3. Sigaretta
"And I don't care if I sing off key
I find myself in my melodies
I sing for love, I sing for me
I shout it out like a bird set free"
("Bird Set Free" - Sia)
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«Il mio solito tè e un pancake doppio da divorare all'istante. Sto letteralmente morendo di fame» mi rivolsi a Jamie, il mio migliore amico pasticciere.
«L'aria produttiva di settembre ha fatto i suoi effetti?», sorrise mentre si mise all'opera per preparare il mio dolce, «Scommetto che sei d'esame oggi».
«No, Jam!»
Aggrottò la fronte. «Allora perché sei vestita così elegante? Appuntamento romantico alle otto di lunedì dieci settembre?»
«Impossibile» sbuffai, «l'appuntamento romantico, dico».
Mi diede un colpo sulla spalla, borbottando uno dei suoi caratteristici insulti. «Devo ricordarti della tua conquista...»
«Smettila, Jamie» lo interruppi, «sono passati mesi e ancora tiri il filo con questa storia del professore. Non ci siamo mai più incontrati». Era passato un semestre da quel giorno. Durante quell'estate avevo conosciuto un altro ragazzo a cena, ma non era stato in grado di cancellare quei ricordi che mi legavano a Nolan.
«Io continuo a shipparvi», Jamie mi servì un piatto, «ti conosco, Amy, e ti ci vedo con un uomo come lui. Letterato, scienziato, intellettuale come te, bello, alto e con gli occhi azzurri in stile principe delle fiabe».
Non feci altro che annuire alla vista dei suoi grandi occhi verdi che mi fulminarono dall'altra sponda del bancone. Anch'io non avevo mai smesso di pensarlo, sebbene i mesi erano passati e le speranze di trovarlo sulla mia via erano sempre più rare.
«Comunque, oggi iniziano le lezioni pratiche di anatomia» tergiversai mentre addentavo il tripudio di calorie servitomi, «un passo in avanti verso l'obiettivo...»
Con le sue dita sottili allontanò una ciocca di capelli che stava per finire nel piatto. «Uhm... allora potresti conoscere qualche bel ragazzo».
«Come quelli che avrei dovuto conoscere alle superiori e al college?»
«Non fare così... sono sicuro che troverai un bravo ragazzo che non sia io».
«Beh, Jamie» borbottai, «tu sei l'unico ragazzo non-casoumano che io abbia mai incontrato».
«È per questo che siamo migliori amici, no?»
Mi limitai a rispondere con un accenno del nostro tipico saluto militare, mentre uscivo dal locale lasciando sulla cassa qualche dollaro per la squisita colazione. Era una tiepida giornata d'autunno e il colore prevalente del mio outfit, il marrone con tutte le sue sfumature, si sposava perfettamente con il colore caldo delle foglie, che si preparavano a cadere dai rami. Ruotai la manovella del volume quasi al massimo, lasciando che la voce energica di Sia rimbombasse dentro l'abitacolo. Una volta arrivata al nuovo polo universitario, servendomi del finestrino dell'auto diedi un'occhiata al mio aspetto aggiustando alcuni fili di capelli che, a causa dell'umidità, stavano spaiati per conto loro.
«Woah, Amelia. Puoi farcela» incitai me stessa una volta davanti all'imponente facciata dell'edificio: tra le massicce colonne di marmo appariva un antico stendardo rosso, che metteva in mostra il leone rampante del logo, e in cima al palazzo l'incisione recitava a caratteri cubitali il nome prestigioso dell'ateneo. Una volta dentro, già spaesata dal via vai di studenti e professori, mi diressi verso la bacheca. Fremendo, scorsi gli occhi sulle numerose righe delle classi d'appartenenza fino a trovare ciò che era di mio interesse. Una coincidenza mi rubò un sorriso, ed era la dicitura "Campbell" in corrispondenza della casella docente di corso. Se solo non fosse stato un professore di fisica ultra trentenne avrei avuto qualche dubbio ad entrare in aula. Scossi il capo mentre in pochi secondi mi trovai già davanti all'ingresso del laboratorio, facendomi spazio tra i numerosi colleghi che attendevano di entrare.
Mi si aprì un mondo davanti agli occhi: un'ampia finestra dava sulla caotica città di Cambridge e illuminava le pareti, tappezzate quasi fino al tetto di armadietti che contenevano qualsiasi tipo di oggettistica medica. Tutto ciò faceva solo da sfondo ai numerosi banconi da lavoro, equipaggiati con strumentazione ultramoderna. Ero così concentrata a esaminare ogni singolo oggetto di questa immensa stanza, che mi disconnessi dal mondo fino a quando un leggero colpo di tosse mi fece tornare alla realtà. Volsi la testa verso la cattedra fino a vedere il professore - seduto a braccia conserte - che attendeva paziente mi accomodassi in una postazione da lavoro come tutti i miei colleghi avevano già fatto. Pagherei oro per vedere la mia faccia nel momento in cui mi resi conto che alla cattedra ci fosse proprio lui.
Sussultai, irrigidendomi sulle gambe. Per un momento credetti di star sognando, fin quando alloggiai nell'unica postazione disponibile, quella di fronte alla cattedra.
«Buongiorno a tutti, signori. Sono Nolan Campbell, il vostro docente di anatomia pratica» si presentò controllato come sempre mentre io fremevo ascoltando il suo accento inglese, consapevole di doverlo sorbire da studentessa. Un brusio di sottofondo si sollevò per accogliere il professore tranne me, che ero persa nel suono cadenzato delle suole che passeggiavano da un lato all'altro dell'aula.
«Nonostante possa sembrare un vostro coetaneo, non dovete obliare che io sia il vostro professore. Direi che, per conoscerci meglio in questo primo giorno di corso, potremmo parlare un po' di noi» concluse mentre con diligenza prese posto sopra la cattedra.
Dal fondo dell'aula si levò una voce: «Io sono Carl Torres, vorrei fare l'ortopedico».
«Eccellente, signore. Altri aspiranti chirurghi tra voi?»
Mi morsi le labbra. D'istinto alzai la mano.
«Oh, ecco», ancorò il suo sguardo sul mio, «che ramo vorrebbe prendere, signorina...?»
«Amelia Moir» conclusi la frase, «comunque, chirurgia cardiotoracica».
«Complimenti per la scelta encomiabile, allora», poi spiazzò l'intera aula con la sua confessione, «io ho la passione per l'astronomia e vorrei andare nello spazio».
«C-cosa?» Le parole fuggirono dalla mia bocca senza prima fare sosta alla corteccia cerebrale. Raccolsi gli sguardi di tutto il popolo su di me.
«Sì, Miss Moir?»
«Perché ha questa passione?» Le stelle erano anche la mia più grande dedizione. Mi stupiva come l'affinità tra di noi fosse così alta.
Notai il suo corpo irrigidirsi contro la scrivania. Ancora una volta, le sue dita giocavano nervosamente con la fibbia della cintura. Era forse un vizio? «È una storia lunga, Amelia. Ve la racconterei, ma siamo qui per fare anatomia, o sbaglio?»
Non potevo dire di conoscerlo, ma era abbastanza chiaro avessi toccato un tasto sbagliato. Mi limitai ad annuire, non rivolgendogli più uno sguardo per tutta la lezione. Arrivato mezzogiorno i colleghi iniziarono a lasciare l'aula. Mi accodai a uno di loro, congedandomi al professore con un saluto formale mentre lui era ancora chino sulla cattedra a ordinare una risma di fogli. Tuttavia, se credevo di poter scampare il destino, mi sbagliavo di grosso.
«Amelia» sentii. Sussultando, mi voltai senza pensarci più di una volta. Il cuore mi sfarfallava nel petto proprio come mesi prima. Com'era possibile?
«Nolan», asserii. Era così uguale al nostro primo incontro. L'unica differenza era un filo di barba, che gli dava qualche anno in più. «Com'è andata l'estate?»
«Tutto per il meglio, ho ottenuto l'assegnazione come insegnante di anatomia pratica», un muscolo guizzò sulla sua mascella evidente, «non avrei mai immaginato di trovarti nel mio corso».
«Non posso dire il contrario». Mi chiedevo disperatamente come potesse essere così... estroverso? Quella sua scioltezza mi faceva sentire un'adolescente incapace di gestire le proprie sensazioni. Mi concentrai sulle pieghe che la camicia compieva sul torace.
«Non vorrei sembrare inopportuno...», le sue pupille si dilatarono poco a poco e il colore chiaro dell'iride sembrò ravvivarsi.
«Cosa?»
«Ti va di prendere qualcosa qui vicino?»
«Perciò dimmi», giocò con la forchetta sul piatto, «quanti anni hai, Amelia?»
Di riflesso copiai la sua azione. Avevamo fatto due passi a piedi dopo la lezione, raggiungendo il bistrot vicino all'università. Alzato l'orologio ci accorgemmo fosse ora di pranzo, così scegliemmo qualcosa dal menù.
«Ventitré».
«Abbiamo undici anni di differenza».
«Quindi ne hai dodici o trentaquattro?» Ero finalmente riuscita a sciogliermi. Non era un intento facile, dato il carisma che trasudava da ogni millimetro di quell'uomo.
«Trentaquattro all'anagrafe, dodici nel cuore».
Finii l'ultimo morso del mio hamburger e instaurai contatto visivo con lui. I suoi occhi avevano assunto una sfumatura cupa. Era triste, lo si percepiva a un miglio di distanza. «Trasuda un po' di nostalgia dalle tue parole, o sbaglio?»
«Non sbagli, Amelia». Estrasse un pacco di sigarette dalla tasca della giacca, dal quale ne prelevò una.
«Strano che un professore di anatomia fumi».
«Hai ragione, qui dentro c'è veleno» asserii ruotando l'oggetto fra le dita per poi portarselo fra le labbra, «ma a volte mi sento Zeno Cosini».
Gli lanciai un'occhiata stranita, che lui percepì al volo. «Non lo conosci?» Chiese sconvolto mentre accendeva la sua sigaretta. «Credevo mi avessi detto di essere appassionata di letteratura».
«Questo è un duro colpo», mi toccai il petto, «lo sono, ma di quella inglese».
Tirò un lungo fiato, facendo crescere la cenere per poi farla cadere all'interno di un bicchiere. «"La Coscienza di Zeno" è un romanzo psicoanalitico italiano, uno dei più famosi della storia. Tratta della psiche e della vita complessa di Zeno, un uomo malato e inetto che ricerca costantemente una cura ai suoi mali, e tra le altre cose è dipendente dal fumo».
Lo ascoltai per tutto il tempo senza interrompere. Non conoscevo la storia di Zeno Cosini, ma la sua spiegazione mi attrasse come una falena alla luce. Continuavo a osservarlo destreggiarsi con la sua sigaretta fino a quando fu finita. «E tu ti senti un po' Zeno?»
Il mozzicone era ormai spento, ma Nolan continuava a ruotarlo contro il posacenere. Era perso in quell'azione, come se stesse cercando di sollevare un peso più grande di lui. «Le tue domande mi pungono il cuore, Amelia», sospirò.
«Oh... scusa io...»
«Non devi scusarti», allungò il braccio sul tavolo, fermandosi tuttavia a pochi centimetri di distanza dalla mia mano, «sono io ad essere... complicato».
Mossi un dito, sfiorando il tessuto della sua giacca. Un nodo mi attanagliava il diaframma mentre analizzavo la sua espressione. «Le cose complicate vanno risolte» asserii.
«Non tutto è risolvibile, darling» sorrise, giocherellando nervosamente con le sue stesse dita, «non ti è mai capitato di iniziare un cruciverba per poi lasciarlo incompleto a causa della sua difficoltà?»
«Solo perché mi annoiava impegnarmi», feci spallucce, «se avessi voluto, l'avrei finito».
Il suo sguardo catturò il mio. Mi mancò un battito. Il colore dei suoi occhi era finalmente tornato a rispecchiare quello del cielo.
«Sei una donna ambiziosa. È questo che ti rende così attraente, Amelia».
«Tu pensi?»
Annuii. «Non perdere mai la speranza che ti contraddistingue. Combatti con tutte le tue forze e tienitela stretta perché una volta persa, è impossibile recuperarla».
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Per tutta la giornata non feci altro che vagare su e giù per i piani di casa e pensare e pensare. Dapprima la coincidenza, poi le parole di Nolan. La mia testa frullava pensieri alla velocità della luce su di lui e sul modo in cui affrontava una guerra che lo tormentava. Le nostre strade si erano incrociate di nuovo, e fu quello il momento in cui capii che il destino aveva in serbo qualcosa. Decisi di rilassarmi in giardino così mi accomodai sotto il mio acero profumato. Il suono di un flebile soffio di vento mi solleticò le orecchie. Volsi gli occhi al cielo, a osservare le sue magiche sfumature rosee che s'intrecciavano con le nuvole, riflettenti la luce arancio che proveniva dall'orizzonte. Con le farfalle svolazzanti nello stomaco estrassi il cellulare dalla tasca dei miei jeans, cliccando sulla casella di testo:
«Dannato Jamie, sei per caso un sensitivo?»
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