Amore
Finita la mia lezione di Geografia, rimasi sorpresa quando, davanti alla porta, mi ritrovai James ad aspettarmi. Addosso aveva l'espressione più seria che gli avessi mai visto, ed era tenera, incredibilmente tenera, ti veniva voglia di soffocarlo di abbracci. James era a tutti gli effetti un peluche bellissimo.
Senza dire una parola, mi prese per mano e mi portò lontano dagli altri studenti, a un angolo del corridoio rimasto vuoto e sperduto, abbastanza distante perché nessuno potesse sentire la nostra conversazione.
Lo guardai nella perplessità, mentre lui raccoglieva fiato e coraggio per iniziare a parlarmi: «Qu-Quali s-s-sono le tu-tue in-inte-intenzioni?»
Per qualche secondo, non seppi che rispondere.
«Vu-Vuoi pre-prenderti gioco di-di-di me?»
«Di te? Io?»
«Sì!»
Rimasi scioccata. «Perché dovrei prenderti in giro?»
«Per qu-quale al-altro motivo m-m-mi avresti in-invitato a fa-fa-far gruppo co-con voi?»
Non riuscivo a comprendere il collegamento per cui invitarlo equivalesse a volerlo umiliare, ma per lui sembrava così scontato che mi sentii stupida. Ci riflettei. «Non ti conosco neanche, su cosa dovrei prenderti in giro?»
«No-Non fa-fare la tonta.»
«Ti giuro, non capisco, perché mai-» Mi fermai, ricordandomi solo allora quello che avevo visto nel suo quaderno. «È perché ho scoperto che ti piace Eve?» La punta delle sue orecchie si colorò di rosso. «Non volevo prenderti in giro, volevo darti l'opportunità di passare più tempo con lei.»
«C-Come?»
Sollevai l'indice. «Mio fratello mi ha detto» spiegai, «che quando ti piace qualcuno vuoi sempre essergli accanto e vuoi conoscere più cose sul suo conto. Dato che ti piace Eve, non ti conviene far gruppo con noi?»
Il rossore passò dalle orecchie alle guance, la balbuzie si fece più forte. «Perché vo-vorresti ai-aiut-aiutare un comp-completo s-s-sconosciuto?»
«Perché sei carino» risposi all'istante e James sussultò. «Volevo subito stringere amicizia con te.»
Si guardò i piedi, confuso forse più di me. «No-Non pensi ch-che sia su-su-superficiale?»
«Cosa?»
«M-Mi pia-piace a-a-anche se-se non l'ho-ho ma-ma-mai co-conosciuta.»
«Mmh» mi grattai il mento. «C'è una legge che stabilisce che l'amore non può essere superficiale?»
Parve sorpreso, proseguii: «Alla fine, è pur sempre amore, solo in una forma diversa.» Sghignazzai. «Non credo sia giusto sminuirlo, non importa per quale motivo è nato.»
Si grattò la nuca, distolse lo sguardo, tamburellando il piede destro sul pavimento. «Di-Dici co-co-così perché tu-tu pu-pure lo pro-pro-provi.»
Se mi avesse detto che mi era spuntata una seconda testa, sarei stata meno confusa.
«Pensi che io sia innamorata di Eve?» Schiusi le labbra. «È sicuramente una gnocca e la invidio tantissimo per questo, ma non sono omosessuale.»
«No-Non i-i-intendevo Eve!» Le sue guance si arrossarono ancor più, sempre che fosse possibile. «Pa-Parlavo del ra-ra-raga-ragazzo del D-D-Dump.»
Mi sentivo persa in un labirinto, mi girava la testa. «A Ruben piace Eve?»
Batté entrambi i piedi per terra. «No! A te piace R-Ruben!»
Non riuscivo a capire come si era arrivati a parlare di lui. «Certo che mi piace, è gnocco.»
Dal modo in cui guardò, si sarebbe potuto dire che desiderava soltanto prendermi a sprangate in testa. «Ne-Nel s-s-senso che se-sei inna-innamorata di lui pro-proprio perché è-è-è bello.»
Non riuscii a trattenermi, sgranai gli occhi.
«Io?»
Annuì.
«Innamorata di lui?»
Annuì.
La sua dichiarazione mi sconvolse.
«È vero che mi piace la sua compagnia ed è anche vero che questo è dovuto pure dal fatto che lui è davvero bellissimo» affermai, «ma da qui a dire che sono innamorata di lui...» Sventolai la mano in su e giù davanti al mio volto. «Stai complottando come mio fratello, ora.»
James mi guardò senza filtri, come se fossi una grandissima deficiente.
Mi sentii un po' offesa.
«Guarda, come spiegartelo...» ci meditai su. «James, hai mai avuto cani?»
La sua espressione sembrò pensare: "E adesso dove cazzo vuole andare a parare".
«U-Uno.»
«Penseresti mai che il tuo cane può innamorarsi come un essere umano?»
«T-Ti sta-stai para-para-paragonando a un ca-cane?» Gli lessi la sconfitta negli occhi.
«Un golden retriever, per la precisione» specificai, gonfiando il petto e battendoci la mano sopra. «Sono fedele, adoro chi mi tratta bene e se mi dai una carezza scodinzolo.»
Parve che gli avessero sottratto l'anima dal corpo.
Mi schiarii la gola. «Quello che voglio dire è che sono capace di amare, ovviamente, ma l'innamoramento mi è del tutto estraneo. Al massimo posso ammirare.» Non era affatto convinto. «E comunque la discussione era sulla tua cotta per Eve, com'è che siamo finiti a parlare di cani?»
«F-Fidati» biascicò esausto, «m-mi sto chie-chiedendo la stessa co-co-cosa.»
«Quello che ti volevo dire» continuai, «è che non importa se ti sei innamorato di lei per il suo aspetto, quello che conta è come intendi usare adesso quest'amore.» Sollevai i pugni in aria. «Devi trovare il coraggio di farti avanti e scoprire se ti innamorerai ancor di più una volta aver conosciuto anche il suo carattere, o se al contrario il sentimento si affievolirà. Volevo darti quest'opportunità, per questo ti ho chiesto di fare gruppo con noi. Davvero, non c'erano altre intenzioni.»
Storse la bocca, mi osservò di sottecchi.
«Davvero» ripetei, «e poi tu tiri fuori in me il mio istinto materno.»
«C-Come?»
«Sei così tenero!»
«P-Perché ba-bal-balbetto?»
«No, lo sei e basta.»
Adesso tutto il volto era infiammato.
«Lo-lo sa-sai che per un u-u-uomo qu-questo non è un co-complimento?»
«Perché no?»
Schioccò la lingua, rivolse la sua attenzione a terra. «T-T-Ti ha-hanno ma-mai de-detto che se-sei un po' stu-stupida?»
«Assolutamente sì!» dichiarai tronfia. «Ruben me lo dice sempre!»
James sospirò, si passò le mani sul volto. «Va-va bene» disse infine. «Pro-pro-proverò a crederti, ma t-tu!» Mi puntò l'indice contro. «N-Non de-devi di-dirle nie-niente!»
Mi misi sull'attenti e feci il saluto militare. «Signorsì!»
«So-Soprattutto de-dei di-di-disegni!»
«Dovresti farglieli vedere, però» gli suggerii con sincerità. «Eve apprezzerebbe, davvero, sono sicura che-»
«Non u-una pa-pa-parola!»
Richiusi la bocca, un po' delusa, ma annuii. Gli porsi la mano. «È un patto, allora.»
James la guardò per qualche secondo, attese parecchio tempo, prima di stringerla.
«È un pa-pa-patto.»
*
Innamorarsi.
Pareva strano, ma in sedici anni di vita non ci avevo mai pensato.
Certo, avevo avuto le mie cotte adolescenziali come tutti, per Ed Sheeran in particolar modo, ma non le avevo mai sentite tanto profonde da considerarle vero e proprio amore.
Nella mia vita c'era sempre stato solo e soltanto Jesse, nessun altro.
Era lui la mia anima gemella, anche se in un modo diverso da quello che veniva rappresentato nei romanzi rosa smielati che mio fratello tanto amava.
Era il primo pensiero con cui mi svegliavo al mattino e l'ultimo con cui mi addormentavo la notte, percepivo la lontananza da lui come un'invincibile sofferenza, soprattutto ora che non potevamo più stare insieme, e ogni cosa che guardavo, ogni persona che incontravo mi portava inesorabilmente alla camera d'ospedale in cui era costretto.
Amore.
Avevo conosciuto l'amore, quello che vedevo tra i miei genitori, il modo in cui li portava a sostenersi a vicenda e alimentava il disprezzo che provavano nei miei confronti.
Forse era per quello, pensai, forse era per quello che mi sentivo incapace di amare.
Ruben... lui era diverso, diverso da tutto quello che avevo conosciuto fino ad ora. Non era amichevole, non era gentile, eppure portava dentro la stessa sofferenza che ricamava le cicatrici sui miei polsi. Non era amore, mi dissi, era semplice appartenenza. Se lo guardavo, vedevo nei suoi occhi il mio riflesso deforme e amorfo come ero realmente. Se mi guardava, sapevo che riusciva a scartavetrare via qualsiasi mia menzogna.
Non era amore, mi ripetei.
Amore voleva dire mettere al primo posto quella persona, renderla la più importante nel tuo mondo.
Ma il mio primo posto sarebbe sempre stato occupato solo da Jesse, nessun altro.
E se anche mi fossi innamorata, non avrei comunque potuto permettermi di sperimentare appieno quel sentimento, perché dovevo riservare tutte le mie energie ed emozioni a mio fratello, mio fratello che fra poco non ci sarebbe stato più.
«A cosa pensi con così tanta intensità?»
Sollevai il capo dalle mani che stringevo sopra le mie cosce e incontrai gli occhi di Jesse, seduto sul letto, con un paio di occhiali dalla montatura a tartaruga addosso. Aveva un sorrisetto malizioso addosso, tra le mani stringeva l'ennesimo romance trash che aveva comprato per la noia. «Occhi vacui, espressione confusa, mani intrecciate tra loro...» constatò con l'indice sul mento. «Qualcosa ti turba, perché non ne parli con il tuo amato fratellone invece di arrovellartici così da sola?»
Seduta accanto al suo letto, ci riflettei qualche istante, giocando a unire i polpastrelli delle dita tra loro. «Tu sei mai stato innamorato, Jesse?»
Un sorriso sornione gli divorò le labbra. «Guarda caso me lo aspettavo. Ah, l'adolescenza, che bei ricordi.» Richiuse il libro (che scoprii si intitolava "Meet Enrique Kuman") e lo ripose sul comodino. «Io sono un latin lover, sorellina, sono gli altri a innamorarsi di me.» Si spinse indietro gli occhiali sul naso. «Al mio funerale tutte le mie amanti scopriranno le une le esistenze delle altre e inizieranno a tirarsi per i capelli durante la funzione.»
«Dovrò preparare il kit di pronto soccorso allora.»
«Ottima mossa, Callisto, ottima mossa.» L'ironia nella sua voce iniziò a sfumare. «Sai, prima della malattia, c'era questa ragazza che faceva le mie stesse classi a scuola.» Si sdraiò sul letto, affondò la testa nel cuscino con un sorriso ora amaro. «Si chiamava Emma Marlow. Aveva i capelli più corvini che avessi mai visto, sotto la luce del sole assumevano dei riflessi blu e le sue ciglia erano lunghissime, senza bisogno di trucchi. E aveva un neo grande quanto un chicco di riso proprio qui, all'angolo dell'occhio sinistro.» Si indicò il punto con la mano. «Non facevo altro che guardarglielo, quel neo, mi incantava. Non aveva un volto chissà quanto ammaliante, ma quel neo la rendeva così affascinante che non riuscivo a staccarle gli occhi.»
Era la prima volta che mi parlava di lei, così ascoltai stando attenta a non interrompere neanche un momento. C'era malinconia nei suoi occhi, la malinconia dei ricordi di quando era ancora un ragazzo in salute, che non aveva bisogno di centinaia di farmaci e terapie diverse per vivere un altro giorno. «Era una solitaria, non parlava quasi mai con nessuno, persino per una persona sociale come me intrattenere una conversazione con lei era impossibile.» Intrecciò le dita tra loro, chiuse gli occhi. «Gli altri ragazzi la chiamavano "L'intoccabile", la prendevano in giro, non importa quante volte dicessi loro di smetterla.»
«E poi?»
«E poi niente.» Sollevò le palpebre e tornò a guardarmi. «Mi sono ammalato e non l'ho più rivista.» Rise quando mi osservò. «Non fare quella faccia, sorellina, sono cose che capitano.»
«Non è mai venuta a trovarti mentre eri in ospedale?»
«Una volta, insieme agli altri compagni di classe. Mi ha regalato un portachiavi a forma di libro.»
«Non le hai mai detto quello che provavi per lei?»
«Per amor della verità, nemmeno io sapevo quello che provavo per lei, all'epoca.» Sereno, si sistemò meglio sul letto. «Sai, quando si è adolescenti, Callisto, proviamo tantissime emozioni, le sentiamo esplodere dentro di noi ma non sappiamo dar loro un volto, un nome. Ci è difficile restare razionali, ci lasciamo traportare da loro come meduse dalle correnti marine. Solo una volta che sono cresciuto ho avuto modo di riflettere su quei sentimenti» gli tremolarono leggermente le palpebre, «ho pensato: "Ah, quindi era così, ero perso per lei".»
Sentii il cuore appesantirsi. Mi resi conto di quanto dovesse essere difficile per lui rievocare quei ricordi, quell'amore incompiuto che non avrebbe mai più potuto rivivere. Allungai la mano, strinsi la sua, i suoi occhi s'addolcirono.
«Hai mai provato a ricontattarla?»
«A quale scopo?» Era serafico, ma il tremore delle ciglia lo tradiva. «So che ha una sua vita, ora, probabilmente mi avrà già dimenticato. Non avrebbe senso rovinargliela dandole il brutto ricordo di un malato terminale che le confessa di averla amata quand'erano ragazzini.»
Ebbi un impeto di rabbia nel sentirlo descriversi così, ma il sorriso fu tutto ciò che mi rimase. «Jesse» lo chiamai, «tu non sarai mai un brutto ricordo.»
Sorrise.
«E comunque mi sono rifatto» disse con tono spaccone, «tutte le infermiere di questa clinica sono pazze di me.»
Sogghignai.
«Perché questa domanda sull'amore, comunque?» Tamburellò col pollice sul dorso della mia mano. «Non mi dire... Mr Puro e Duro? Mr Bad Boy? Mr Spacco Botilia Amazzo Familia?»
«No, no.» Scossi la testa più volte e mi affrettai a spiegare.
Finita la storia, Jesse si mise la mano libera sul cuore, fingendo un attacco cardiaco. «Ah, gli amori adolescenziali! Ah! La smielatezza!»
«Leggi sempre queste cose, adesso non puoi fingerti disgustato.»
«È un infarto di dolcezza» dichiarò. «Sempre apprezzato.»
Mi scostò la frangetta, finita sugli occhi.
«Però potrebbe farti bene vedere qualcuno innamorato.» Addosso aveva un ghigno mai visto prima d'ora. «Spero che anche tu un giorno possa sperimentare l'ebbrezza dell'amore, Callisto.»
«Con Mr Bad Boy?»
«Lui è l'ultimo della lista. Cerca uno perfetto come me, ma non troppo, mi raccomando, o potrei essere geloso.»
Non sapevo spiegarmi il motivo, ma dentro sentivo un peso tremendo sul cuore, una piaga che mi dilaniava e si faceva più feroce ogni volta che incontravo i suoi occhi.
Jesse mi studiò, attento, prese la mia mano tra le sue.
«Callisto» mi chiamò.
«Sì?»
«Io temo» disse, «che per prenderti cura di me in tutti questi anni tu abbia messo da parte le tue emozioni.»
Il peso si fece più forte, fece sprofondare il cuore fino allo stomaco.
«Che tu le abbia impacchettate tutte, una ad una, e riposte in un armadio. Hai lasciato libere soltanto quelle necessarie per badare a me.»
Avrei dovuto contraddirlo, lo sapevo, ma il suo sguardo mi fece capire che non accettava repliche.
«Ma l'armadio rimane, non importa quanto tu lo tenga lontano dagli occhi e dal cuore. E se non sei tu a riaprilo e a liberare quelle emozioni, saranno loro a farlo di propria iniziativa. E sarà molto doloroso.»
Mi baciò le nocche delle dita.
«Perciò se desideri qualcosa, adesso, se desideri qualcuno, non vietartelo. Fai questi regali a te stessa. Se non te li permetterai, rischierai di esplodere.»
«Jesse...»
«So cosa stai per dire: che io sono tutto quello di cui hai bisogno. Non è così.» Non so con che forza riuscii a mantenere il sorriso. «Sei un'adolescente, Callisto, hai bisogno di amori, odi, fratellanze, inimicizie, amicizie, innamoramenti... e tante altre cose che non ti posso dire perché non sei ancora pronta.»
La mia mano tra le sue mi sembrò fredda, congelata.
«Ti ho mandato a scuola proprio perché tu possa essere quello che sei: una semplice adolescente.»
Strinse.
«Promettimi» pronunciò, e il peso nel cuore mi strizzò anche le interiora, «che semmai ti dovessi innamorare davvero di qualcuno, non scarterai quel sentimento per me. Promettimi che non mi metterai al primo posto, sopra di te.»
Mi dissi di mentirgli, di accettare pur sapendo che non avrei mai mantenuto quel giuramento.
Lo avevo fatto tante volte, d'altronde, lo facevo da una vita intera.
Ma quando incrociai il suo sguardo, quando mi accorsi con quanta voracità quella richiesta lo divorava, le parole uscirono da sole, prima che potessi fermarle:
«Non posso.»
*
Quella notte si rivelò più insonne delle altre.
Passai il tempo seduta sul mio letto, a rigirarmi i bracciali ai polsi, il suono argentato dei loro ciondoli che si scontravano era l'unico a tenermi compagnia.
Non riuscivo a pensare, in realtà, non riuscivo nemmeno a provare, tutto ciò che sentivo erano le catenine dei bracci sui polpastrelli, il loro freddo tocco, il modo in cui si smuovevano sotto le mie dita.
L'armadio.
Jesse, seppur involontariamente, aveva trovato una metafora ancor più dolorosa da accettare per me.
L'armadio.
Quell'armadio del salone di casa nostra, dal legno infeltrito, con le ante ricoperte di graffi all'interno.
Graffi che avevo inciso io, le mie unghie.
Mi dispiace se sono nata, mi dispiace, perdonatemi.
Mi tirai indietro i capelli con le mani, espirai a fondo.
L'armadio in cui avevo nascosto tutte le emozioni impacchettate.
L'armadio in cui ero stata rinchiusa io, per giorni interi.
Non potevo... non potevo dire a Jesse che aprirlo avrebbe significato anche rivelare gli abusi, quelle tremende torture che ancora portavo addosso, sui miei polsi.
Il cibo avariato nella ciotola per cani.
I tappeti di gusci di noci sopra cui dovevo rimanere inginocchiata per ore, davanti a mamma e papà, mentre loro guardavano la televisione.
I giorni in cui mamma mi costringeva a pesarmi davanti a lei, così che potesse dirmi che ero di nuovo ingrassata, che mi avrebbe tolto altro cibo.
Il vomito provocato dall'intossicazione alimentare, i dolori acuti alla pancia, che mi facevano svenire a volte per ore.
Come... come avrei potuto rivelarglielo?
Come... avrei mai potuto dirlo a qualcuno?
Era ancora presto... era ancora...
«È successo un miracolo? Finalmente stai zitta.»
Voltai il capo alle spalle, verso la finestra, e subito la mano lasciò andare la presa sui bracciali, non appena vidi Ruben sul davanzale. La sorpresa fu talmente grande che, senza volerlo, un sorriso mi ricamò le labbra.
«Sei venuto qui da solo, senza che te lo dicessi io» esclamai, senza riuscire a nascondere l'emozione. Lui aveva la stessa espressione austera di sempre, e fece ben attenzione a non incontrare il mio sguardo estasiato. Lo scannerizzai con gli occhi, alla ricerca di lividi. Quella sera indossava di nuovo una maglia a maniche lunghe, ovviamente nera, e un paio di jeans che si erano strappati lungo le ginocchia. Dubitai che quegli strappi se li fosse procurato da solo. «Ti sei fatto male anche alle gambe? Potremmo-»
«Non» tuonò, «mi sfilerò i pantaloni.»
Lo guardai. «Perché no?»
«Non lo farò.»
«Ma se hai lividi sulle gambe-»
«Non lo farò.»
«Allora ti lascerò un po' di pomata» dissi, «così quando tornerai a casa tua, potrai mettertela da solo sulle gambe e-» Sollevai il capo in alto, mi accorsi solo in quel momento che aveva il labbro inferiore tagliato e la punta del naso sbucciata. Prima, l'oscurità della stanza mi aveva impedito di notarlo.
Mi sollevai sulle punte e posai una mano sul suo zigomo destro, sfiorando con il pollice i punti feriti. Lui aggrottò appena la fronte, come se, sebbene ancora gli desse un profondo fastidio, pian piano si stesse abituando al mio tocco. Quella constatazione mi fece sorridere. Sentivo di aver superato uno dei suoi tanti confini inesplorati.
Rimasi per qualche secondo persa a contemplarlo, la mano ancora sul suo viso, e lui la afferrò con la sua, tenendola ferma sulla guancia, stringendola soltanto. Forse, pensai, era ancora indeciso se togliersela di dosso o meno. Le sue dita callose erano calde, un po' umide e sudate, e in confronto a loro le mie sembravano minuscole, moscerini, sparivano sotto il loro tocco.
«Ho un po' di disinfettante e ovatta.» Allontanai la mano e mi concentrai sul suo torace, dove sapevo celava gli ematomi più grandi. Afferrai l'orlo della sua maglietta. «Prima pensiamo ai lividi e-» Mi fermai, non appena lui mi bloccò le mani con le sue.
«Cosa stai facendo?» domandò con tono aspro.
«Ti tolgo la maglietta» mi sembrò la risposta più ovvia del mondo, ma dal modo in cui lui mi guardò, parve gli avessi detto di voler compiere un infanticidio.
Aveva le mani ancora ancorate ai miei polsi, per impedirgli di sfilargli l'indumento. Strinse con più forza. «Dimmi un po' » disse, «ma tu lo sai cosa sono io?»
«Cosa sei tu?» Arricciai il naso. «Mmh... Uno studente?»
«Oltre a quello.»
«Un bad boy?»
«Come?»
«Niente, niente. Un... Un lottatore?»
Le sue narici fremettero. «Nel caso non te ne fossi accorta, io sono un uomo.»
«Certo che me ne sono accorta» ribattei indignata.
«Davvero? Perché a me non sembra.»
«Ti sembra male.»
«Sai cosa implica il fatto che sono un uomo?»
Non lo credevo così stupido. «Che hai un pene» dichiarai. «Guarda che l'ho fatta educazione sessuale, e ho pure un fratello. So da quando sono nata la differenza tra maschi e femmine.»
«Allora spiegami» continuò lui, mentre continuava a trattenere le mie mani, «perché nonostante tu sia consapevole della differenza, non hai alcun timore o pudore a spogliarmi.»
«Mica ti vedo il pene.»
Chiuse gli occhi, attese parecchi minuti prima di riaprirli. «Faccio da solo.»
Mi lasciò andare e io indietreggiai di qualche passo. Lui avanzò verso il letto, con movimenti molto irritati e, dopo un po', si sfilò la maglietta.
I lividi erano più del solito, uno in particolar modo si stava propagando sopra la sua schiena, sopra le cicatrici sottili come vene che la devastavano. Colori plumbei che andavano a corrodere la sua carnagione naturalmente olivastra.
Presi l'occorrente dai cassetti e aspettai che si sedesse sul bordo del letto, prima di sedermi a mia volta alle sue spalle e iniziare a spalmare la pomata.
«Tu non hai senso del pericolo» pronunciò lui dopo qualche minuto di angosciante silenzio.
Mi fermai un istante, prima di riprendere a coprire i lividi. «Solo perché non ho problemi a vederti il torace nudo non vuol dire che non ho senso del pericolo» mi difesi.
«Sai come avrebbe potuto interpretare il tuo gesto un ragazzo?»
«Un ragazzo, non tu.»
Tacque di nuovo, mi accorsi che, di tanto in tanto, sussultava quando sfioravo gli ematomi più freschi, ancora rossi dalla contusione.
«Non è che vado a sfilare le magliette a tutti i maschi che incontro» borbottai offesa.
«Mi hai chiesto di togliermi i pantaloni.»
«Sono gambe, non sono così scandalose.»
«E sentiamo, cosa avresti fatto se non indossassi mutande?»
«Bleah. Mi cadresti in basso. L'igiene intima è la priorità per una vita sana.»
«Parli di vita sana e poi sei la prima a prendere a schiaffi un'altra ragazza con una lattina di CocaCola.»
«Tu fumi e picchi la gente.»
«Almeno io non ho provato a sfilarti la maglietta.»
«Io non ho lividi su tutto il torace e soprattutto» mi sporsi e aggiunsi al suo orecchio: «tu non hai le tette.»
Si voltò appena per scoccarmi un'occhiata furibonda. Ridacchiai. «Adesso girati verso di me, devo farti il petto.»
«Giusto, io non ho le tette.»
La battuta mi sorprese a tal punto che scoppiai in una fragorosa risata. Ruben si passò più volte la mano tra i capelli, la fronte ancora corrucciata, ma si girò comunque verso di me, così che potessi iniziare ad applicare la pomata anche sui lividi che portava nella zona addominale.
Mentre lo medicavo, mi accorsi di star canticchiando. Non sapevo dire perché, ma dall'ultimo pasto in mensa insieme, si era aperto un po' nei miei confronti, al punto che ora potevamo battibeccare in quel modo senza che mi minacciasse ogni tre parole. Anzi, da un certo punto di vista, mi stava facendo scoprire un nuovo lato di lui, più sbarazzino, sempre pronto alla risposta. Mi piaceva. Mi piaceva davvero tanto tutto ciò.
Dopo qualche minuto, quando ero intenta a ispezionare un livido che si trovava proprio sopra l'ombelico, lo sentii pronunciare: «A cosa stavi pensando prima?»
«Prima?»
«Prima che arrivassi.» Davanti al mio sguardo interrogativo, spiegò: «Ti stavi torturando i bracciali mentre fissavi il vuoto.»
Quindi mi aveva vista. Mi domandai per quanto tempo fosse stato lì ad osservarmi, prima di intervenire. Ancor più, ero sorpresa che si stesse informando su qualcosa che non lo riguardava affatto e da cui si era sempre tenuto alla larga: i miei pensieri, il mio stato d'animo.
Sapevo di non potergli rivelare la verità, ma comunque mi compiacqui di quella sua inaspettata curiosità. Sorrisi. «Il progetto di Storia.» Trasalì quando spalmai la pomata su un ematoma sul fianco sinistro. «Mi stavo chiedendo come trattare la storia di Omero in modo da ottenere un buon voto.»
«Quante volte devo dirti» sibilò, «che detesto le tue menzogne?»
Non avevo avuto dubbi sul fatto che mi avrebbe smascherata subito, ma avevo comunque dovuto provarci. Ritrassi le mani e richiusi il barattolo della pomata, per poi fermarmi un istante, quando un dubbio mi colse la mente. «Tu sei mai stato innamorato?»
Se gli avessi chiesto di uccidere sua madre, probabilmente, non avrebbe comunque avuto quella faccia così adirata. Soffocai le risate.
«Ok, ho capito, ho capito.» Mi rialzai dal letto, rimisi la pomata a posta e dal cassetto tirai fuori l'ovatta e il disinfettante. «Una persona oggi mi ha raccontato del suo primo amore» gli spiegai a quel punto, tornando a sedermi al suo fianco. «È stata una storia molto amara da digerire, e mi sono chiesta se anche tu avessi mai provato qualcosa di simile.»
Bagnai la nuvola di ovatta col disinfettante e mi avvicinai col viso al suo per poter tamponare bene la punta sbucciata del naso. Quando lo feci, lui lo arricciò appena. Mi affrettai a precisare: «Ah, e le scopamicizie non contano.» Schioccai la lingua. «Intendo amore vero, come quello che si vede nei film.»
Non rispose, mi arresi alla consapevolezza che non l'avrebbe mai fatto.
Dopo circa cinque minuti, Ruben schiuse le labbra. «Non l'ho mai visto.»
Ritrassi l'ovatta e lo guardai. «L'amore?»
Di nuovo, silenzio.
«Nemmeno io l'ho mai visto.»
«E la persona che devi proteggere?»
Non mi aspettavo la tirasse in ballo in un discorso del genere, lo guardai stupita.
«Quello che provi e fai per lei non è amore?»
Quello che diceva aveva senso, effettivamente, immaginai che vista dall'esterno potesse apparire così.
Ma io e Jesse?
Io innamorata di Jesse?
Di mio fratello?
Un conato di vomito mi attraversò, ma fortunatamente riuscii a ricacciare indietro la bile. Ruben aggrottò di nuovo la fronte davanti alla mia reazione.
«No» dichiarai con violenza, «assolutamente no, che schifo!» Davanti alla sua evidente confusione, mi affrettai a specificare: «Ovviamente le voglio bene! È tutto per me! Ma non in quel senso, il solo pensarci-oddio, mi vengono i brividi!» Mi strofinai le braccia con le mani, tentando di scacciarli via.
Cercai di sviare il discorso. «Quindi mai stato innamorato, eh? Allora su questo siamo pari.» Strinsi il pugno in trionfo. «Controlla la pomata, pensi si sia asciugata?»
Ruben si tastò il torace e analizzò poi le dita. Senza dire altro, si sollevò dal letto, riprese la maglietta da terra e se la infilò.
«Ti ho preparato un po' di pomata da mettere sulle gambe» gli spiegai, alzandomi a mia volta. «Mi raccomando, aspetta sempre che si sia asciugata del tutto-»
«Tu torna a letto.»
«Come?»
«Hai gli occhi iniettati di sangue e le occhiaie così profonde da arrivarti alla bocca» disse. «Pensa a dormire piuttosto che alla tua dannata pomata.»
Non potevo smentirlo, aveva ragione. Erano giorni che non dormivo come si doveva e di certo gli ultimi incontri con Jesse e i nostri genitori non avevano giovato. Ma se la mattina potevo mascherare quell'orrore col trucco, la notte, dopo essermi lavata, lo mostravo senza più filtri. Gli fui quasi grata di aver aspettato così tanto tempo prima di farmelo presente.
«Non ti preoccupare, me la cavo anche senza dormire. Lo faccio da anni e-»
La voce mi mancò quando le sue mani mi afferrarono per la vita e mi misero di peso sopra la sua spalla. Ero talmente scioccata da quell'evento che non ebbi neanche modo di urlare.
Ruben mi portò a letto come se fossi un sacco di patate e proprio come se fossi un sacco di patate mi ci buttò sopra. Provai a sollevarmi a sedere, ma la sua mano premette sulla mia fronte, impedendomelo.
«Dormi.»
«Non sapevo ci tenessi così tanto alla mia salute.»
«La tua salute non mi riguarda. Il fastidio che mi provochi quando non dormi da giorni sì.»
Gli scostai appena la mano, quel tanto che bastava per incrociare i suoi occhi: il mare e la foresta che si incontravano, proprio lì, davanti a me, in due iridi fredde.
«Callisto.»
Sentii le labbra schiudersi e così le palpebre.
«Dormi.»
Era la prima volta che pronunciava il mio nome.
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