Il Leone

«La battaglia procede [...], simile a polvere umida che bruci.»

Carl Von Klausewitz, Della guerra, Volume IV, 1832

«...Primum nervos belli, pecuniam infinitam...»

Marco Tullio Cicerone, Filippica V, 43 a.C.

Ah, Polifilandro, mai vedemmo ragazzetto più bello! Fu colpa sua, penso - no, fu un segno del Fato -, se come si unì alla Sacra Banda molti di noi persero la testa.
Lo trovammo che era la prima notte d'agosto, mentre scendeva dalle pendici del monte Parnaso, tremante e ferito e con in mano solo una lancia spezzata che Niso, di vedetta con me, gli strappò con perizia prima di metterlo al suolo.
«Chi sei? Perché ti aggiri di notte?» gli chiese più volte, e lo scuoteva per calmargli il respiro.
«Fermati, non vedi che è impaurito?» m'intromisi io.
«Potrebbe essere una spia di Filippo, per quel che ne sappiamo.» E tirò fuori il coltello per puntarglielo al volto. «Certo, sarebbe davvero un peccato.»
A salvarlo fu la lingua: parlava con l'accento dell'Attica - anche se poi scoprimmo che era un capraio del nord, che mai era entrato ad Atene - e gli bastò una sola parola.
«Sconfitta? Sulla strada di Anfissa?» chiedevano i nostri al successivo turno di veglia, tutti intenti a ingrassare le cinghie di cuoio e affilare le armi.
«Esatto» riferì Niso, «Filippo è penetrato nella Focide, ha aggirato le Termopili e si è portato sul borgo di Anfissa.»
«I mercenari ateniesi?»
«Annientati.» E indicava il ragazzo.
E tutti lo ammiravano.
«Dobbiamo considerare Delfi caduta, ma è improbabile che Filippo porti l'armata alle nostre spalle o si spinga tra i monti. Il terreno è troppo impervio per un esercito.»
«Ma non per un solo uomo» intervenne Auristene, torcendosi il pelo sul mento, e osservava Polifilandro. «Vero, ragazzo?»
E Niso, che gli era giurato, mal lo guardava.
Conoscevo Niso da prima che entrasse nella Banda, sapevo che era un compagno geloso, lo aveva dimostrato tutte le volte che ci eravamo amati. Quando aveva giurato al fianco di Auristene, su nel tempio di Eros, per essere ammesso alla Sacra Banda, ero stato contento per loro, e avevo festeggiato insieme a quei due dopo ogni mischia, affrontata sempre spalla contro spalla, con lo scudo rotondo alto a proteggere l'altro, a intercettare il colpo mirato al compagno.
Ora, mentre dividevano qualche legume bollito sotto il telo che noi quattro chiamavamo riparo, le mascelle ingoiavano parole oltre al cibo.
«Dovresti dormire, domani spira un vento di sfida» fu il primo borbottio che lasciò Niso.
«Anche tu» gli rispose il compagno.
E intanto ruminavano il cibo e i loro pensieri.
«Bel viso, l'ateniese» provò ancora Niso.
«Sì» Auristene disse.
Io non osavo intromettermi, ma cercavo nel campo dell'armata il mio, di compagno.
«Di', ti piace» insistette il mio amico.
Auristene si accigliò. «E con ciò? È un ragazzo come tanti altri. Da come ne parli sembri cercare la sua compagnia.» E con questo lo zittì.
«Di', Niso: cosa pensi che farà domani?»
«Vorrà ancora scappare. Basta guardarlo in faccia. Non ha gli occhi di un lupo. Ho ancora fame.»
«Vieni qui, pensa a riscaldarti. Tiflone» mi chiamò, «Va' a cercare del vino.»
«No, niente vino» ci fermò Niso, «Cosa sei, un imberbe alle prime armi? Domani voglio la tua mente lucida quanto la mia, che sappia mirare con la lancia.»
Auristene ridacchiò. «Una mente lucida. Ah! Come può essere lucida una mente, quando ha costante terrore per la sua metà, mi chiedo.»
Niso gli baciò la guancia. «Zitto.»
«Dico solo che sarebbe tutto più facile, se la persona che ami non fosse al tuo fianco ma un servo qualunque, che tiene il cavallo per la cavezza e ti aspetta nelle retrovie, pronto ad accoglierti se le cose dovessero mettersi male.»
«Lui proverebbe le stesse cose che provi tu adesso. Sei ipocrita.»
«Giusto.»
«Anzi, soffrirebbe di più, sapendosi impotente di fronte al Fato.»
«Giusto anche questo.» Auristene ricambiò il bacio leggero di prima. «Ma in fondo siamo tutti impotenti, di fronte al Fato.»
«Fato o meno, siete qui ora» mi intromisi io. «Avete scelto insieme di giurare davanti a Eros.»
«No» mi corresse Auristene, «Siamo stati scelti.»
«Perché eravamo i migliori sul campo» lo corresse l'amante.
«È stata tua la scelta di fare il soldato» insistetti.
Niso si scostò, rimase accovacciato a un palmo dal compagno, con ancora la mantella che pendeva dalle spalle di entrambi. Le braccia possenti e tornite incrociate davanti al naso, portava gli occhi ora alla terra nera ora su di me.
«Dimmi, Tiflone, chi combatte sulle ali?»
La domanda di Auristene mi lasciò da pensare.
«Pescatori, vasai, contadini...»
«E tu, Tiflone, cosa fai quando non combatti?»
«Il contadino.»
«Che tipo di contadino?»
Capii dove mirava. «Con schiavi. E ho un cugino che frequenta l'assemblea, quando può. A me non interessa.»
«Vedi, Tiflone, valorosi e idioti fanno egualmente i soldati. Ma i vigliacchi non siedono in consiglio e non scelgono di portare le armi. E non possono pagarsi la panoplia.»
Niso alzò gli occhi, Auristene si zittì e seguì il suo sguardo. Un rumore di passi ci interruppe, e io mi voltai.
«Polifilandro.»
Il ragazzetto ci fissava, nudo fino alla cintola, leggero sui calcagni e cullato dal soffio del vento.
«Volevo ringraziarvi» biascicò. Era ebbro di vino. «Mi avete salvato da me stesso.»
«Va' a dormire, marmocchio, hai bevuto troppo.» Auristene si alzò, gli aggraffò le guance tra le dita e gli diede un bacio. «Ti puzza il fiato di vino.»
Niso si scosse, come folgore divina, scattò verso il polso del compagno.
«Vieni, Polifilandro» intervenni di corsa, «Andiamo a cercare un posto dove farti dormire.»
«Voglio restare con voi.»
Lo presi e lo sospinsi verso il buio della notte, verso altri fuochi dove bivaccavano i soldati, tra le montagne di lance infisse nella terra morbida e con le bronzee punte incrociate e rivolte alle stelle, tra i rumori e i gemiti di chi non riusciva a dormire e cercava conforto in una chiavata o nel vino, tra le bestemmie e gli odori e l'irrequietudine dell'incertezza sul giorno a venire.
«Ma io voglio restare con voi» ripeté il ragazzo, come se non avesse capito il nido di vipere in cui si era infilato. «E non intendo solo stanotte.»
Lo fermai per il gomito, accanto a un pugno di scudi addossati a un masso. Le gorgoni e le bestie smaltate sopra di essi ci fissavano coi loro occhi sbarrati, baluginanti di fuochi, e le linguacce pendenti. Gli scostai i riccioli dal collo, dalla clavicola tanto sottile, dove un taglio gli era stato coperto di balsami, pomate e foglie. Tutt'intorno, come l'aureola di un Dio, la pelle si rivelava tumefatta, colpita a più riprese da bastoni.
«Tu non sai stare in linea, ragazzo. Non ci hai detto tutto quanto è accaduto alla tua banda ad Anfissa.»
«Io... non lo so.»
«Sei fuggito al primo pericolo.»
«Non sono un vigliacco.»
«Il tuo corpo dice altro.»
«Voglio dimostrare che valgo qualcosa in campo.»
«Vali quanto un bambino, adesso. Non hai armi, non hai corazza, non hai scudo. Un bambino indifeso, un imbelle che non regge la paura e il vino.»
«Voglio dimostrare il contrario.» Fu scosso da un conato. «Vi prego.»
Piangeva, e io sospirai.
«Va bene. Ti troveremo una pelta e qualche giavellotto. Ma sappi: nessuno baderà a te, che tu scappi o muoia. La tua sorte dipenderà solo da te.»
«Grazie.» E vomitò.
Lo riportai indietro, verso il nostro rifugio, e lo adagiai sul mio mantello, accanto al mio compagno che intanto era tornato e già dormiva. Lui si addormentò subito, proprio come un poppante.
Mentre mi coricavo sull'erba schiacciata dal continuo via vai di suole e aspettavo che il sonno mi cogliesse, guardai un'ultima volta Auristene e Niso, adagiati sul loro mantello, stretti l'uno all'altro in un abbraccio.
«Vorresti fuggire con lui?» udii sussurrare Niso, sicuro che il russare intorno fosse anche il mio.
«No» gli rispose Auristene, accoccolandosi ancor di più, «vorrei fuggire con te.»
Forse mi tradì il sonno; ma, che io ricordi, non si dissero altro.

Al primo albeggiare, intorno ai bivacchi coperti di cenere e sparsi come stelle nel cielo notturno, l'esercito si levò: ognuno aiutando un compagno indossava gli schinieri di bronzo e la corazza di lino sul corto chitone, imbracciava lo scudo o vi appendeva il drappo a pararsi le gambe. Eravamo una massa cangiante e in fermento, fatta di elmi crestati, piume e pennacchi, di baluginii arrossati e aste di corniolo. Gli strateghi, accompagnati dal nitrire dei loro cavalli, urlavano già i loro primi comandi mentre le bande e i loro reparti si radunavano tra la strada che saliva alla rocca di Cheronea e il fiume che fiancheggiava la valle, venti stadi più in là; e mentre l'armata prendeva forma e vigore, i ragazzetti nostri parenti, addetti a tenere muli e bagagli, smantellavano il campo e liberavano la piana. In alto sul fianco sinistro, verso il villaggio, si radunavano scalpitanti e irrequieti gli Ateniesi, e noi di Tebe sul fianco destro, coi piedi fin dentro la riva paludosa. Al centro, stretti tra le nostre ali, gli alleati: pochi, esitanti. Penso proprio per questo, dopo alcuni indugi e bestemmie, noi trecento della Banda Sacra, la gloria della rocca Cadmea, fummo messi al centro, tra il resto dei nostri concittadini e gli altri compagni.
La piana era dura, di un verde smorto, inframezzata solo da qualche ciuffo d'erba essiccato dal solleone. Nemmeno si vedeva il nemico all'ingresso della valle, da nord, che già in molti si asciugavano la fronte e sollevavano i paraguance. L'afa opprimeva, appesantiva gli arti, rendeva la truppa irrequieta. Come a ogni prova, ci si teneva pronti come si poteva: chi trovava la forza riscaldava i muscoli, chi non riusciva sputava per terra e si sedeva per strappare la poca erba presente. Le ultime aggiunte con spighe selvatiche masticavano paura. Niso, davanti a me, uscì dai ranghi e tirò fuori l'uccello, ma dopo poco lo sentii grugnire e bestemmiare: non riusciva a pisciare.
Nella schiera dei peltasti, davanti ai nostri piedi, chi non s'acquattava per terra si metteva a raccogliere sassi da infilare nella bisaccia. In fondo ai loro Polifilandro, con solo una mezzaluna di vimini e un mantello di lana, si piegò in due e iniziò a vomitare.
Lontano sulla strada, il brusio del nemico si iniziò ad avvertire. Infine, eccoli: gremire l'orizzonte come formiche, nascosti dal tremito dell'aria calda, coi vessilli del sole raggiante alti sopra la selva di lance e di elmi e di scudi rotondi. La cacofonia di urla, comandi, flauti e tamburi, di trombe di osso e di bronzo ululanti ritmi di marcia.
«Dannata canicola» bofonchiò qualcuno alle mie spalle, «mi ammazzerà prima di quelli.»
L'armata macedone arrestò il passo che ancora un uomo era meno dell'unghia di un pollice. Le lance si abbassarono al suolo, sparirono tra i ranghi.
Auristene poggiò l'arma alla spalla e mi strinse il braccio. «Eccole.»
La sua paura mi lasciò graffi sul braccio, la prima ferita della giornata.
In poco tempo le aste nemiche tornarono alte nel cielo, alte il doppio di prima.
Deglutii, strinsi la lancia in mano. Fiutai il puzzo di merda.
«Tebani! Coraggio!»
La prima lancia batté lo scudo.
«Uah! Uah!» Come un coro si alzò il battere delle lance, il tintinnare delle spade, i colpi secchi del nostro canto di guerra suonato sugli scudi al nostro fianco.
«Tebani! Serrate i ranghi!»
L'armata macedone ora avanzava, una linea obliqua e nera che piegava sui colli davanti al villaggio.
Il nostro beotarca, sulla destra, passò a cavallo e lanciò il comando: «Opliti! Andiamo a dargliele!»
Mettemmo il primo passo avanti.
«Uah!»
Ora erano a mezzo stadio - tesa più, tesa meno -, grandi un'unghia ai nostri occhi. I frombolieri rotearono le fionde, sulle teste iniziarono a fischiare i sassi. Un lamento annunciò il primo caduto.
Alzammo gli scudi a coprire il volto e piantammo la linea dove iniziava il declivio.
«Uah!»
Tra gli spiragli degli scudi, tra i panni appesi ad essi a proteggere le gambe dalle frecce infami, tra le corazze scolpite del primo rango, si sollevarono insulti e provocazioni. Come un canto le armi battevano e continuavano a chiamare il nemico, lo stesso grido che fu dei nostri nemici spartani: «Venite a prenderle.»
Ormai vedevamo i loro volti, nascosti sotto gli elmi crestati di ferro e i piccoli scudi rotondi appesi alla spalla. Fino a quel momento non come Auristene, che vi era avvezzo - non avevo mai visto una sarissa, e mai vidi altra lancia più lunga. La falange si contrasse, strinse il passo tra i ranghi, calò le sarisse in una massa nera di aculei, lenta, impenetrabile come il manto di un istrice.
Tra gli addetti alla schermaglia avanzarono i peltasti, presero la rincorsa, scagliarono i giavellotti. Il nemico rispose coi suoi. Altre urla, altre gragnuole di colpi, altre frecce. Urla, schiamazzi, comandi. Un passo avanti, un altro ancora, altri dardi. Vidi Polifilandro fare tre salti, il braccio teso nello splendore della gioventù, il petto scoperto e il mantello caduto. Lo vidi spostare il peso sulla gamba sinistra, muovere il braccio in un arco, lanciare il suo dardo.
Cadde prima di poter tornare indietro, senza nemmeno fiatare, il bel viso, sfondato da un sasso, ora ridotto a una maschera rossa, informe: la nuca vomitava cervella. Un altro passo, e la fanteria leggera si mise in fuga tra le nostre fila.
Un passo ancora. Il mio piede schiacciò un cadavere, una mano mi si aggrappò alla caviglia. Lo scudo del compagno alle mie spalle mi rimise in riga. Un lamento si perse tra i nostri polpacci immersi negli umori della battaglia, in sangue, escrementi. Un altro passo, ed ero là dove Polifilandro era caduto. Giaceva immobile: trascinarlo indietro, tra i ranghi in riserva, risultava superfluo.
Un altro passo, nel terreno sempre più morbido, nell'aria sempre più pregna dell'acre sudore di 60.000 soldati. Auristene, davanti a me, parò un giavellotto: la punta penetrò il sottile strato di bronzo e il legno dello scudo, mancò l'avambraccio invischiato nel cordame di un soffio. Niso si sporse in avanti e spezzò il manico infisso per lui. Le due schiere, frollate a dovere dai fanti leggeri, erano pronte al contatto: le punte affilate delle sarisse erano a un palmo da noi, i loro portatori ancora una tesa più in là, e noi eravamo - seppur di poco - più in alto di loro.
Un urlo, e tutto fu coperto dal cozzare di scudi.
«Spingete!»
Quelli dietro di me si portarono ancora avanti, né noi potevamo avanzare. Le file anteriori, solide e ferme nella panoplia completa, cercavano un varco, snudavano le spade ricurve per provare a spezzare i bastoni avversari, mentre intorno si scatenavano i duelli, i lamenti, i grumi di fango e di sangue e di spade perdute e di lance incrinate.
«Avanti!»
Ora il mio corpo non era più il mio, era parte della falange, era parte del muscolo che compiva la spinta, era tutt'uno coi trecento compagni. Era un corpo ferito alla testa, nuda dell'elmo battuto e rubato, era una mano che lascia cadere la lancia, era un orecchio strappato dalla punta dell'arma nemica. Vidi Niso affogare sotto il mare di lance, rialzarsi in ginocchio, correre alla daga diritta appesa sul fianco e aggredire le giunture avversarie. Vidi Auristene urlare, poi il sangue mi offuscò la vista.
Il nemico incalzò, noi ondeggiamo quel poco prima di tornare allo stallo e recuperare i compagni striscianti. Carponi, mi allontanai un poco e cercai le ultime file, per tornare ad armarmi. Sbattei le dita contro uno scudo gettato per terra, mi spezzai le unghie, rimirai a lungo la clava di Eracle dipinta sopra: un nodoso bastone azzurro su un mare di blu.
Qualcosa mi perforò la schiena, mi spinse a terra per poco. Mi voltai giusto per vedere il mio compagno cadere, la gola passata da parte a parte, e altri tre dei nostri schiacciati dagli stivali nemici.
Mi trascinai lontano, rubai l'elmo a chi non serviva, mi nascosi dietro un riparo di carne tentando di riprendere fiato. Le file di fanti erano ora un unico amalgama di mille colori, una coppia di serpi nel pieno della lotta, tutte annodate una sull'altra e scattanti ora da un lato ora dall'altro: sul versante destro del campo, verso il fiume, le masse erano tanto schiacciate che si combatteva anche con l'acqua fino alla coscia, coi nostri che addentati alla gola faticavano a tenere la linea, coi vincitori che affogavano gli sfidanti tra le canne, con il fiume ormai tinto di ocra e rosso. Dall'altro lato, sul versante della rocca, il nemico cedeva terreno e arretrava ordinato, tenendo a distanza gli ateniesi che irruenti caricavano scendendo dai colli, accecati dall'impeto e ammaliati dalla facile gloria. Si gettavano come pazzi sulle aste rivolte al cielo, a coprire le teste dei combattenti in prima linea, e intanto i comandanti richiamavano e picchiavano, per far restare uniti i reparti.
Intorno, intanto, le staffette diffondevano la voce del beotarca lungo la linea di comando: «Indietro, Tebani! Indietro!»
Qualcuno, - giuro, non uno dei nostri - gettò a terra lo scudo.
«Gli alleati fuggono!»
Mi sollevai da terra, tornai alla massa dei fratelli in armi.
«Compagni, rimanete nei ranghi!»
Sulla nostra sinistra, là dove erano prima i piccoli imbelli esitanti, la rotazione nemica aprì un varco.
«Sul fianco! Spingete!»
Altri dardi ci piovvero addosso, il nemico allentò la presa e ci diede il tempo di ritrovare il fiato. Per un attimo vidi Auristene, stringeva a sé un corpo ferito.
«Attenti!»
Una freccia mi colpì alla spalla, mi spinse di nuovo a terra. Tutto il resto della battaglia è piuttosto confuso nei miei ricordi, come un viso amico nella notte, illuminato da una candela fumosa. Ricordo bene che ci sospinsero indietro, scacciandoci contro il fiume, e infatti alcuni dicono - mentendo! - che fummo sin dall'inizio là, sull'ala destra, lontani da dove avvenne il disastro. Ricordo anche il volto dell'uomo che sfidò Auristene a duello, un giovane basso dall'elmo piumato, da dove sfuggivano pochi riccioli color zafferano. E i suoi occhi, per gli dèi, i suoi occhi sul volto appena piegato: uno nero, l'altro azzurro.
Aveva guidato le loro truppe pesanti fin lì dal fianco del fiume, aveva visto il varco e lo aveva sfruttato.
Colpì Auristene a sinistra, nel punto cieco oltre lo scudo, con la grazia di chi pur debole sa sfruttare l'ingegno. Dietro di lui venne la cavalleria, fino a quel punto tenuta in riserva, e gli Ateniesi, scompaginati, si diedero alla fuga per esser travolti.
Una mano mi sollevò mentre noi arretravamo, respingendo gli assalti nemici, piantando le lance nel suolo al primo rumore di zoccoli, sopportando ogni dardo che continuava a pioverci addosso prima che colpisse la sarissa. Mentre zoppicavo nel sangue fangoso, mi chiesi che ne sarebbe stato dei miei cari, ripensai ad Auristene, alle sue guance rigate, alla sua barba insozzata dal muco. Il suo fianco squarciato mi è vivo negli occhi come fosse accaduto oggi.
Isolati sulla riva paludosa, con la schiuma alla bocca e senza fiato, ritrovai Niso, che a stento si reggeva, la fronte tagliata e gli arti sbucciati. Le scaglie di bronzo che ornavano il suo addome erano divelte e piegate, e anche da lì perdeva sangue.
«Lascia che ti slacci la corazza, fammi vedere dove sei ferito» mi sussurrò. Piangeva anche lui, e non osava dire ciò che entrambi sapevamo.
Intanto, intorno, il nemico ci concedeva una tregua, manovrava sicuro e occupava le posizioni contese. Ognuno, amico o nemico, cercava il fiato per l'ultimo assalto.
«Uomini della Beozia!» aleggiò nell'aria, «Avete combattuto con onore! Deponete le armi!»
Intorno venne il silenzio, rotto solo dal nostro ansimare. Qua e là, qualche lama ancora tintinnava. Qualcuno si tamponava con uno straccio. A un grugnito seguì uno spunto.
«Beoti! Andiamo a dargliele!»
Alzammo gli scudi, battemmo le lance contro i bordi sbeccati, serrammo i ranghi, e il ricordo mi appare come presente.
«Uah!»
Un passo, un altro, i dardi ci piovono in testa, un compagno rallenta e si piega, un passo, un altro, il tamburellare del pietrisco, un lamento, un passo, un passo, il dolore, un passo. Niso cade, ha un giavellotto sopra il ginocchio, sospira. Le lance si insinuano, gli scudi cozzano, tutt'intorno è la mischia. La mia mano è contusa, schiacciata tra i corpi; mani mi tirano indietro perché è un peso tenermi tra i ranghi. Un passo, l'odore di merda ci assale, un passo, il piscio mi bagna la gamba.
«Puah.»
Mi tolsi la corazza di lino e mi gettai nel fiume.
Fu un massacro, e questo è tutto. Non rividi mai più un compagno. I loro volti e le loro parole sono tutto ciò che mi resta, ed essi morranno di nuovo con me, che non ho avuto il coraggio di divenire come loro, immortale. Mi chiedo cosa sia stato di chi si è salvato la vita, e mi opprime la colpa di essere l'ultimo della Banda Sacra di Tebe, la gloria della rocca Cadmea. Forse nemmeno lo sono, ma chi può saperlo se alla morte l'alternativa è vergogna?
Quando la polvere si posò al suolo e la pioggia lavò ogni traccia di sangue, dissero che Filippo in persona scese per piangere in ginocchio sul nostro coraggio. Dicono che concesse ai nostri una fossa comune in cui tumulare i compagni: io dico pretese il peso di ogni cadavere in oro.
Qualcuno, io non so chi, ha eretto una statua a guardia del tumulo, un leone ruggente privo di insegne. Alcuni dicono sia di Filippo. Io non credo, ma chi ricorderà cosa è stato, senza un cippo o una stele? Chi saprà perché il leone guardava alla piana, quando non sarà più lì? Forse si salveranno queste poche parole, dalla bocca di un vecchio cantore a un altro lungo la strada, per pagarsi un posto accanto al fuoco in una notte d'inverno, e forse anche quelle si poseranno come polvere, e resterà soltanto la terra.




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"Il leone di Cheronea, l'Acropoli e il Monte Parnaso", foto di mano sconosciuta, pubblicata in Il vicino Oriente di Hichens Roberts, 1913, e conservata presso la collezione dell'Archivio Hulton.

Racconto vincitore del concorso Viaggio in Elicona di CasadelleCivette con i seguenti premi:

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