22. Lavoro
"Sunflower
My eyes, want you more than a melody
Let me inside
Wish I could get to know you"
("Sunflower Vol.6" - Harry Styles)
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"Assumo solo gente qualificata".
Mi presi la testa tra le mani. Quelle erano le uniche parole che saltavano da un neurone all'altro, facendomi piombare nella più deprimente confusione possibile. Volsi lo sguardo sull'ennesimo curriculum che avevo appena compilato, o meglio, stampato. Gli occhi scorrevano vaghi sulle numerose righe bianche. Bianche perché non avevo mai lavorato in vita mia. Piuttosto avevo sempre occupato le mie forze nello studio ma, in quel momento più che mai, mi resi conto che per avere un posto in società non importava più di tanto avere in tasca una, due, tre lauree o dottorati. Osservai la lunga lista di proposte di lavoro con i relativi contatti, per metà evidenziata e per metà no, per poi comporre un ulteriore numero sui pulsanti del telefono mentre sorseggiavo una tazza di latte e cacao sul sofà.
Dopo tre lunghi squilli, una voce giovane lasciò la cornetta alla volta del mio orecchio: «Sì pronto?»
«Salve, ho visto l'annuncio di lavoro sul web. C'è il signor Reyes?»
«Mh... no, lui non c'è. Sono io che gestisco tutto. Mi dica, ha bisogno del posto?»
«Sì, decisamente» mormorai incrociando indice e medio tra loro. Troppe erano state le telefonate andate a vuoto nei giorni passati, e speravo di riuscire a trovare un lavoro entro la giornata.
«Venga qui da me e ne discutiamo faccia a faccia».
«D'accordo, a dopo» asserii mentre ero già diretta come un fulmine verso la camera.
Una rilassante doccia tiepida mi permise di pensare, e pensare, e pensare per schiarirmi le idee. Avevo sempre negato il voler fare altri mestieri all'infuori che il medico, e fu quello il momento in cui sentii l'amaro della vergogna in bocca. Mi resi conto di aver lasciato che la mentalità ambigua dei miei genitori - in qualche modo - influenzasse la mia per poi accorgermi che più trascorreva il tempo, più mi sentivo libera di osare. Di pensarla a modo mio. Di non dare peso al giudizio altrui. Semplicemente io, la mia natura, i miei desideri. Dopo una classica ed eterna indecisione davanti alle ante dell'armadio, finii per indossare un lupetto color senape e un pantalone nero adornato da alcuni ghirigori dorati, in tinta con il tessuto del maglione. Dallo specchio esaminai Nolan, ancora dormiente su un angolo del grande letto che condividevamo la notte. Era inspiegabile come mi ritrovassi a osservarlo così spesso: le linee dei pettorali non erano marcate come quelle del palestrato di turno, piuttosto accennate appena. Il corpo asciutto, slanciato, equilibrato. Non era un ammasso di muscoli e testosterone come nelle riviste dei modelli più sexy al mondo: era dannatamente perfetto. Gli diedi un silenzioso bacio tra i capelli per poi apprestarmi a lasciare la stanza, non prima di aver lanciato una rapida occhiata al mio aspetto. Passeggiai a rapide falcate per pochi minuti fino a giungere davanti alla colorata vetrina di un fioraio, su cui appariva una grande insegna di legno con su inciso "Reyes flowers".
Dopo un respiro profondo agguantai la maniglia, facendo il mio silenzioso ingresso nel locale. L'odore forte di fiori mi fece istantaneamente storcere il naso per pochi secondi. Alcuni vasi erano pieni di tulipani ancora confezionati, altri erano già riposti sugli scaffali delle pareti. L'ampia vetrata frontale permetteva l'ingresso ai raggi solari, facendoli brillare su tutto l'ambiente, rendendolo quasi surreale. Un'alta ragazza dagli evidenti tratti sudamericani spuntò dietro un ampio bancone, sul quale si trovavano la cassa e gli arnesi necessari alla lavorazione delle piante. Restai a fissare il suo grembiule verde e rosa per un tempo indefinito, sperando non dovessi mai indossarlo io.
«Ciao, sono Liz Reyes» si presentò cordiale la ragazza dai capelli corvini lunghi fino alle spalle. Rimembrai la sua voce come quella con la quale avevo parlato al telefono qualche ora prima, «Diamoci del tu altrimenti mi sento vecchia».
«Amelia», strinsi la mano davanti a me, «piacere di conoscerti».
Mi spronò a seguirla in una stanza vicina, dove ci accomodammo a una scrivania. Mi strinsi nelle spalle mentre una singolare tensione si faceva sempre più pesante al centro del petto.
«Allora, Amelia. Perché vuoi questo lavoro?» La sua voce gentile mi destò dall'osservazione dei vari fogli e raccoglitori sparpagliati per tutta la superficie di vetro.
«Sto per completare l'università e vorrei mettere qualcosina da parte» inspirai a pieni polmoni per poi espirare l'aria raccolta insieme alle parole.
«Hai avuto esperienze lavorative prima d'ora?»
«In realtà... no» risposi alla domanda che avrei voluto non mi avesse mai fatto mentre iniziavo a torturarmi le cuticole delle dita. Contemplò pensierosa l'agenda sotto le sue mani scarabocchiando una pagina con disegni geometrici. Il suono della penna che scorreva sul foglio venne percepito amplificato dalle mie orecchie, non facendo altro che aumentare la tensione fin quando la sua voce riecheggiò sospirante nello stanzino.
«Ti assumo. Non è molto difficile fare la fioraia. Inizierai con qualcosa di semplice, come le composizioni di rose. Sai, si avvicina San Valentino... ci sarà il boom delle vendite, quindi è meglio che tu faccia pratica in questo mese. Quanto sta alla paga, non sono tirchia; se dimostrerai di impegnarti non mancheranno ricompense».
«I-io...»
«Un'ultima cosa!» Mi interruppe prima che potessi ringraziarla portandosi una mano davanti alla bocca in segno di pensiero. Avrei voluto tanto abbracciarla, quella piccola ragazza dagli occhi neri ispirava così tanta fiducia che capii subito fosse impossibile non andarci d'accordo. «Saresti disposta a fare consegne a domicilio?»
Consegne a domicilio di... fiori?
«Certo» mi limitai a rispondere, frenando la lingua in tempo.
Durante la mattinata Liz si impegnò a mostrarmi il negozio e le nozioni di base per le composizioni. Armata di tronchesine e forme di polistirolo provai a inscenare un bouquet, ottenendo un risultato niente male. Che fosse la cosiddetta fortuna dei principianti? Così proseguii fino a pomeriggio inoltrato, quando le mie dita trafitte dalle spine non ne ebbero più. Liz mi aveva avvisata che le prime volte sarebbero state un po' come una tortura per i polpastrelli, ma - tra me e me - l'avevo considerata esagerata. Dannate rose, così belle ma così dolorose... come tutto d'altronde. Fu tramonto inoltrato quando mi apprestavo a lasciare il negozio. Sfilai il cellulare dalla tasca per controllare eventuali notifiche non lette delle ore precedenti. Tra qualcuna di Nolan - che mi chiedeva se stessi bene - ne spiccava una in particolare.
SMS da: numero non registrato
«Ciao!»
Fissai il messaggio per una manciata di secondi, per poi decidermi a cliccare sui tasti.
SMS da: Amelia
«Dovresti prima presentarti per ricevere una risposta».
Non ebbi il tempo di infilare il dispositivo in tasca che vibrò per la seconda volta.
SMS da: numero non registrato
«Una risposta che ho già ottenuto. Davvero non mi riconosci?»
SMS da: Amelia
«Come potrei quando a malapena ho un mucchio di numeri e una sagoma grigia?»
SMS da: numero non registrato
«Okay, hai vinto. Sono l'ingegnere. Sono dalle tue parti e mi chiedevo se ti andasse di vederci».
Fui molto sorpresa di scoprire chi si nascondesse dietro quel contatto. Lewis Srewart desiderava incontrarmi e l'idea mi allietava, vista la nostra ultima conversazione troncata dall'arrivo dei nostri genitori la vigilia di Natale.
SMS da: Amelia
«Al parco tra dieci minuti, ci stai?»
In risposta, ottenni un pollice di consenso. Lasciato il negozio, passeggiai sotto dei lampioni che emanavano una luce fioca sul sentiero del parco. Respiravo l'aria gelida che riempiva tutto. Mi strinsi nel cappotto; il clima di quel gennaio fu più freddo degli anni precedenti. Ammazzavo il tempo spostando la neve con la punta della scarpa quando finalmente un'ombra sbucò dal sentiero adiacente. Lewis mi salutò con i suoi soliti modi cordiali, a tratti misteriosi. Notai che adorava vestirsi di nero, dato che ogni volta che l'avessi visto indossava un lungo cappotto chiuso e un pantalone dello stesso colore, quasi a sembrare un agente segreto. Ci accomodammo su una panchina non molto lontana. La sua spigliatezza mi stupì: il nostro primo incontro non era stato uno dei migliori, e non avrei mai immaginato che dietro quel costume di secchione viziato ci fosse un uomo così misterioso quanto aperto.
«Amelia, io non so cosa ho visto in te sin dal primo momento» esordì d'un tratto spiazzandomi.
L'interruttore del cervello andò immediatamente in pappa, facendomi scollegare dal mondo. Cosa intendeva dirmi? «L-Lewis, io...»
Gli occhi grandi e scuri come la pece brillavano sotto le lanterne del percorso. Era davvero una grossa presenza, con spalle larghe e decine di centimetri in più rispetto a me, tuttavia sapevo non sarebbe stato in grado di far male neanche a una mosca. «Non fraintendermi, per favore. Sto solo provando a dirti che io mi fido di te, e vorrei sapessi che anche tu puoi farlo. In fondo... abbiamo parecchie cose in comune».
La sua frase mi stranì e mi attrasse allo stesso momento. Tante furono le domande che la mia mente formulò, ma solo una banale lasciò la mia bocca. «Parli sempre con mezze parole o è una trattamento che riservi a me?»
«Diciamo che è un trattamento che riservo in particolar modo a te», non tardò a rispondere, aumentando a dismisura le mie perplessità. Cosa intendeva dirmi Lewis? Desideravo con ogni forza sapere cosa si celava dietro quella sua facciata imperturbabile di mistero, ma si diede il caso che non era quella la volta in cui i segreti vennero a galla.
«Ora non mi resta che capire se sia una cosa positiva o negativa» mormorai.
«Dipende dalla prospettiva. Come tutto, d'altronde. Una cosa può essere positiva da una prospettiva e negativa dall'altra».
Mi persi nel guardare l'ambiente vuoto circostante e riflettere sulle sue parole. Vagavo lontano con la mente fin quando connessi il cervello e poggiai lo sguardo su di lui, notando il suo volto corrucciato e una lacrima che prorompeva su di esso. D'istinto poggiai una mano al centro delle sue spalle.
Respirò profondamente, abbassando ancora di più il capo in senso di colpa.
«Non chiedermi cos'abbia, almeno non ora».
E così, prima che la mia smodata curiosità potesse spropositare, lo abbracciai forte come a voler sottrarre almeno un po' della sua segreta sofferenza.
«Sono tornata!» Esclamai una volta dopo aver varcato la soglia di casa a pomeriggio inoltrato, ormai buio. Il salotto era vuoto e silenzioso, se non per il rumore scricchiolante del parquet sotto i miei piedi. La casa era fredda, il camino spento, sembrava quasi che nessun'anima ci fosse.
«Bentornata» abbaiò Nolan - facendomi sobbalzare - non appena voltai l'angolo, trovandolo poggiato a braccia conserte sul cornicione della porta. Il volto corrucciato mi destò un sospetto che ignorai, facendo qualche passo verso di lui con l'intenzione di baciarlo. Ma, come avrei dovuto ormai ben sapere, l'inaspettato era sempre dietro l'angolo.
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