23. Solitudine

"I′ve learned to lose, you can't afford to
Tore my shirt to stop you bleeding
But nothin' ever stops you leaving"
("when the party's over" - Billie Eilish)


Il suo gesto rapido sfrecciò davanti ai miei occhi facendomi sobbalzare di riflesso.
«Che diavolo ti prende, Nolan?» Cercai con ogni forza in corpo di non indietreggiare, nonostante la sua imponenza mi provocasse una repulsione che si propagava lungo tutte le fibre dei miei muscoli.

«Hai pure la sfacciataggine di chiedere?» Abbaiò mentre un'espressione di sgomento prendeva sempre più vita sul suo volto, «Ti ho vista attaccata a un uomo, Amelia!»

La verità era che non avevo mai visto Nolan arrabbiato. Non avevo mai visto i suoi lati negativi, che fino ad allora non avevo riflettuto ci potessero essere. Era sempre stato così perfetto ai miei occhi che la mia mente ignorava anche lui fosse un essere umano con sentimenti, rabbia, noia, odio. Restai a fissare con sguardo languido il suo petto che si muoveva ritmicamente insieme alle parole, senza voglia di alzare gli occhi e incrociare i suoi. In un istante mi resi conto di essere così vulnerabile, così piccola e sciocca da aver solo pensato di essere forte.

«Amelia» vista la mia disattenzione Nolan fece un passo avanti, ricercando lo sguardo «mi stai ascoltando?»

Mi voltai verso il lato opposto della cucina a voler fuggire dal suo tono brusco. Avrei pagato anche l'oro del mondo se fosse servito a evitare quella discussione senza fondo. Avrei evitato come la peste litigare con l'unica persona che amassi. Ne approfittai della mia posizione per cercare di mollare almeno una parola.
«Sono stanca. Stanca di ciò che mi sta succedendo in questo periodo!» Posai il palmo sul tavolo senza dosare la giusta forza, suono che rimbombò per tutta la piccola cucina di Aaron. «Un mese fa ero ancora un'adolescente con la sindrome di Peter Pan: credevo nei sogni, credevo nel voler diventare un grande medico, credevo di poter scalare le cime del mondo con un semplice schiocco delle dita, mentre guardami adesso! Ieri sono andata a cercare un lavoro per mantenermi. Non credo più nei miei desideri, nei miei sogni. Tutto ciò che prima mi dava forza, adesso mi svuota e inghiottisce come un buco nero. Tutto questo doveva essere graduale: dovevo prima finire gli studi, abbandonare la mia casa, farmi una vita. Ma, invece, è arrivato tutto insieme prorompente e non riesco a tollerare questi ritmi. Nolan, sei il mio unico appoggio, l'ancora della mia salvezza; non riesco a tollerare che anche tu debba mettermi con le spalle al muro e contribuire a questa tortura».

Il suo sguardo - fisso a scrutare le piastrelle color oliva che compongono il pavimento - cambiò riflesso in una frazione di secondo. Era questa la parte che di lui mi spaventava, l'essere così... imprevedibile. Le sue palpebre si socchiusero un istante per poi riaprirsi, mostrando gli occhi gelidi che si sollevavano fino a incrociare le mie pupille. Le sue possenti mani impugnarono il bordo del tavolo al centro della stanza; l'unico suono che le mie orecchie percepirono risultò essere lo stridio dei suoi grandi polpastrelli sulla superficie legnosa del tavolo.

«Tortura?» Il silenzio che regnava in tutto l'ambiente caldo della cucina venne perturbato dall'impercettibile e afflitta voce dell'uomo che un istante prima aveva la forza per scalare il mondo, «È questo quello che pensi realmente di me?»

«Non intendevo...» sospirai affranta mentre distolgevo lo sguardo dalla sua espressione desolata, «non intendevo quello». Le parole erano così incollate alla lingua da non riuscire a essere pronunciate. Serrai le palpebre, premendo con i polpastrelli sulle tempie durante una scarica di rabbia e tristezza, un mix doloroso che bruciava irrefrenabile nel petto e che instantemente corse verso la gola.

Un sospiro rapido e deciso, poi alcuni passi, non fu sufficiente il tempo per aprire gli occhi: la porta d'ingresso si chiuse con un tonfo che rimbombò in tutto l'appartamento. Il cuore rilassò la sua attività che fino a un istante prima era massima, per poi provare l'amara pesantezza di aver ferito la persona a cui avevi proprio affidato le chiavi del tuo cuore.

Era arrivata la consapevolezza di avergli fatto del male.


Il sole tramontava leggero al lungo orizzonte di Boston con i suoi vari colori caldi e miti, nonostante l'intera città fosse coperta di neve bianca e gelida. Lo osservai dal davanzale della cucina fino a quando l'ultimo, piccolo spiraglio di luce lasciò posto all'oscurità di un freddo cielo tipico di Febbraio. Poggiai la testa sul palmo, continuando a osservare i mezzi che in lontananza si muovevano a rilento verso la periferia, per la maggior parte lavoratori che stavano per tornare nei loro quartieri, dove ad aspettarli sul varco di casa c'erano i figli con la loro metà ad accoglierli. Ero immersa, ad occhi chiusi, a percepire quella sensazione quando mi accorsi di stare piangendo. Spostai con amarezza le mie mani calde sul volto, per poi iniziare a singhiozzare silenziosamente, soffocando più che potei la sensazione, come ero solita fare.

Non passò molto che l'orologio appeso alla parete battesse l'ora per la ventunesima volta quel giorno, facendomi crollare in tristezza per la mancanza di Nolan. Sulla superficie di marmo bianco della cucina brillava di bontà una torta salata preparata da Aaron. Scrutai con attenzione il ripieno sebbene senza decifrarne il contenuto, poi tentai di assaggiarne una fetta, ma il mio stomaco era attanagliato in una morsa mentre le gambe mi trascinavano per inerzia al piano di sopra. Pigiai lo schermo del mio cellulare, che non prendevo per le mani da un paio d'ore. Sullo schermo spiccò una notifica.

SMS da: Jamie Jam Best Friend
«Dove sei finita? Non ti sento né vedo da secoli! Se continui così sarò costretto a chiamare la CIA. Mi manchi, Ami. Fatti sentire al più presto».

Sebbene provassi a ignorare il senso di colpa, la triste verità era che avevo tagliato fuori dalla mia vita il mio migliore amico storico, il fratello che non avevo mai avuto. Anche lui mi mancava, il caro vecchio Jamie, compagno di vita e d'avventure. Avrei desiderato raccontargli la mia storia, magari davanti a una delle cioccolate che solo lui sapeva preparare a regola d'arte. Ma al contempo ero consapevole che non sarei neppure riuscita a sputare una parola d'inizio. Così, ignorai quel suo messaggio, sperando di aver fatto - almeno quella volta - una scelta giusta.


Dei rumori lontani echeggiarono nelle mie orecchie, che tuttavia non trasmisero lo stimolo al cervello. O, almeno, fino al momento in cui riconobbi il suono della squillante suoneria del mio cellulare. Ero precipitata in un profondo sonno pomeridiano che si era protratto fino a mattina. Mi svegliai di soprassalto, la luce penetrante dalla piccola finestra affianco al letto a diffondersi in tutta la stanza, intatta come la sera precedente. Fu un colpo al cuore prendere atto che il letto di Nolan fosse anch'esso intatto. Il suono del cellulare smise di tormentare i miei timpani, almeno per pochi secondi, dopo i quali iniziò a riprendere incessante il suo squillo. Spazientita lo afferrai dal comodino, dove sullo schermo appariva il contatto di Ann.

«Pronto?»
«Ti avrò chiamata almeno trenta volte, Amelia! È successo un caos!» Strepitò mia sorella dall'altro lato della cornetta, facendomi precipitare in una confusione peggiore di quella in cui già versavo. «Mamma e papà erano convinti stessi da Jamie!»
«Sì» risposi stranita e con ancora la voce assonnata, «è quello che ti ho detto di dire loro. Qual è il problema?»
«Il coglione del tuo migliore amico è venuto stamattina a cercarti a casa».
«Quindi, il problema?» Mi portai una mano sulla tempia, ribattendo senza collegare le sue parole.
«Terra chiama Amelia, sì pronto? Sei atterrata? Jamie, persona che i nostri genitori credevano ti stesse ospitando, è venuta a casa nostra a cercarti, preoccupato per la tua assenza».

Come se il pulsante per la connessione cerebrale si fosse appena acceso, compresi all'istante cosa intendeva dirmi, e non mi restò altra opzione che crollare in un silenzio a percepire il battito del cuore aumentare, e una scarica di adrenalina farsi sempre più spazio all'interno del mio corpo.

«Sono abbastanza... come dire, nella merda, secondo te?»
«Papà ti sta cercando. In lungo e in largo. È arrabbiato come una bestia. Mi ha costretta a dirgli dove fossi ma, ovviamente, non glielo dirò neppure sotto tortura» concluse con una risata, poi la sua voce si incupì nuovamente. «Promettimi che te ne andrai e non tornerai mai più».
Strinsi con più forza le dita contro le tempie, al tentativo di far passare il dolore che mi turbava. «Non posso prometterti una cosa del genere, Ann».
«Devo staccare. Puoi farlo».

La chiamata terminò con tre beep consecutivi, poi il silenzio, identico a quello della sera precedente. Scesi le scale per poi arrivare in cucina dove tutto era intatto come la sera precedente, tutto tranne il vassoio con la torta salata, che allora era pieno per metà. Come tutte le notti, Aaron era tornato dal turno, aveva messo qualcosa nello stomaco e poi fuggito a dormire nella sua stanza, da dove proveniva un russamento. Quella mattina Liz mi aspettava al negozio per un paio di composizioni, così dopo una breve colazione salii nuovamente la rampa di scale, andando a curare il mio aspetto nel minimo accettabile.

«Miss Reyes...» entrai con timidezza nel locale all'apparenza vuoto, fino a vederla varcare la porta del magazzino con alcuni mazzi di fiori tra le braccia che le nascondevano il capo, «buongiorno».

«Buongiorno a te, cara!» asserì con la tranquillità tipica del nostro primo incontro, i suoi occhi verdi a brillare di luce, «abbiamo parecchio da fare oggi. Sei pronta?»

Attese con un sorriso stampato sulle labbra che annuissi, per poi passarmi alcuni scatoloni pieni di fiori freschi e un vecchio telefono fisso. «Oggi è il quattordici di febbraio, dolcezza. Oggi è San Valentino, ci arricchiremo!»

La sua affermazione scatenò una perturbazione di emozioni dentro il mio petto, che tentai con successo di camuffare con un falso sorriso. «Oh, hai ragione!»

«Dovrai rispondere ai clienti al telefono, prendere le prenotazioni e comporre i mazzi. E nel pomeriggio andrai a consegnarli» iniziò a catalogare il da farsi aiutandosi con le dita durante l'elencazione delle mansioni mentre il telefono iniziava già a squillare con un forte campanello.

«Puoi farcela, Amelia...» dissi fra me e me, stringendomi nelle mie stesse spalle.

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