Capitolo 17
Passarono solo pochi giorni prima che potessi tornare a camminare normalmente, per correre invece era tutta un'altra storia.
Di quella notte, di ciò che successe, Dylan e io non ne parlammo.
Il giorno dopo mi ero svegliata da sola nel mio letto con indosso una felpa che non mi apparteneva e con il rimorso per ciò che avevamo fatto.
Ci siamo ignorati fino a quel momento, fino a quella mattina quando venni svegliata da lui e dal Maggiore Taylor, entrambi nella mia tenda.
<secondo il medico ora puoi svolgere qualsiasi lavoro, dobbiamo provvedere a procurartene uno> affermò sicuro il Maggiore.
Lasciai cadere la testa sul cuscino un'altra volta mentre un lamento di disapprovazione uscì dalla mia bocca, ovattato dal morbido sostegno.
<forza alzati> ribadì Dylan togliendomi le coperte di dosso facendo si che una gelida brezza colpisse la pelle calda, facendomi rabbrividire.
<adesso mi alzo!> esclamai rassegnata sfregando i palmi delle mani sulle braccia generando così un temporaneo sollievo.
Il Maggiore si congedò avvisando che mi avrebbe attesa nella mensa per discutere del lavoro che avrei dovuto svolgere.
Mi misi a sedere sul letto di malavoglia cercando coi piedi le scarpe da ginnastica da mettere.
Ci avevano procurato tutto il necessario per ambientarci, meno le armi che ci erano state rigorosamente confiscate al nostro arrivo.
Finalmente mi alzai e camminando con le scarpe slacciate arrivai fino ai piedi del letto, presi una maglia pulita e ben piegata e mi cambiai, dando le spalle a Dylan che per un qualche strano motivo era rimasto ad aspettarmi.
Senza voltarmi mi cambiai i pantaloni mettendone un paio corti, sotto prescrizione del Dottor Reyes secondo il quale, in questo modo, la ferita avrebbe "respirato meglio".
Dylan tossì alle mie spalle, puramente in imbarazzo dalla situazione e dal gesto che stavo compiendo, ovvero saltellare sul posto per infilarmi gli shorts.
Sistemai la maglietta, allacciai le scarpe e prima di uscire presi la mia giacca di pelle, quella con le ali ricamate.
Dylan mi seguì fino ad affiancarmi, camminammo vicini fino alla mensa e feci finta di nulla anche quando mi accorsi delle occhiate che mi lanciava.
All'interno si trovavano poche persone sparse nei vari tavoli che mangiavano con un leggero chiacchiericcio di sottofondo creato da loro stessi e da coloro che gli stavano accanto.
Subito riconobbi il Maggiore, seduto insieme a un ragazzo dai capelli rossi e corti, parlavano in sussurri.
Li raggiunsi e per farmi notare finsi di tossire, entrambi si voltarono smettendo di mangiare.
<Grace, prego, siediti> affermò il Maggiore facendo segno con la mano verso la sedia.
Non me lo feci ripetere e mi sedetti di fronte ai due uomini, Dylan venne di fianco a me.
<bene> esortò il Maggiore sistemandosi sulla sedia e unendo le mani sul tavolo.
<Dylan ci ha detto che hai una mira impeccabile, vorremmo verificare quanto sono veritiere le sue parole e se tutto va bene ti metteremo ai cancelli con, se vorrai, la possibilità di fare qualche ricognizione all'esterno. Sarai sempre accompagnata da uno dei miei soldati finché non sarai in grado di cavartela da sola>
Le sue parole, fredde e meccaniche, fluirono veloci alle mie orecchie e mi ci volle qualche secondo per metabolizzare.
<accetto> risposi d'impulso, sapendo che il mio intuito avesse sempre ragione.
Dylan controbatté cercando di dissuadermi dalla mia scelta ma lo interruppi sul nascere.
<aspetta, forse dovresti...> lo zittii con un veloce gesto della mano che gli sventolai davanti al viso senza nemmeno guardarlo, sostenendo ancora lo sguardo del Maggiore.
<quando inizio?> chiesi, decisa a rendermi utile in qualcosa.
<fate colazione e poi fatti accompagnare in armeria da Dylan, li troverai un mio soldato che ti spiegherà cosa fare>
Il maggiore si alzò e si congedò lasciandomi sola con Dylan.
Non feci neanche in tempo a voltarmi verso di lui che mi aveva già presa per una spalla e fatta girare nella sua direzione.
<tu sei impazzita> affermò, rimproverandomi.
<grazie del complimento, sempre molto gentile> lo schernii alzandomi e dirigendomi verso i banchi della mensa, per servirmi la colazione.
Mi seguì con passo svelto e pesante, decisamente alterato per il mio modo avventato di prendere decisioni.
<fermati> chiamò un paio di volte, non ottenendo alcuna risposta.
Era l'orgoglio che mi impediva di rispondergli, lo giuro.
Sentivo il suo sguardo penetrarmi la schiena come una freccia infuocata, potevo quasi sentire il dolore.
Se c'è una cosa che Dylan non aveva era la pazienza ed io ero in grado di fargliela esaurire con una sola frase; in quel caso, con un solo gesto.
Infischiandosene delle decine di persone all'interno della mensa, mi afferrò il braccio sinistro e mi fece voltare verso di lui con una giravolta su me stessa.
Il suo sguardo mi incenerì all'istante, per un breve momento provai anche timore.
Sembrava diverso, aggressivo come un lupo che protegge il suo branco ma al contempo preoccupato come una madre con il figlio.
Nei suoi occhi c'era un mix di cose ed emozioni, sentimenti e forse anche ricordi che mi scombussolarono all'istante facendomi perdere la concentrazione.
A farmi tornare coi piedi per terra fu il dolore al braccio dovuto alla stretta troppo forte, inutile dire che provai a sottrarmi da essa, senza troppi risultati.
Mi voltai verso di lui, furiosa, sia per il suo gesto sia per il fatto che stessimo dando scena per niente.
<il dottore ha detto che posso lavorare e qui possiamo restare solo se diamo una mano, non ho intenzione di sprecare il mio tempo> sussurrai, strattonandomi dalle sue mani e liberandomi.
Gli lanciai un ultimo sguardo di disapprovazione prima di abbandonare il vassoio, che ancora stringevo nell'altra mano, sul ripiano dove servivano la colazione.
Il mormorio circostante cessò quasi del tutto e io mi diressi verso l'uscita, senza più rivolgermi a Dylan, che rimase fermo a guardarmi andare via.
***
Non avevo ancora mai visitato tutto l'accampamento, quello stadio mi sembrava particolarmente grande e le abitazioni si estendevano fino sugli spalti.
Non trovai subito l'armeria e dovetti chiedere informazioni almeno un paio di volte per capire dove fosse effettivamente; una volta arrivata trovai un uomo sulla trentina ad aspettarmi, vestito con un'uniforme militare e con in spalla un fucile particolarmente attraente.
Appena si accorse di me lasció scorrere lo sguardo su tutta la mia figura, studiandomi nei minimi dettagli.
Quando, finalmente, ebbe finito si presentò mantengo un tono meccanico e formale.
<soldato Steven Ryan, al suo servizio> si portó la mano alla fronte, facendo il saluto militare.
Mi trattenni dal ridere quando una battuta mi venne spontanea ma mi limitai a rivolgere un cenno del capo e a presentarmi a mia volta.
<Grace McCall> replicai, senza gesti o strette di mano.
L'uomo davanti a me non si aspettava altre parole da parte mia, si voltó e mi fece cenno di seguirlo all'interno dell'armeria.
Lo seguivo senza fiatare, mentre parlava indicando varie aree della stanza e facendomi confondere più del necessario.
<l'armeria è riservata agli addetti, e certamente tu non sei tra di loro. Le armi te le daró io e sempre a me dovrai riconsegnarle, se fai danni, ferisci qualcuno o te stessa saró io stesso a sollevarti dall'incarico. Chiaro?> chiese il soldato, non aspettandosi una risposta.
<cristallino> sussurrai, sfacciata.
Lo vidi voltare di poco il capo verso di me ma non aggiunse nulla, ero sicura mi avesse sentita.
<le armi e le munizioni te le daremo noi, una volta che sarai diventata abbastanza brava da utilizzarle, ovviamente. Non prendere mai l'iniziativa, di solito ai cancelli non succede mai nulla di interessante se non uno zombie ogni tanto a cui sparare, ti annoierai a morte>
Concluse indirizzandosi verso una porta infondo al capannone.
Quella struttura, l'armeria, era in realtà un grande capannone in cui avevano poi aggiunto delle semplici stanze per poterlo dividere in settori.
2 guardie erano poste ad ogni ingresso per impedire ai non autorizzati di entrare, ogni settore era contrassegnato da una lettera e da un numero tipo A-1, B-3 e così via.
Noi ci fermammo di fronte al B-1, il soldato estrasse una chiave elettronica che fece passare davanti a un sensore, la spia divenne da rossa a verde e la serratura scattó, aprendo la porta.
Entró prima lui, con familiarità per quel posto a me sconosciuto.
Arrivó al centro della stanza e si voltó verso di me, allargó le braccia con fare teatrale e mi fissò compiaciuto.
<questa è la stanza dove teniamo i fucili di precisione semi-automatici, ne abbiamo parecchi come puoi vedere>
Non c'era voluta di certa la sua insulsa affermazione per farmi osservare sognante le pareti di quella stanza, davanti a me c'erano come minimo una cinquantina di fucili, tra loro ne riconobbi alcuni che avevo usato in precedenza.
<il Maggiore mi ha detto che sei abile, speriamo tu lo sia abbastanza da non farmi perdere tempo> aggiunse, con un beffardo sorriso che gli oscurò lo sguardo.
Non dissi nulla, non volevo problemi.
Aspettai in silenzio che il soldato avesse finito di sentirsi compiaciuto, lo osservai scegliere un fucile che secondo lui era adatto per la prima "lezione".
Quando si voltò di nuovo verso di me, ciò che teneva tra le braccia quasi mi fece venire un mancamento.
Un fucile che conoscevo fin troppo bene, purtroppo.
Un M110, fucile semi-automatico di precisione, color terriccio e con un mirino da togliere il fiato.
Lo stesso fucile usato da lui, il ragazzo i chi occhi sognavo ogni notte, colui che rivedevo in ogni giovane dai capelli corvini e gli occhi chiari come l'acqua, il ragazzo che avevo lasciato nel mio passato ma che ancora tormentava il mio presente, e con ottime probabilità anche il mio futuro.
Esitai a prendere l'armamento, sentii tremare le gambe quando avvolsi le mani sulla canna del fucile e mi sentii avvampare quando mi accorsi che il soldato Ryan mi stava fissando inebetito.
Sembrò quasi intenzionato a riprendersi il fucile, come se avesse pensato che non fossi ancora all'altezza di un arma di un simile calibro ma prima che potesse provarci, presi con fermezza il fucile e lo misi sulla schiena, grazie alla corda che fungeva da tracolla.
Mi consegnò una scatola di proiettili che infilai nella tasca posteriore dei pantaloni per poi seguirlo, fuori dall'armeria.
Nel mentre che camminavamo verso le mura, mi spiegò i vari turni e come funzionava la milizia all'interno della comunità che si era creata e, lo ammetto, rimasi sorpresa.
I turni dei soldati, e dei volontari addestrati, erano scanditi in secondi, un posto di vedetta non veniva mai lasciato vuoto, nemmeno per un attimo.
Il soldato mi spiegò che non era da tanto tempo che stavano adottando quel metodo e che ogni tanto si verificava una falla nel sistema.
Fino a pochi mesi prima quasi se ne sbattevano della sicurezza, data la vastità dello stadio in molti si sentivano al sicuro ma l'arrivo improvviso di un'orda aveva decisamente fatto intendere che si stessero sbagliando.
<quella notte ci furono decine di vittime, persone morse nel sonno che ritornarono come zombie. Fu più il contagio all'interno tra di noi, a causare la strage. Da allora stiamo attenti, soprattutto agli stranieri che entrano> mi lanciò un'occhiata di riguardo, come a ricordarmi della sua fastidiosa e a mio parere inutile presenza.
Lo seguii fino a una torretta dove mi fece salire per prima, arrivati in cima si fece consegnare il fucile, ne controllò il mirino e inserì un caricatore pieno.
Mi fece cenno di posizionarmi di fronte a lui e mi disse di prendere la mira.
<bene, siamo sulla torre Nord, sui cancelli di ingresso principali. Ci troviamo esattamente sulle porte di ingresso allo stadio quindi, al di là di questo muro, ci sono i morti.
Avvistane qualcuno e spara, voglio vedere cosa sai fare> disse compiaciuto, indicando davanti a se con distrazione l'arida strada.
Senza rispondere presi il fucile, intenzionata a non dargli soddisfazione.
Controllai che avesse tolto la sicura e guardai nel mirino.
Una dozzina di non morti si aggiravano intorno ai cancelli, avidi di assaporare le membra del primo sfortunato a loro disposizione, assetati di morte.
Forse sembrai insicura nell'evitare, nel voler ricontrollare nel mirino e riposizionando il fucile fra le mie mani, ma il mio intento era quello di godermi il momento perché era da troppo tempo che non abbattevo uno zeta.
Quando premetti il grilletto sentii una sensazione di sollievo quasi disumana, da tempo non mi sentivo così in pace con me stessa e tutto il dolore, fisico e mentale, svanì con il proiettile dal mio caricatore.
Non ascoltai il soldato quando mi chiese dove avessi imparato, non risposi nemmeno quando mi disse di cessare il fuoco.
Fu costretto ad atterrarmi e a prendermi l'arma con la forza.
<se ti do un ordine, tu lo esegui> sussurrò al mio orecchio mentre le mie mani erano bloccate sulla schiena.
Mi dimenai finché non liberò la presa, mi voltai sulla schiena fissando con furore la mano che mi stava porgendo.
La scansai e mi alzai da sola.
<hai chiesto una dimostrazione ed io te l'ho data, capo> risposi cinica.
Il soldato abbozzò un mezzo sorriso, forse lo divertivo, o magari stava mentalmente imprecando.
<inizi questo pomeriggio> annunciò facendomi cenno di seguirlo.
***
Alla fine di quel lungo pomeriggio tornai alla mia tenda, ritrovandomi Dylan sdraiato sulla sua branda mezzo dormiente, probabilmente stanco.
Io invece mi sentivo rinata, finalmente avevo premuto il grilletto di un fucile dopo giorni di astinenza, sembrerà macabro ma per me era diventato necessario.
Ma Dylan forse non era d'accordo con questa mia abitudine, visto che aveva chiesto di tenermi più tempo possibile in convalescenza.
Mi avvicinai al suo giaciglio, lui era steso con un braccio a coprirgli gli occhi, forse infastidito dalla luce del sole non ancora calato del tutto.
Lo chiamai sperando si svegliasse subito, poi lo scossi per un braccio finché non riprese coscienza e l'uso del corpo.
<Grace!> esclamò alzandosi, stupito di vedermi.
Ed iniziammo a parlare di come fosse andata la mia "riabilitazione" alle armi.
Quella routine si susseguì per una settimana intera, i giorni non sembravano passare, e nonostante il privilegio di poter gironzolare un po' ovunque trovavo sempre estremamente noioso quel posto.
Soprattutto non riuscivo a capire come facessero quelle persone a mantenersi così calme, non comprendevo come avessero potuto abbandonare completamente la paura o l'attenzione nei confronti di chi non si conosce, come se il mondo esterno non fosse popolato da morti viventi.
In effetti non vedevo degli Zeta da molto tempo, non mi sarebbe dispiaciuto addocchiarne qualcuno, anche da lontano, solo per non scordarmi il loro aspetto.
Mi sentivo molto sprecata come vedetta alle mura, non pretendevo nessun tipo di lavoro meritocratico o "politico", ma sul campo avrei potuto dare il meglio di me.
Ero quasi tentata di chiedere al Maggiore di spostarmi di unità, l'unico mio impedimento rimaneva Dylan.
Per questo motivo la stessa sera gli chiesi di tornare prima in tenda, invece che fare la sua solita chiacchierata serale con altri figli di soldati, alcuni suoi amici sin dal pre zeta.
Ero agitata quando o vidi entrare, non mi ero nemmeno preparata qualcosa da dire, avrei improvvisato come sempre.
<di cosa volevi parlare?> domandò sedendosi sul suo letto.
Io feci lo stesso sedendomi di fronte a lui, sul mio.
Intrecciai le dita e iniziai a guardarmi le mani cercando le parole.
<non sarai d'accordo con la mia decisione> lo avvisai, evitando ancora il suo sguardo.
Potevo immaginarmelo, intimorito magari che io volessi andarmene dal campo, sapendo che non ero in grado di rimanere chiusa in un luogo per troppo a lungo.
Però quando lo guardai capì che non si trattava d quello.
<entrerò nella squadra di ricerca, che ti piaccia o meno>
Avevamo gli occhi fissi gli uni negli altri, la sua espressione mutò all'istante e si alzò di scatto.
<assolutamente no> disse con voce secca.
Rimasi un attimo interdetta per la serietà che portava in volto.
<sai che lo farò in ogni caso, vero?> domandai con un lieve sorriso rassegnato.
Annuì ma tornò subito a fissarla.
<è troppo pericoloso anche per te> Cercò di persuadermi, senza successo.
Ma era proprio quello l'aspetto che mi attirava, il sapore del pericolo mi mancava quasi quanto uccidere gli zeta.
Sembrerà macabro ma dopo così tanti anni riabituarsi alla civiltà è davvero complicato, ogni tanto servono delle piccole scappatoie e per me uscire dalle mura era una di quelle.
Mi alzai dal letto e a brevi passi lo raggiunsi, parandomi davanti a lui, guardandolo negli occhi.
<io andrò la fuori, altrimenti prima o poi fuggirò nel cuore della notte sprovvista d'ogni cosa e Dio solo sa cosa ne sarà di me. In più, non voglio lasciarti> sussurrai porgendogli una mano sulla guancia, confortando il suo rifiuto.
Mi avvicinai al suo viso lasciando un lieve bacio sulla guancia opposta, per poi fare un passo indietro e guardarlo, sperando di averlo tranquillizzato.
<vado a parlare con il Maggiore> annunciai, uscendo dalla tenda.
Per un momento sperai che mi fermasse, dicendomi che aveva cambiato idea, che gli andava bene se avessi fatto cioè mi sentivo di fare.
Ma non accadde, e io camminai spedita fino al blocco di tende dei superiori.
***
Non sapevo nemmeno io come, ma ci ero riuscita, ero nella squadra di ricerca.
Mi era stato brevemente spiegato che il nostro compito era quello di perlustrare alcune zone e, se si dimostravano pericolose, avrebbero mandato la cavalleria e fare il lavoro sporco.
In sostanza cercavamo persone, provviste, luoghi sicuri e, possibilmente, armi di qualsiasi tipo.
All'interno del campo erano tutti ben riforniti ma nel proteggere l'avanposto dalle piccole orde, spesso finivano scatole intere di proiettili.
Ero emozionata perché finalmente sarei potuta tornare me stessa, non vedevo l'ora di buttarmi in mezzo alla radura più oscura e isolata che quello scenario apocalittico permetteva.
Ma l'unico problema rimaneva Dylan e la sua diffidenza nei miei confronti.
Quando tornai nella nostra tenda la stessa sera, lui era intento a leggere alcuni documenti seduto a un tavolino vicino al suo letto.
<sei impegnato?> domandai, entrando con passo felpato.
Sussultò un instante prima di voltarsi.
<non ti avevo sentita arrivare, vieni> disse gesticolando, portandosi una mano al petto per lo spavento e poi verso il suo letto a indicare dove potermi sedere.
Pensai che per affrontare quel discorso fosse meglio essere entrambi seduti perché lui non l'avrebbe presa bene, affatto.
<sono stata dal Maggiore> cominciai, bagnandomi le labbra improvvisamente aride.
<ha accettato> dissi in una volta.
Il suo sguardò si arrestò, prima ancora concentrato sul foglio, poi lo indirizzò verso di me e mi squadrò da testa a piedi.
<lui cosa?> chiese, ironico.
<parto domani> aggiunsi prima di perdere tutto il coraggio che provavo.
Ma appena vidi la delusione nel suo sguardo mi sentii come un gattino in confronto a un leone.
<non sei addestrata> asserì deciso.
Negai, perché era vero, non ero addestrata a dovere, però sapevo cavarmela.
<manca personale, a quanto pare si sta diffondendo un virus tipo lo streptococco, per cui molti militari sono in convalescenza>
Il suo sguardo non cambiò di una virgola, ancora fisso su di me.
Poi rilassò il viso e sospirò.
<lo so, mi sono appena arrivati i rapporti> si risistemò sulla sedia, prese i fogli in mano per poi buttarli sulla scrivania con frustrazione.
Si portò una mano fra i capelli e lasciò cadere il peso del proprio corpo sulla sedia, esausto, emettendo un verso di rassegnazione.
<stanno organizzando una serie di squadre di ricerca per trovare medicinali, di qualsiasi tipo. Dicono che dovrete perlustrare per giorni, voi...delle ricerche>
Quando capii che stava parlando anche di me, e che quindi si era rassegnato all'idea che io andassi a fare una mano, dovetti trattenermi dall'esultare di gioia.
Fu in realtà la sua preoccupazione a demoralizzarmi, in quanto probabilmente voleva venire con me, ma lui era molto più utile qui.
Restammo in silenzio, in attesa che l'altro parlasse, o chiedesse qualcosa, o almeno ci provasse.
Fu lui poi a rivolgermi lo sguardo per primo.
<ti darò una radio satellitare, ti chiamerò ogni sera e se non dovessi rispondere manderò qualcuno a cercarvi> disse lui, con un tono piuttosto minaccioso.
<starò bene, lo sai anche tu questo> gli risposi, con voce calma.
Lui annuì per poi alzarsi dalla sedia, spense la lampadina che gli permetteva di lavorare fino a tardi e, quasi nella penombra, andò a chiudere le ante della tenda.
Un suo sbadiglio sommesso mi fece intendere che volesse dormire, così non insistetti e decisi di risposare anch'io, visto l'intensa giornata che mi si prospettava.
Dylan mi lanciò una maglia con cui avrei potuto dormire mentre lui rimase senza, a dorso nudo, a causa del caldo che si stava insinuando insieme alla primavera.
Mi sdraiai nel mio letto, sentendo un peso sul petto, come se ci fossero state delle parole non dette tra di noi, e una lieve percezione di paura non mi fece prendere sonno.
In realtà non era paura, ma più una brutta sensazione. Nemmeno era rivolta a me stessa, bensì a Dylan, come se lasciarlo qui al sicuro da solo non fosse la scelta giusta.
Mi rigirai un'altra volta nel letto, provando a trovare il sonno che sembrava sperduto tanto quanto la mia tranquillità, e alla terza volta in cui mi tolsi la coperta da dosso, mi alzai.
Sembrò strano come la presenza di Dylan mi attirasse a lui, sentivo la necessità di sedermi al suo fianco e attendere finché il giorno non avesse fatto capolino sulla penombra della notte.
E inavvertitamente lo feci davvero, sedendomi sul bordo del suo letto osservandolo dormire tranquillo.
Gli sfiorai il viso con la mano, spostandogli i capelli dalla fronte fino a passare le nocche sulla sua guancia e ripetere lo stesso gesto un'altra volta.
Nel buio della stanza lo vidi schiudere le labbra.
<perché non stai dormendo?> domandò piano, con voce frammentata dal sonno.
<non riesco> sussurrai, togliendo la mano.
Lui aprì gli occhi tentando di mettermi a fuoco, quando vide il mio viso appoggiò una mano sulla mia gamba per poi spostarsi di lato creando spazio nel già piccolo letto.
<dai vieni> disse richiudendo gli occhi e alzando il braccio per farmi sdraiare.
Mi stesi nel letto senza obbiettare, appoggiai il viso sul cuscino e in parte sul suo avambraccio, chiusi gli occhi e la sua presenza mi fece calmare.
<grazie> sussurrai avvicinando il viso al suo petto, appoggiandovi la fronte.
<anche se non me lo chiedi so quando hai bisogno di certezze, io posso essere la tua, Grace> rispose di rimando, facendo gelare il sangue.
Non sapevo cosa rispondere, nessuno mi aveva mai rivolto parole così sincere e profonde prima d'ora.
Forse nemmeno le pensava, era probabilmente stanco e frastornato dal sonno appena interrotto, lui...di sicuro non le pensava.
Chiusi gli occhi passando un braccio sul suo fianco, per non cadere e per sentire il suo calore, poi le sue labbra si appoggiarono sulla mia nuca e sussurrò altre parole silenziose, come se fossero sussurri.
<sii prudente, non posso perdere qualcun altro>
Riuscii quasi a sentire il dolore nel suo tono e mi sembrava quasi impossibile pensare che un ragazzo duro e, a volte, stronzo come Dylan potesse estraniare una parte così fragile e innocente.
Lo strinsi a me prima di replicare.
<lo sarò ma tu non abbassare mai la guardia, non saranno quattro mura a farci sentire al sicuro>
Forse capì che avevo una brutta sensazione ma in quel momento, in quel letto, ignorò lui stesso la sensazione che le mie parole gli portarono e annuì, in risposta.
Dopo quella breve conversazione riuscii ad addormentarmi con il petto un po' più leggero nonostante quei strani pensieri continuassero a tormentarmi.
Fu nel momento in cui chiusi gli occhi e mi comparve in sogno una persona a me cara che capii quanto quel mio presentimento fosse veritiero.
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Si sono viva, sto già scrivendo il prossimo capitolo e giuro che ci sarà più azione.
Love you
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