2. Shakespeare
"Spesso s'incontra il proprio destino nella strada che s'era presa per evitarlo"
(Jean de La Fontaine)
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I miei sensi, inebriati dallo stordimento, si svegliarono gradualmente. Sforzando l'udito riuscii a percepire alcuni suoni ovattati. Un odore leggermente acido mi pizzicava le narici mentre, riprendendo tatto, intuii di trovarmi sdraiata su un lettino rigido. Quanto tempo era passato? Ancora intontita, aprii uno spiraglio tra le palpebre e nella penombra della stanza scorsi una parete un po' scrostata davanti al letto. A un paio di passi, la superficie di un bancone costellata di strumentazione medica confermò la mia ipotesi: mi trovavo nell'infermeria della scuola.
Mentre l'idea di voler andare via guizzava sempre più da un neurone all'altro, una qualche forza di attrazione mi inchiodava al letto, impedendomi qualsiasi movimento. Il mio sguardo si volse allora involontariamente sulla sagoma che, davanti al bancone, armeggiava con degli oggetti: spalle larghe, schiena che gradualmente si faceva più stretta sino ad arrivare al lato B, perfettamente proporzionato alle gambe affusolate. Quella figura così maschile mi ricordò inevitabilmente il famoso "David" di Michelangelo. Bastò un movimento del piede a far emettere al letto un cigolio metallico, che indusse l'uomo a voltarsi nella mia direzione. Dovevo aspettarmelo. Tuttavia, una scarica di adrenalina mi attraversò dal petto fino alle ultime falangi mentre - come un deja-vu – quella figura si rivelava essere di nuovo quel professore.
«Salve, signorina», eretto a pochi passi da me, avevo modo di ascoltare il suo accento particolarmente persuadente, seppur senza capirne la provenienza, «come si sente?»
Lo scrutai per un tempo indefinito senza rispondere. Il mio sguardo venne attirato da alcuni schizzi di colore rosso, che spiccavano nel bianco della sua camicia. Le mani stazionavano sul bacino, gli avambracci erano scoperti dalla camicia disordinatamente arrotolata sotto i gomiti. Borbottai qualche verso mentre mi portavo una mano sugli occhi che desideravano richiudersi, «benino, sì... ma cosa è successo?»
«Dopo che suo padre se ne fosse andato è svenuta in corridoio», mi intimò a guardarmi il braccio, che era coperto da una fascia, «e si è fatta un piccolo taglio che comunque ho già provveduto a curare così da risparmiarle l'interminabile fila al pronto soccorso». L'espressione imperturbabile con cui aveva iniziato a spiegare si alleggerì in un accenno di sorriso, che cercò di mascherare socchiudendo le labbra a formare una linea retta.
Ancora una volta lo scrutai per un tempo indefinito. Mi resi conto che ogni mio pensiero era volto esclusivamente a scoprire di più su quell'uomo. Poi finalmente mi feci avanti intrepida, mettendo da parte l'imbarazzo: «Lei è?»
Prontamente mi porse la mano, che apprestai a stringere. «Nolan Campbell, professore di fisica... attualmente».
Mi limitai ad accennare un sorriso sulle labbra mentre presi una piccola spinta per sollevare le spalle dal letto, che nel frattempo si era reso piuttosto scomodo. Lui si poggiò alla scrivania vicina, stringendo il bordo con i palmi. «Lei invece?» controbatté con aria curiosa, spiazzandomi.
«Amelia Moir, sono la sorella di Anne Marie per intenderci... sono al secondo anno di medicina ad Harvard».
«Interessante...» compiaciuto curvò leggermente il capo di lato, «posso darle del tu?»
«Ah?» Sollevai di scatto lo sguardo turbato sul suo, costantemente spigliato e sicuro di sé.
«Oh, non se le crea disturbo».
I miei occhi si ancorarono sulle vene in evidenza sugli avambracci scoperti. «No... non mi crea disturbo», ripresi le sue parole.
«Perfetto, Amelia».
Un brivido mi percorse la schiena nel momento in cui il mio nome fu pronunciato insieme a un mezzo occhiolino. «Parli sempre così intellettuale?»
Serrò le labbra rosee, le pupille si dilatarono leggermente e un muscolo guizzò sulla sua mascella. «Credi che io parli intellettuale?»
«L'ho appena detto...»
«Ti stupirebbe sapere che non sono americano?»
Scossi la testa in segno di dissenso. Lui scese dalla scrivania alla quale era poggiato, accorciando la poca distanza che intercorreva fra noi. «Ti piace la letteratura, Amelia?»
Era alto. Era davvero alto, così alto che arrivavo meramente al suo torace ampio, su cui la camicia faceva alcune pieghe. «Io adoro la letteratura», asserii prima di deglutire profondamente.
«Allora ti piacerà sapere che vengo dalla stessa terra di Shakespeare», si avvicinò ancora. Il suo odore viaggiò all'istante fin dentro le mie narici innescando un'attrazione che mi fece inspirare fin quando non me ne riempì i polmoni.
«Sei inglese...» constatai mentre un calore cresceva nel mio basso ventre. Le sue mani si poggiarono nella parete accanto la quale decorreva il letto, sulla quale ero seduta. Mi trovavo contro il suo torace, seppur distanziato da alcuni centimetri.
«Cento percento nel DNA».
«Hai detto di essere un professore di fisica, che te ne intendi di genetica?» Mi resi conto che stavamo sussurrando. Il suono del suo respiro ritmato venne percepito solleticante dalle mie orecchie.
Raccolse una ciocca di capelli e la mise dietro il mio orecchio. «Se solo sapessi quante sorprese mi riguardano, Amelia...»
Schiusi le labbra. Ero sconvolta dal suo gesto. I suoi occhi, che avevano acquisito una sfumatura metallica, mi scrutavano cauti dalla considerevole altezza di almeno un metro e ottantacinque. Passarono istanti che sembravano un'infinità, fin quando la tensione fu così forte da annullare il contatto visivo. Afferrai la mia giacca. La distanza non era cambiata. Con un gesto silenzioso mi aiutò a tirare su le maniche. Nonostante il doppio strato di tessuto, riuscì a sentire le sue dita sottili sfiorarmi la pelle. Il suo collo era a un fiato di distanza dal mio.
«Grazie, Nolan», dissi.
Sorrise, forse consapevole dell'effetto che il suo portamento mi aveva causato dentro. Poi si allontanò, voltando le spalle e poggiandosi sulla medesima scrivania.
«Piacere di averti conosciuta, Amelia» esordì mentre rigirava i suoi stessi pollici sulla fibbia della cintura.
Aprii la porta che conduceva al corridoio della scuola. Dal mio umile metro e sessanta ancorai i miei occhi nell'oceano che era racchiuso nei suoi. «Il piacere è mio... professor Campbell».
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Era il crepuscolo quando feci ritorno a casa. Nel pomeriggio aveva piovuto, e il classico odore di terra bagnata che si univa alla fresca aria primaverile mi rilassò infinitamente. Dopo aver lasciato la scuola, presi l'auto di mio padre e guidai fra le strade che costellavano la silenziosa pianura adiacente a Boston. Al tramonto mi fermai in una campagna che dava sul panorama della città, in procinto di accogliere il tramonto. Amavo la natura. Non riuscivo a scacciare dalla mia mente le sensazioni che in una singola giornata avevo provato. Sorridevo, pensando all'ascendente che quell'uomo aveva esercitato su di me. Per abitudine provai a spegnere la sensazione, ma senza successo. Quel giorno di mite primavera avevo vissuto. La monotonia cosmica delle mie giornate era stata spezzata dal fascino di una persona, in grado di mettere in subbuglio ogni singola fibra del mio corpo, ormai abituato alle stesse, croniche percezioni. Ed era quella l'unica verità che dovevo accettare.
«Dove sei stata?» Tornata a casa, ad attendermi a braccia conserte c'era mio padre.
«A fare in giro in pianura», risposi. Presi le scale che conducevano alla mia stanza, ma la sua figura imponente mi bloccò per il braccio. Mio padre aveva sempre avuto un certo ascendente su di me.
«Eri sola?»
«Certo», deglutii, «con chi sarei dovuta essere?»
La sua espressione si incupì. Si limitò a scuotere la testa in segno di dissenso, poi lasciò la presa.
Mi chiusi in camera. Era illuminata da un tenue raggio di luna. Mi nascosi sotto le coperte nella mia posizione più comoda, con la trapunta a coprirmi fin sopra le spalle. La finestra spiovente posta sopra al mio letto mi permise di osservare il cielo, abitato dalle mie amate stelle. Le contai una a una, legandole immaginariamente alle costellazioni.
Non avevo mentito: ero appassionata di letteratura, tanto da avere adiacente al mio letto una piccola libreria. Scorsi il polpastrello sulle copertine rilegate di alcuni libri, per poi fermarmi su un testo: Romeo and Juliet. Fu in quel momento che mi resi conto di non averglielo detto. Shakespeare a cui aveva alluso era il mio autore preferito, e i suoi libri il mio posto sicuro. Ma era ormai troppo tardi.
Presi una penna, sfogliando il testo fino all'ultima pagina. Scrissi un paio di righe mentre i raggi della luna irrompevano attraverso la finestra, illuminando il foglio.
Probabilmente non ti incontrerò mai più, Nolan. Continueremo le nostre vite come ieri e l'altro ieri. Ma se c'è una cosa che ti direi... quella cosa è grazie.
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