Capitolo 1
“Marco, Zio Giovanni si è suicidato.”
Non appena mia madre aveva bussato alla mia camera, avevo sentito nascere quella rabbia che provavo ogni volta che lei o papà venivano a disturbarmi nel mio regno. Un sassolino colmo di ira che raschia sulla gola e si deposita negli occhi, facendo sì che ogni parola che mi rivolgono sembrino una violenza. Fatico persino a guardarli in quei momenti, come se il fuoco furioso depositato nei miei occhi potrebbe realmente provocare delle escoriazioni sulla loro pelle.
Quella frase, però, e gli occhi azzurri di mia madre, liquidi e tremanti, fanno scemare tutta la rabbia.
Non sapendo cosa dirle, fisso lo schermo del PC. Il gioco in pausa lancia flash a cadenza regolare, come invitandomi a riprendere la partita lasciata in sospeso.
“Mi dispiace…”
Non è vero. Non vedo zio Giovanni da almeno… da quanto? Anni, di sicuro. Forse dieci?
Lo dico più per fare un patetico tentativo di consolare mia madre. Lei ogni tanto andava a trovarlo al bar. Anche se non si faceva vivo da anni, era pur sempre suo fratello.
Fa un mezzo passo dentro la camera. È la prima volta che varca la porta senza sgridarmi per il disordine o per i vestiti sparsi dappertutto. Il suo profumo, di sicuro dal nome francese, si diffonde dappertutto, tentando di avvolgere quell'odore di stantio che sempre riempie la mia stanza.
“Io… Era… Non…”
Non l'ho mai vista in difficoltà a parlare. Di solito ti fa venire la voglia di cercare un pulsante per spegnerla, con quella parlantina che ti travolge e ti fa annegare sotto il peso di mille parole sparate nello spazio di un secondo. Questa volta, invece, a parlare sono i suoi occhi azzurri, circondati dal solito chilo di prodotti dai mille nomi che non ricordo. Tremano, e sembrano annegare in una pozza d'acqua colma di dolore.
Finora ho rivolto solo il collo verso di lei. Faccio pressione sul pavimento e giro interamente la sedia da gaming, restando in silenzio.
Fa un altro passo verso di me, arrivandomi vicina come non lo siamo da diverso tempo. Forse vorrebbe sedersi sul bordo del letto, la vedo fare un accenno in quella direzione col suo corpo sottile, ma la vista di due paia di mutande sporche, che han trovato casa sui bordi del copriletto, la fanno desistere.
“Non andavo a trovarlo da più di un mese… mi aveva chiamato qualche giorno fa, per sapere come stavo, ma ho interrotto la chiamata in fretta perché ero a far compere. Le ultime parole che gli ho rivolto sono state: – Ti richiamo. – E invece non l'ho mai fatto…”
Le sue parole sono un flusso singhiozzante. Le labbra sottili, di un rosso smagliante donato dal rossetto, si aprono continuamente, come a cercare aria. Il corpo, ultracinquantenne ma tenuto in perfetta forma grazie ai corsi giornalieri dal nome esotico, ora sembra un papiro fragile pronto ad accartocciarsi su sé stesso.
“Mamma, mi dispiace. Vedrai che lui lo sapeva, sapeva che gli volevi bene.”
“Allora perché, perché si è suicidato, se lo sapeva?!”
È un mezzo urlo quello che le scappa dalle labbra. Immediatamente, il volto si stringe in alcune piccole rughe spaventate. Sembra quasi impallidire, anche se i molti strati di vari cosi per la pelle rendono difficile capire le variazioni di colore della carnagione.
“Scusami, non volevo urlarti contro…”
Forse dovrei dirle di non preoccuparsi, che non deve scusarsi. Ma non so bene se devo parlare o se sia meglio attendere in silenzio. Risolve lei la questione, girandosi sui suoi immancabili tacchi. È una vera artista di quella sottospecie di trampoli, saprebbe danzarci. Ma oggi è diverso, pare quasi perdere l'equilibrio, e mi chiedo come fa a non spezzarsi in due la caviglia visto quanto si flette.
“Ci sarà una veglia alle 21. Il funerale sarà domani, dobbiamo essere alle 9 all'ospedale per seguire la salma.”
Se ne va, lenta e col passo incerto, il profumo che la segue come un fedele cagnolino.
Una parte del mio cervello mi dice che dovrei seguirla, che dovrei farle compagnia in questo momento, visto che papà e mio fratello sono a lavoro.
Giro la sedia verso il PC. Finisco la partita e poi vado, lo prometto.
“Perché?”
Angela scuote la testa, ma non so se ho bisbigliato quella frase a lei o se era per tentare di dare un ordine al casino che ho nella testa.
“Non lo so, Marco. Proprio non lo so.”
Sono ormai diversi minuti che siamo bloccati vicini a quell’edicola, con l’odore delicato dei giornali che si mischia a quello forte di alcune rose di un'aiuola. Angela, la mia migliore amica, mi sta dando tutto il tempo che mi occorre. Io sto fissando la porta vetrata del bar, dall’altra parte della strada, sicuramente con una faccia da scemo.
“Forse tuo zio ti voleva bene, anche se a te non è mai sembrato.”
Prendo l’ennesimo, grosso respiro.
Mio zio aveva una cosa, una sola.
Il suo bar.
Non aveva mai amato altro, non aveva mai pensato ad altro. Io e la mia famiglia eravamo solo degli elementi di contorno, soggetti qualunque che gravitavano attorno al bar, unico centro di tutta la sua vita.
Ne avevo avuta la prova quella mattina, al funerale. Una funzione in cui, oltre a me, mio fratello, mia madre e mio padre, avevano partecipato solo una manciata di fedeli di quella piccola parrocchia.
Nessun altro.
Anche nella morte, Giovanni era stato un uomo solo.
“No, Angela. Era anni che nemmeno ci sentivamo al telefono. Solo quando ero piccolo abbiamo condiviso qualcosa, uno stupido gioco.”
“Quale gioco?”
Mi mordo il labbro inferiore, sentendolo secco e ruvido.
“Ricordo di aver passato con lui qualche pomeriggio, quando ero molto piccolo. Il suo lavoro, uno stupido lavoro da barista, mi intrigava. Gli chiedevo di servirmi bevande da adulto, e lui fingeva di avere un enorme assortimento di bottiglie alle spalle. Si grattava la testa e indicava bottiglie invisibili, snocciolandomi nomi esotici e scartandoli pensieroso uno alla volta. Poi batteva le mani urlando: - Ma certo, ci vuole un bel whisky con ghiaccio! - E me ne versava un bicchiere, parlandomi e intrigandomi con avventure fantastiche in luoghi meravigliosi.”
“Ti dava del whisky da bambino?!”
Angela ha sgranato gli occhi, scandalizzata, e le labbra arricciate mi fissano con una tale rabbia che mi strappano un sorriso divertito. Per fortuna, perché io non provo niente per mio zio Giovanni, eppure quel ricordo mi ha creato uno strano nodo ingarbugliato nella parte bassa della pancia.
“No, tranquilla. Giocavamo, era semplicemente teh alla pesca con due cubetti di ghiaccio.”
Annuisce, le narici del naso a punta ancora dilatate. I suoi occhi verdi, dal taglio allungato, tornano a fissare l’altro lato della strada. Il vento si alza leggermente, facendole agitare le punte dei lunghi capelli castani. Il viso, arrossato dalla rabbia di poco prima, sta tornando al suo abituale colore candido.
“Forse, per lui quei pomeriggi erano un ricordo importante.”
Già, quella è l’unica spiegazione plausibile per quanto accaduto in quell’assurda mattinata.
Finita la messa, ero andato con la mia famiglia da un notaio, in centro. Un uomo, dai capelli brizzolati e il viso perfettamente abbronzato, ci aveva accolti nel suo ufficio, una stanza piena di oggetti in legno, faldoni legati stretti e uno strano odore, che non avevo ben identificato. Come di carta vecchia e di plastica bruciata.
Il notaio aveva stretto le mani a tutti e bisbigliato alcune parole di condoglianze. Io avevo risposto distrattamente e lo avevo guardato sedersi dietro la sua scrivania, di un legno talmente lustro da luccicare sotto la luce della grande finestra alle spalle. A quel punto aveva iniziato a snocciolare una lunga spiegazione sulle leggi ereditarie in caso di morte senza figli, cosa di cui ero molto felice perché così potevo mettermi serenamente a pensare al gioco di ruolo che avevo iniziato da poco, lasciando la sua voce meccanica di sottofondo.
Tanto, niente di quel che avrebbe detto mi sarebbe mai interessato, no?
Quanto mi sbagliavo.
“Angela, quando il notaio ha detto il mio nome, e ha letto che mio zio aveva lasciato a me la casa e il bar, ero convinto avesse sbagliato a leggere. Pensavo lo avesse lasciato a mio fratello. Lui è stato quello sempre bravo negli affari, nel lavoro. Io gli sono sempre stato secondo, nella vita, a scuola, nel lavoro.”
E invece, zio Giovanni aveva lasciato a me la casa, e, soprattutto, il suo bar.
“Marco, tu non sei il secondo di tuo fratello. Lui sembra tutto bello realizzato, ma alla fine lavora semplicemente con tuo padre. Ha scelto la via facile, tu invece stai cercando qualcosa di tuo.”
Vorrei davvero credere ad Angela, ma sono capace solo di perdere tempo davanti ai videogame. Anche quell’eredità, l’ho accettata solo perché ero talmente spiazzato da non essere capace di aprire bocca. Solo le facce incredule di mio padre e mio fratello mi avevano fatto capire che non si trattava di uno scherzo.
Erano buffe le loro facce, illuminate dalla luce della grande finestra e rese quasi lucide dal riflesso della scrivania in legno del notaio. Facevano venire la voglia di passarci sopra uno di quei panni usati per lucidare le palle da bowling.
A rompere quello strano gelo era stato il notaio, armeggiando con i fogli ed estraendo una busta da lettere, di un colore bianco immacolato.
“Tuo zio ti ha lasciato anche questa.”
Mezzo stordito, l'avevo aperta, con gli occhi di tutti i parenti puntati addosso. Ma non c'era molto da leggere, solo nove parole scritte in grossi caratteri neri.
Per permetterti di farti un buon whisky con ghiaccio.
“E infine, ha lasciato scritto che lascia a te anche tutti i files.”
Avevo alzato la testa dalla lettera e fissato stranito il notaio.
“Quali files?”
La mia voce sorpresa sembrò coglierlo impreparato. Iniziò a torcersi le mani e gettare occhiate ai fogli che aveva innanzi.
“Beh… non ne ho idea. Credevo fosse una cosa vostra, che sapevate voi. Non so cosa intendesse.”
Torno al presente, richiamato da una gomitata di Angela, anche abbastanza violenta.
“Beh? Restiamo qua tutto il giorno?”
“Magari, non sarebbe una brutta idea.”
Sorrido, ma la battutaccia produce solo un'occhiata storta da parte di Angela. Pur di non sostenere il suo sguardo, mi decido e attraverso la strada, diretto alla stupida porta in vetro del bar. Mentre cammino armeggio nervosamente con le chiavi, nella tasca dei jeans, e fisso quella vetrata lucida. Una targhetta, di un bianco opaco, si trova all'altezza degli occhi, con la scritta “CHIUSO” che troneggia a grandi lettere rosse. Più in basso, all'altezza della maniglia, c'è un disegno di un cagnolino triste, con sotto scritto “IO NON POSSO ENTRARE”.
“Sei pronto?”
Annuisco e infilo le chiavi nella toppa. Girano rapide, come se non vedessero l'ora di aprire quella serratura, e producono un piccolo scatto sonoro. La tiro, trovandola inaspettatamente pesante.
“Dopo di lei.”
Angela entra, con gli occhi che già stanno navigando lungo tutto il bar per registrare quel che vede. Io la seguo, accompagnando la porta perché si chiuda dietro le mie spalle.
Ma sbatte contro qualcosa, fermando il suo percorso. Mi giro, e mi trovo davanti un uomo alto, dalle spalle larghe quanto un armadio, con due tronchi nodosi al posto delle braccia, tanto sono grosse e guizzanti di nervi. Tiene in mano tre guinzagli, con altrettanti grossi pitbull, tutti e tre che ringhiano sommessamente. Alle sue spalle ci sono altri cinque uomini, tutti dall'aria poco raccomandabile e con ghigni pericolosi dipinti sul volto.
Lo fisso, incapace persino di capire se devo essere spaventato o sorpreso, mentre il suo odore, una puzza ruvida di catrame bruciato, mi circonda e mi manda in tilt le narici.
Ci pensa l'uomo che ha fermato la porta a togliermi dallo stallo, rivolgendomi un sorriso inquietante e uno sguardo dei suoi occhi neri in cui brilla una luce pazza.
“Finalmente hai riaperto. Muoviti a farci entrare, moriamo di sete.”
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