui se ne accorse. Scorsi il suo sorriso, quel sorriso che quasi mai mostrava. Malevolo, sì, ma anche felice.
Si chinò su di me, mi baciò avido, folle, e i nostri corpi proseguirono quella conoscenza bestiale, quasi primitiva. La sua lingua carezzò la mia con mosse erotiche e bagnate, e quella fu la goccia che fece traboccare di nuovo il vaso della mia lussuria. Sentii di nuovo il fuoco esplodere, le mie parti più intime stringersi con furia attorno alla sua eccitazione, ogni mia cellula urlare di piacere per quell'incontro, e forse urlai anche io contro le sue labbra; mi parve di cadere nel vuoto e lui cadde con me, in quel vortice di tormento e bramosia, fino a quando non ci furono più né Ruben né Callisto.
Solo un ragazzo e una ragazza che un giorno si erano incontrati, si erano desiderati e per questo si erano amati.
Forse in un modo diverso dagli altri, forse in un modo che tanti avrebbero ritenuto sbagliato.
Ma non per lei.
Non per lui.
Questo era ciò che più contava.
Questo: l'attimo in cui quel piacere indicibile si impossessò anche di lui e allora lui lo lasciò uscir fuori, dentro di me, con un'ultima, violenta e rabbiosa spinta che mi fece gridare il suo nome.
Questo: l'istante in cui mi baciò ancora e in quel bacio affogò quelle parole che, lo sapevo, ancora nessuno dei due poteva dire ad alta voce.
Forse era il modo sbagliato, forse non era così che una ragazza avrebbe dovuto vivere la sua prima volta.
Ma per me c'era Ruben, per me c'era lui.
Bastava per renderla giusta.
Nota autrice
Ok.
Chiariamoci: io mi sto vergognando da morire. Credo di non aver mai descritto una scena di segggsss così nel dettaglio. MAI. Di solito cerco di aggirare il problema sfruttando metafore e pipponi mentali per evitare di specificare esattamente quello che sta succedendo, ma sapevo che per Callisto e Ruben non sarebbe andato bene.
Ruben, da bravo "bad boy" è un ragazzo, ehm, istintivo. Callisto, da brava Hope Summer Verginy (no, non è vero, non è Hope, grazie a Alberto Angela), è una ragazza che è interessata molto al segggs (e direi anche giustamente, voglio dire, è un'adolescente), di diciassette anni, non avrebbe avuto senso farle descrivere la scena con metafore auliche che non si sarebbero adattate per niente né al suo personaggio né al suo punto di vista.
E sì, voglio davvero morire. Me voglio scava la fosse, ve giuro che non so con che coraggio so riuscita a pubblicare sto capitolo. Vi prego, semmai mi incontraste per strada, fingete di non conoscermi. O di non aver mai letto sto pezzo.
Mi sto vergognando più di quando, alla mia comunione, il cellulare di mia nonna squillò con la suoneria della canzone di Dolce Remì in versione porno.
Giuro, vorrei sotterrarmi. Io DETESTO scrivere le scene di sexxxus, per tre motivi:
1) mi fanno sempre cagare
2) è imbarazzantissimo farle leggere ad altri
3) non so mai quali termini usare per evitare di far diventare la scena cringe. Ma tanto, tanto, cringe. (Ho una lista nera di termini da NON usare mai: uccello, cazzo, clitoride - sì, la parola clitoride mi fa cagare, mi disp, Miss Clitoride -, pene, vagina, etc...)
Ovviamente, come ci si aspetta dalla mia bassa autostima, sta scena mi ha fatto schifo. Cioè, vi giuro, non ho manco il coraggio di rileggerla, mi sanguinano gli occhi. C'ho paura, veramente, veramente paura.
Me sto cagando sotto, per esse delicata.
Penso che se i miei genitori mi beccassero a fare quello che ha fatto Callisto in sto capitolo, mi vergognerei di meno di quanto mi sto vergognando adesso a farvelo legge, giuro.
Nel dubbio, voi dite sempre che è bello, anche se non è così. C'ho bisogno di un po' di complimenti, pliz, so una ragazza fragile.
Una piccola cosa:
Spero di esser riuscita a far capire come si è sviluppato questo primo rapporto tra Callisto e Ruben. Per quanto i due siano affiatati e piccioncini, non sono esattamente una coppia "coccolosa e pucciosa". Ruben, come già detto, è un ragazzo, ehm, "istintivo". Considerato il suo passato, il luogo in cui ha vissuto e le persone che ha conosciuto, quello è il suo modo di rapportarsi col sesso, e Callisto questo l'ha capito, lo ha accettato e ha deciso di condividerlo.
Perché in fondo, Callisto, come lei stessa dice, vuole Ruben proprio perché è Ruben, non perché è un principe azzurro.
Percio sì, ecco. Scusatemi se sta prima volta non è stata molto, ehm... delicata? Dolce? Coccolosa?
Vabbè, ora vado a, come direbbero gli inglesi, UNALIVING me stessa. Nella mia tomba, per favore, portate un bel po' di nutella.
La nutella sta bene con tutto.
Sciao.
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