Capitolo 4

Che cazzo faccio?

Quella domanda mi ronza nella testa da ore, martellando con una tenacia che potrei quasi considerare ammirevole, se non fosse che mi ha impedito di dormire per tutta la notte.

Per la miliardesima volta, mi stringo il capo fra le mani, premendo con i palmi sulle tempie, e pianto i miei occhi vacui nei fogli sulla scrivania.

La scritta in alto, “CONTRATTO”, l'ho fissata talmente tanto, da darmi l'impressione che l’inchiostro nero delle grosse lettere maiuscole sia vivo, e possa in ogni momento uscire dalle pagine e divorarmi. Le due “O”, in particolare, con quella parte vuota in mezzo, mi sembrano un abisso in cui potrei tranquillamente essere risucchiato e affogare.

Passo i palmi dalle tempie agli occhi, stropicciandomeli. Ma tornano a stringere la testa, come fossero un ingranaggio a molla.

E io torno a fissare il foglio.

Di nuovo.

Come faccio da tutta la notte.

Son riuscito a mantenere un minimo di contegno davanti ad Angela e ai cinque tizi, che ora so essere diavoli, o demoni, o comecacchiodevochiamarli. Un contegno molto finto, perché sentivo un sudore freddo scendermi lungo il collo, attraversando tutta la spina dorsale e rendendomi le mani appiccicaticce.

E ogni volta che i miei occhi andavano alla porta dello sgabuzzino, sentivo il cuore battere talmente veloce che temevo sempre di avere un infarto se non guardavo da un'altra parte.

Quando i cinque tizi hanno deciso di andarsene, urlando di mettere tutto sul conto, e Angela li ha seguiti, accettando con una smorfia incerta le mie scuse sul dover mettere in ordine, mi sono rituffato nello scantinato.

Perché la paura di tornare là sotto era tanta, ma la tortura di non leggere quel contratto, di non sapere cosa cavolo avevo firmato, era molto peggiore.
Scendere quei gradini è stato uno dei momenti peggiori della mia vita. Ho esitato a lungo ad accendere la luce, sperando che fosse tutta un'allucinazione, che mi fossi immaginato tutto.

Ma il contratto era lì, come il biglietto e il cellulare.
Mi son seduto alla scrivania, fissando quei fogli pieni di inchiostro nero e corollati dalla mia firma…

…e non sono più riuscito a fare altro.

Non ho letto nemmeno una riga di questo stramaledetto contratto.

Sono bloccato, totalmente bloccato. Vorrei solo piangere, ma le lacrime le ho finite diverse ore fa.

Se magari ti decidi a leggerlo, scopri in cosa ti sei cacciato. Se è davvero così male come stai pensando, magari puoi uscirne in qualche modo.

Non è la prima volta che riesco a strizzare fuori quel pensiero dalle tempie mentre le spappolo coi palmi. Ma la verità è che, finché rimando, posso sperare di non essermi cacciato in un guaio talmente grosso da non poterne più uscire.

Perché io, quel plico di fogli l'ho già firmato.

Un suono improvviso mi fa balzare sulla sedia. Mi guardo attorno, spaesato, prima di accorgermi che proviene dal cellulare che è appoggiato sulla scrivania.

Lo schermo si è illuminato.

In alto, in caratteri enormi, lampeggia l'orario.

Le sette di mattina.

Ho passato tutta la notte in questo scantinato, a piangermi addosso e non concludere niente. Come faccio sempre nella vita, da povero idiota quale sono.

Poco sotto l'orario, una notifica dai caratteri neri, su un sfondo rosso sangue, sta lampeggiando.

Nuovo arrivo.

A sinistra della notifica, la piccola immagine viola di un diavoletto sta danzando, muovendo oscenamente il forcone dorato a ritmo delle natiche nude.

Ma che…

Il cellulare continua a vibrare, iniziando anche a riprodurre un suono disturbante, una specie di campanella il cui riverbero echeggia in modo assordante.

“Come si fa tacere questo coso?!”

Inizio a tentare di sbloccarlo. I tasti a lato non sembrano rispondere, e nemmeno il touch del display.

“Bell'aggeggio che mi hanno rifilato. Possibile che…”

Sfioro la notifica, e improvvisamente il cellulare si mette a tacere. L'immagine del diavoletto viola s’ingrandisce e mi fissa attraverso lo schermo, facendomi l'occhiolino e alzando un pollice all'insù. Una scritta nera si allarga sotto i suoi piccoli piedini palmati.

Arrivo confermato. Buon lavoro.

Non faccio in tempo a pensare a niente, che la parete si illumina di un alone rosso e una figura appare dal nulla.

Una figura di una donna.

Una donna bellissima, alta circa come me, magra, con… beh, con un seno decisamente niente male, la cui forma si indovina bene anche se la maglietta militare che indossa non è attillata.

“Marco, giusto?”

La sua voce, che oscilla soave lungo l’aria prima di raggiungermi, riesce a farmi alzare gli occhi, fin troppo concentrati sul suo petto. Ha un sorriso leggero, con le labbra lievemente tirate che mettono appena in mostra una fila di denti candidi. La pelle è dorata, e delinea perfettamente i tratti delle gote e della mandibola. Ma tutte queste cose vengono messe in secondo piano dai capelli, di un colore rame luccicante che fanno da perfetto contorno a due occhi talmente azzurri, da sembrare un cielo assolato senza nuvole.

Muove due passi verso la scrivania, coi pantaloni neri che strusciano fra loro. Ha un profumo molto forte, ma buono. Sembra quasi una rosa messa a essiccare sotto il sole rovente.

“Sono Lilith, la tua tutor aziendale.”

Nella frazione di secondo che separa il momento in cui decido di alzare la mia mano da quello in cui stringo la sua, penso a mille modi diversi per farlo. Una stretta forte e decisa? O lieve e formale? O meglio sfiorarla appena, così non si accorge che è sudaticcia? O…

Moscia. Ecco come le porgo la mano. Moscia e sudata.

Che imbecille.

Lei la stringe senza battere ciglio, e travolgendomi con un sorriso mozzafiato.

“Bene. Che ne dici, iniziamo?”


Tre mesi dopo


Il rumore delle chiavi che grattano nella toppa è uno dei più bei suoni della giornata.

Sapere che solo il meccanismo della serratura separa il mio corpo stanco dalla quiete della casa, è una sensazione magnifica.

L’ingresso mi dà il benvenuto, e subito getto sull’attaccapanni il giaccone che mi ha protetto dall’acqua, e che ora gocciola a terra.

Che palle. Dovrei metterci sotto uno straccio, ma ora non ne ho proprio voglia.

Mi tolgo gli scarponi, che si liberano dai miei piedi con un risucchio umido, e lascio anche loro a infangarmi l’ingresso.

Domani pulirò tutto, promesso.

Mi trascino fino al salotto, accompagnato dal lieve rumore della pioggia esterna. Sorvolo con uno sguardo veloce la cucina, dove dovrei fermarmi a preparare qualcosa da mangiare, o almeno a lavare qualcosa, e mi lascio cadere sul divano.

Anche oggi, al bar, giornata infernale, in tutti i sensi. Dieci arrivi, sei rientri regolari, due rientri assenti. Ho dovuto sguinzagliare due mercenari, mentre altri due sono già impegnati nei rientri mancati di ieri.

Praticamente, solo Gino non è partito.

E spero di non doverlo inviare.

All’inizio, non gli davo un soldo. Poi, c’è stato un caso difficile, dove nessuno dei mercenari inviati era riuscito a riportare indietro Ianel, un demone prigioniero degli angeli, nemmeno dopo giorni di appostamenti e attacchi.

Ed erano tutti rientrati molto malconci.

Allora, Gino si era alzato e aveva detto che andava lui, per un compenso che, rispetto agli altri quattro, era folle.

Disperato, avevo accettato.

Gino era tornato senza nemmeno un graffio, con gli abiti fumanti, e trascinando per le vesti strappate un demone, talmente malridotto che ero dovuto scappare in bagno a vomitare.

Dove gli altri avevano fallito per giorni, lui era riuscito in quattro ore.

Prendo il cellulare. Quella maledetta notifica, che mi avvisa dell’arrivo dei demoni al portale tramite l’immagine violacea di un diavoletto nudo che balla col forcone, per oggi dovrebbe aver smesso di suonare.

D'improvviso, inizia a vibrare, strappandomi un’imprecazione molto colorita.

Ma non è la notifica.

È un messaggio.

Di Angela.

Com’è andata oggi?

Sono morto.

Ormai, sono mesi che le rispondo “sono morto”. Vorrei spiegarle meglio, dirle tutti i casini che mi succedono quotidianamente con questi demoni, che sono più dei ragazzini in gita (due giorni fa, uno è stato riportato dai mercenari, e diceva di non essersi presentato al ritorno perché si era perso nel cercare dei cioccolatini a forma di pene). Ma il contratto mi vieta di parlare del mio lavoro con chiunque.

Anche con la mia migliore amica.

Sospiro. Potrei scriverne a Lilith… ma non trovo mai il coraggio di scriverle per primo. Qualche volta mi scrive lei… ma per cose di lavoro… e non so se posso anch’io… eppure, quando la vedo mi rivolge un sorriso così bello… e con lei riesco a parlare di tutto…

Il cellulare torna ad attirare il mio occhio con la vibrazione.

Mi dispiace… vuoi parlarne?

Sì!


Leggo quel messaggio un paio di volte. Le dita vanno a sorvolare la tastiera, ma non scrivo niente.

Ha ragione.

Da quando mi sono trasferito lì, nella casa che era di zio Giovanni, non sto più vedendo i miei.
Il lavoro mi occupa una fetta di tempo infinita, e il poco tempo restante mi serve per mettere a posto casa.

Con scarsi risultati…

Come per un riflesso, alzo il mente a guardare i lavelli pieni di roba sporca, la libreria di zio Giovanni piena di polvere, e il pavimento lastricato di roba sporca e oggetti inutili.

Mia madre mi ha aiutato a rimetterla a posto, visto che quando sono arrivato per vedere come era messa, l’ho ritrovata completamente al soqquadro e piena di nastri gialli con la scritta nera “NON OLTREPASSARE”. Ma, una volta risistemata, tra i miei orari di merda e i troppi impegni, non sono praticamente più riuscito a passare a salutarla.

Nel frattempo il cellulare si è bloccato, e dovrei mettere l’impronta per tornare alla chat con Angela e risponderle.

Almeno lei, dovrei cagarla.

Ma sono stanco…

Un piccolo pensiero si fa strada tra i miei pensieri. Un sussurro strisciante, appena udibile. Devo quasi concentrarmi, per capire realmente cosa mi sta suggerendo la mia stessa mente.

Stanco per cosa?

Beh, naturalmente per il lavoro.

Quali fatiche ho fatto oggi? Oltre che annotare meno di una ventina di nomi in un registro?

È un pensiero flebile, un sussurro facilmente ignorabile. Potrei metterlo da parte in un attimo.

Eppure mi dà noia. Come si permette la mia testa di dirmi così?

Come sarebbe a dire che non ho fatto fatica? Ho dovuto gestire gli arrivi e le partenze dei demoni, e poi ci sono al bar tutte le consum…

Ho avuto meno di dieci clienti in tutta la giornata.

Non è vero, in tutta la giornata…

Otto.

Vabbè, che vuol dire? Ho dovuto registrare l’arrivo di dieci demoni!

Tempo di accettarne la notifica e registrarla. Massimo cinque minuti di lavoro per demone, meno di un’ora di lavoro totale.

Ho dovuto registrare anche i demoni venuti per tornare all’inferno!

Forse, contando il tempo usato per loro, sforo di poco l’ora di lavoro.

E poi ci sono stati quelli che non sono rientrati!

Per cui non ho fatto nulla, se non scegliere quali mercenari mandare. Non so neanche cosa fanno, non sono mai andato con loro. Prendo i soldi e basta.

Vorrei replicare, ma non ho altri argomenti.

Davvero sto uscendo sconfitto da una discussione con me stesso?!

Da dove vengono quei pensieri?

Gli ignoro e li butto da parte. Ma cosa sto facendo? Sto ascoltando una voce idiota nella mia testa?

Abbasso gli occhi, fissandomi la pancia.

In tre mesi di lavoro, sono ingrassato un sacco.

E ho smesso di cagare mia madre.

E non riesco più a vedere Angela.

Certo, arrivano tanti soldi, con tutti quei demoni da recuperare. Ma…

…ne vale la pena?

Okay, troppe cavolate nella testa. Adesso devo recuperare sonno.

Domani, quando sarò più riposato, potrò iniziare a mettere a posto la casa e impegnarmi a cagare di più Angela e i miei.

Sì, esatto, farò così. Da domani nuova vita!

Mi alzo, intenzionato a dirigermi verso il letto.

O verso la piccola stanza in cui ho messo il PC e creato la postazione gaming.

Sì. Un paio di partite veloci, poi potrò…

Mi blocco. Cos’è stato quel cigolio? Sembra quasi il sinistro gracchiare del cancello all’inizio del vialetto. Sarà il vento? O mi sono ingannato? D’altronde, in mezzo al continuo gocciolare della pioggia che si sente fuori, un cigolio posso essermelo tranquillamente inventato.

Un colpo sordo, che taglia il suono regolare della pioggia.

Non mi posso essere ingannato, quello è il suono che fa il cancello del vialetto quando viene chiuso.

Il faretto a movimento si accende, proiettando la sua luce attraverso la finestra. Un’ombra si mette fra la luce e la finestra, un’ombra dalla gobba enorme e con i contorni strani.

Chi cavolo può essere a quell’ora?

Faccio un salto, il cuore che batte impazzito, quando il suono del campanello lacera il salone.

Ma cosa mi prende? Prima mi metto a discute con me stesso, come un pazzo maniaco, e ora mi spavento per il suono del campanello? Se fosse un malintenzionato, non si prenderebbe certo il disturbo di suonare.

Scocciato per quell’improvvisa rottura di palle, mi avvio verso la porta strisciando i piedi.

Il suono del campanello riprende, con trilli continui e ravvicinati.

“Arrivo! Arrivo!”

Ma che fretta ha? Mi brucia il campanello continuando così!

Apro di scatto la porta, urlando.

“E basta suonare, ho…!”

Le parole mi muoiono in gola.

Davanti a me, con la mano sinistra piantata a pugno sul campanello, e la parte destra del corpo accasciata contro la parete della porta, c’è una ragazza, dai capelli neri scompigliati e sporchi. Indossa dei pantaloni strappati, da cui penzolano alcuni brandelli di tessuto, e la maglietta beige è strappata in più parti.

Sulla schiena, tramite due lunghi tagli, spuntano due cose strane. Sembrano due piccole ali, raggomitolate sulla schiena, e sono formate da quelle che dovrebbero essere piume bianche, ma che in più punti sono sporche di una sostanza grumosa, a tratti rossa, a tratti nera.

Ai suoi piedi, gocciola ritmicamente un liquido, di un colore scuro che, stranamente, brilla nella notte, e che proviene da un’ampia ferita nel fianco, e da due lunghi irregolari all’altezza delle cosce, totalmente slabbrati e orribili a vedersi.

“Ma… ma c…”

La ragazza alza di scatto gli occhi, due palle nere in cui brilla una luce affascinante, un miscuglio tra determinazione e paura.

Come incrociano il mio volto, li sbatte un paio di volte, poi le sue labbra sottili si distorgono in un ghigno selvaggio.

Sto ancora tentando di balbettare qualcosa, ma lei emette un ringhio sommesso, zittendomi.

Le sue labbra sottili si muovono, sovrastando il rumore della pioggia sui sassi del vialetto, pronunciando l’ultima frase che mi sarei aspettato da quella strana figura mezza accasciata sulla mia porta di casa.

“E tu chi cazzo saresti?!”

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