Chi avanza nella segale

Quando gli sterpi riflettono il sinistro bagliore lunare, proprio non riesco a dormire. Là nei campi, dove un tempo crescevano la segale e l'orzo e papà aveva appeso la sua vecchia camicia a quadri allo spaventapasseri, c'era la vita, prima, e c'erano sudore e risate. Ora sono solo parassiti: si rivoltano nella terra tra le radici secche, quasi riesco a sentirli strisciare. Do la colpa anche a loro delle mie veglie continue.

Ticchettano, battono le loro zampette sul legno, si arrampicano sulla veranda dove un tempo sonnecchiava il nonno, ormai troppo vecchio per i campi, e mi sussurrano che sta arrivando, ineluttabile come il giudizio di ogni peccato il giorno dell'Apocalisse. Ogni notte l'attesa è snervante, la scena sempre la stessa: l'essere avanza silenzioso tra l'erba secca, si aggira intorno alla casa cercando il contatto tra i suoi occhi e i miei attraverso le finestre scrostate, coperte di polvere e impronte. Non parla né urla, in realtà non emette alcun suono pur muovendo ogni tanto le labbra spaccate. Sta lì a condurre il suo assedio notturno, a ridurre questo posto nella mia miserabile prigione.

Mamma lo diceva sempre: solo chi ha la coscienza pulita riesce a trovare il sonno. Aveva sempre ragione la mamma, anche quando mi diceva di non avvicinarmi alle finestre qui sopra – perché del prossimo e della sorte c'è sempre da sospettare –, e anche questa volta l'avrei dovuta ascoltare: lo provano le coperte arrotolate e divelte dal materasso mentre fuggo dal letto e attraverso la stanza, lo squittire dei piedi agitati sul legno. Lo provano i capelli annodati dal prurito che non mi abbandona: anche lui non mi lascia dormire. È un prurito che genera croste che nessuno mi dice più: «non toccare».

Proprio da questa finestra, dove la mamma spiava i dintorni, filtra la luce della luna, s'insinua tra le palpebre pesanti, torte e ritorte sotto i miei pugni che vibrano come calabroni sopra il mio viso. Dovrei lavarmi le mani, forse lenirà quella fastidiosa irritazione che sempre mi accompagna e mi tortura fino a spaccarmi la pelle, secca e incrostata di sangue. E quando mi riesce di levare le mani dagli occhi questi tornano sempre alle ombre notturne là fuori.

Sì, prima o poi arriverà, e invece di scappare penso che dovrei farle trovare la casa pulita, come voleva sempre la mamma, ma è difficile tenere tutto in ordine stando qui da sola, come le cornici – volti seppiati di nonni, bisnonni e così via dicendo – che popolano il corridoio e la scalinata che tutta sbilenca arriva fino al salotto: anche quei volti sono sbilenchi, le cornici si inclinano sempre e loro restano lì, impietosi, a seguirmi e giudicarmi quando mi aggiro per le stanze ormai vuote. Solo i ragni e i ratti le abitano ancora, e a ogni angolo sommerso di paccottiglia hanno fatto la tana. I ritratti mi osservano anche adesso che attraverso il corridoio in cerca del bagno, quando sul ballatoio davanti alla scala un alito di vento sussurra e mi sfiora, portandosi appresso l'odore della pioggia che verrà.

Le assi degli scalini gemono sotto i miei piedi che lenti mi tirano al piano dabbasso, si lamentano del marciume che avanza e trasuda dalle pareti. La casa è sempre stata umida: mamma spesso se ne lamentava con papà, ma papà diceva che lì la terra era decente e rimanere per un altro raccolto ne valeva la pena, e lei zitta e buona se ne tornava a guardare l'orizzonte coi suoi monti bruni da dove presto sarebbe giunta la notte. Quei monti mi hanno sempre fatto paura, perché non mi è mai stato permesso di vedere cosa c'è oltre, e la loro ombra opprime la valle. Quella stessa ombra ora entra dalla finestra del salotto e mi chiama.

L'ho lasciata aperta giusto una spanna, affinché almeno un refolo possa alleviare questo strano senso che mi attanaglia le braccia: è come essere schiacciata tra i poli gemelli di due magneti, un pizzicore che mi solleva i capelli – scariche di plasma in un globo di cristallo - e anticipa sempre i temporali violenti, di quelli che tuonano e ululano e ingrossano la segale nei campi. Invece le sterpaglie non ondeggiano ma stanno immobili, affogate nel fango ad aspettare che la pioggia smetta di battere loro addosso, e marciscono e muoiono come il legno di questa casa.

Papà lo diceva sempre: l'avrebbe restaurata, prima o poi, e avrebbe finalmente cambiato quel corrimano della scala che tanto ondeggiava quando io e mia sorella per gioco ci calavamo fino al piano di sotto. Vi annodavo intorno il lenzuolo, e mentre i pioli del corrimano ballavano un valzer noi ridendo innocenti arrivavamo fino al salotto. Ora in quel lenzuolo, ancora sul letto dall'ultima volta che mamma l'ha rimesso a posto, dormono le tarme e le mosche hanno lasciato le larve. Sono ospiti fastidiosi ma sono anche l'unica compagnia che conosco, sempre presenti, come l'essere che proprio ora mi si poggia sulla mano e zampetta, insofferente ai miei vani tentativi di scacciarlo da quella pelle che (me lo ricorda proprio lui) ha tanto bisogno di acqua e sapone.

Ci sono così tante cose che non mi fanno dormire, quasi che io non voglia trovare il sonno, ma solo il tempo di rimettere in ordine la casa e riorganizzare la mia vita e lavarmi le mani. Intanto, l'unica cosa che mi riesce è di rimanere accanto alla finestra in salotto, a scrutare l'orizzonte, perché lei arriverà, sì, come fa ogni sera, puntuale come un incubo figlio del senso di colpa. Sembra di avere i chiodi del Cristo che trapassano la carne e bloccano i palmi appoggiati al vetro per scrutare meglio tra le ombre notturne.

È lei la causa di tutto, quell'incubo che avanza e ogni notte danza nei campi, sin da quando c'erano la segale e l'orzo, e ancora continua ora che sono tutte sterpaglie. Ha i piedi nudi di chi viene sepolto, eppure ignora le spine dei cardi, le minuscole rocce che ormai hanno reso sterile la terra che non zappa più nessuno, i viscidi vermi che pascolano sui corpi delle generazioni passate. I suoi occhi mi ricordano che polvere eravamo e polvere ritorneremo, la sua bocca soffia come un gatto infuriato e mi gela. Neanche riesco a dirle che vorrei solo dormire, per trovare magari la forza di fare quello che poi non faccio. Ad ogni sua apparizione sento le accuse che la sua lingua pur se si muove non pronuncia - come se quel lenzuolo scambiato per corda fosse una colpa che è solo mia.

All'inizio è facile non darle ascolto e spostare lo sguardo, finché è distante e i rovi le arrivano al seno, e cercare una scusa nelle pellicine strappate intorno alle unghie spezzate o nei quadri e le foto che continuo a rimettere in linea – anche se so che si divertono a prendermi in giro e tornano sempre storti, con gli occhi inchiodati su di me.

Un primo lampo irrompe nella stanza ma la tempesta è ancora troppo distante affinché qui arrivi il rumore. La luce assalta le cornici lungo la scala, vorrei bruciasse tutte quelle foto e quelle croste piene di avi.

Siamo sempre stati una famiglia di gobbi, di lingue indecenti, zotici sboccati dalle nocche callose, facili a usare la roncola a mo' di coltello: chi non è morto qui nel suo letto, con le ossa spezzate e inspessite dalle fatiche, ha perso la vita appeso per il collo nel cortile della prigione. Un tempo per questo avevamo una brutta nomea, e ci evitavano tutti da ben prima che io nascessi.

Per questo mia sorella mi seguiva come un fantasma. Aiutava a combattere la solitudine e la paura del mondo oltre i monti e la strada. C'è ancora il segno di noi sulla poltrona davanti al camino, quella dove ci accoccolavamo quando lì fuori era buio e freddo e i coyote scendevano a valle: io leggevo e guardavo le figure, lei ascoltava; la mamma mi sorrideva e papà stanco rimestava nel camino con l'attizzatoio, in cerca di non so cosa sotto la cenere spenta. Mi chiedo se anche loro la vedevano, la danzatrice nei campi, e lo tenevano nascosto a noi due sulla poltrona in un distorto tentativo di proteggerci. Il nonno la vedeva, lo so bene perché me lo disse una volta, e lui certe cose riusciva a vederle perché era nato con la camicia. Sua nonna lo ripeteva sempre, e lei di nodi, ninnoli e ciondoli se ne intendeva.

Ma il nonno – come sua nonna e chi ancora prima di loro – non deve averla incontrata negli occhi degli altri. Io invece sì, proprio sul viso di chi mi metteva a letto e mi baciava per poi andare a dormire: è dal giorno del lenzuolo di cui feci una corda che quelle labbra si son riempite di crepe. Era una maschera di sofferenza quella, che a poco a poco ognuno ha indossato per nascondere il viso. Col tempo è diventata il sudario con cui li ho visti andarsene, la mamma e il papà, oppressi dalla sensazione di non aver fatto abbastanza, dopo che il nonno – sulla stessa sedia a dondolo dove sonnecchiava sempre – se n'era andato cosciente di non averci lasciato nulla. Quasi mi sembra di sentire ancora i loro pianti negli scricchiolii continui della casa, fatta di legno e di ricordi che sono più rimorsi che soddisfazioni.

Ora riposano tutti tra le radici di un tronco spezzato e morto, ormai un ceppo sgraziato abbarbicato da dure catene al terreno – ancora lo infestano senza mollare la presa pur non avendo più nulla da nutrire. Difficile a credersi ma c'è poco da temere di là, finestra che dà verso ovest, dove il ceppo sta a guardia del crinale tra la casa e la strada.

Qualcosa picchietta sul vetro, ticchetta un valzer sinistro che mi chiama, mi mozza il respiro e mi chiede la mano. È la compagna notturna con cui condivido l'insonnia? No, solo l'insetto, quella mosca che mi torturava la mano. Stupido essere: non trova la strada, non capisce l'ostacolo tra lei e il salvarsi la vita. Basterebbe poco, volare più in basso, e scoverebbe la via di fuga larga appena una spanna. Forse è il vento che la spaventa, quell'urlo che assalta la casa e porta a gemere il telaio intorno ai vetri sottili. La mano corre alla ghigliottina dell'anta che la pelle è già coperta di brividi – una distesa di puntini come morsi d'insetto – e l'abbatte portandosi appresso quel piccolo essere, ora un grumo di sporco tra le schegge del legno.

Con lo schiocco del legno mi si scioglie il petto, torna a succhiare aria come fosse latte per un vitello. Ogni volta che usciva per mungere papà tornava coperto di escrementi, e il puzzo ci inseguiva per giorni e appestava le stanze. Dovrei tornare a cercare il sapone.

I capelli si sollevano nell'atmosfera elettrostatica: il valzer prosegue, ma altrove. Sono solo rami, pietrisco lanciato dal vento, sono solo le ombre dei monti, no? No, lei è vicina, lo so, e pur non parlando mi chiama, ed è tutt'intorno alla casa, e mi accusa di aver legato il lenzuolo al piolo che poi è ceduto, così che quei due che hanno passato la vita a lavorare la terra si dannassero per sempre – perché avere più figli? Ora nessuno dopo di loro lavora la terra. Non c'era alternativa per questa famiglia dannata? Non la volevano? Io volevo soltanto lenire la solitudine che era la mia infanzia.

Sarà meglio chiudere anche quell'altra finestra, trovare il coraggio di affrontare i fantasmi che ticchettano e schioccano come grinfie misere, pallide e scarne. Il coraggio mi viene perché il vento gira e un gracchiare di corvi mi porta il silenzio: ora spira da ovest, dalla strada polverosa dove non passa più un carro, odora di pioggia e batte sui monti. Il silenzio mi concede un respiro, dà quanto basta perché smetta di piantonare l'orizzonte e i suoi monti.

I minuscoli esseri ticchettano ancora, ronzano e strisciano cercando spiragli nelle pareti, vogliono entrare per cercare rifugio, o per annunciare la sua venuta. Oltrepasso il camino, dove c'è ancora la cenere che una volta smuoveva mio padre, torno a sedermi sulla poltrona dove mia madre sorrideva alla sua unica figlia. Sussurrano, chiamano, sanno il mio nome, sono la causa del sangue fresco che sgorga, delle pellicine strappate, delle unghie ingiallite che nemmeno mi accorgo di aver divorato e sputo per terra, delle ginocchia tremanti tirate su, a proteggere il viso.

Lei batte col dito sul vetro quella macabra danza e mi cerca con la bocca contorna che non emette rumore, quasi aspettasse il mio invito a entrare, né io ho intenzione di uscire. Sono poli magnetici che dovrebbero opporsi i nostri, eppure, alla fine, gli occhi nascosti tra i capelli impazziti, sono i miei piedi che toccano di nuovo il suolo e mi portano a lei.

Il ceppo sul crinale è uno spettrale guardiano, un'ombra illuminata a tratti dai lampi. Una volta gli appiopparono un nome: lo chiamavano il frassino rosso dell'impiccato. Chissà se ancora qualcuno lo chiama così.

Dopo la luce arriva il rumore, rimbomba nel cielo cupo e opprimente. Sul vialetto che porta alla strada il cartello di vendita cigola e ondeggia, corroso dal tempo e dal terreno insozzato dai morti. La pioggia si appresta. Il giudizio è vicino, lo trovo negli occhi iniettati d'insonnia piantati nei miei, e nel dito puntato di un riflesso chiamato sorella.

Ora, a separarci, non vi è che un sottile velo di vetro.

Lei mi guarda.

Io la guardo.

Io mi guardo.


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Editing di Margherita Contò

Racconto vincitore del Concorso di scrittura creativa di @PandamonioTEAM, Lista 2, dove trovate la versione non editata.

Trovate questo racconto nella raccolta Nuovi  ‒ sei esordienti assolti di Itaca Colonia Creativa.


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