19. Innamorato
"Now I've got you in my space,
I won't let go of you.
Got you shackled in my embrace,
I'm latching on to you"
("Latch" - Sam Smith)
• • •
Tre e dodici. Quattro e trentotto. Sei e cinquantuno.
Il mio ritmo circadiano era ufficialmente andato a farsi una nuova vita. E fu il ticchettio cadenzato della sveglia analogica a farmi prendere atto di aver passato l'intera nottata a rigirarmi fra le coperte invase dal profumo di Nolan. Tante furono le volte in cui mi svegliai, di soprassalto, non concependo come fosse possibile che trovassi il corpo di Nolan accanto al mio. Era tutto così surreale: un istante prima mi trovavo a casa con la famiglia migliore del mondo, un istante dopo il mondo si sarebbe totalmente rivoluzionato. Scesi le scale di parquet, fiutando l'odore di colazione fino alla cucina. Non avevo mangiato un granché la sera prima, sebbene i piatti che Aaron aveva preparato fossero molto invitanti. Quel ragazzo mi piacque sin dal momento in cui miei occhi languidi incontrarono i suoi vispi e brillanti. Alto, biondo, sveglio ed estroverso. Aveva tutta l'aria di colui che avrebbe potuto ricoprire le vesti del fratello che non avevo mai avuto.
«Buongiorno, Amelia!» Mi salutò con quella sua perenne spigliatezza mentre era affaccendato nella preparazione di una sorta di pappa proteica. Indossava già la divisa da sergente, con i pantaloni classici blu navy a fasciargli le gambe lunghe e una camicia del medesimo colore fermata in vita da una cintura dalla quale pendevano una fondina e un paio di manette. Lo conoscevo da solo poche ore, ma alle prese con lui e il suo savoir-faire non mi sentii a disagio neppure un istante.
«'Giorno a te» grugnii dopo essermi stropicciata le palpebre e aver osservato nei dettagli i suoi movimenti svelti in cucina, «vuoi sapere una cosa?»
Interruppe scettico ciò che lo impegnava, per poi voltarsi nella mia direzione e fulminarmi con i suoi occhi color ghiaccio. «Cosa?»
«Io e te ci vorremo bene, Ryan». Le mie parole gli suscitarono un sorriso prorompente sul volto che mi riempì il cuore di piacere mentre egli portava una mano ad allentarsi il nodo della cravatta, anch'essa di colore blu navy. Sembrava che non riuscissi a smettere di scrutare i suoi movimenti così calibrati.
«Io ti voglio già bene, Amelia» dopo un attimo di esitazione incrociò le braccia, su cui si misero in risalto i bicipiti allenati, «però mi chiamo Aaron».
Sussultai all'istante, prendendo coscienza dell'errore che avevo appena commesso. Lui rise alla mia reazione, per poi posare sul tavolo una tazza di latte, lasciandomi sempre più esterrefatta dalla sua bontà d'animo. «Ci vorremo bene... l'ho pensato anch'io nel momento in cui ti ho vista».
Dopo la sua affermazione la cucina crollò in religioso silenzio, io dedicata alla colazione e lui apprestato a indossare la giacca della divisa, fin quando il suono della porta mi fece tendere le orecchie come un cagnolino. Volsi lo sguardo sul corridoio fin quando Nolan spuntò sulla soglia della stanza, poggiando silenziosamente un sacchetto marrone davanti alle mie mani.
«Come fai a sapere sia il mio preferito?» Esultai entusiasta dopo aver tastato in fondo al fagotto un donut ancora caldo. Il profumo del cioccolato appena fuso stimolò i miei recettori olfattivi facendomi venire un istantaneo languore. Mi avvinghiai come una scimmia all'addome di Nolan, accarezzandogli i capelli bruni fino ad arrestarmi quando la mia attenzione fu messa in allerta da una ferita ruvida sulla tempia. Passò poco che Nolan mi allontanasse, iniziando ad armeggiare silenzioso con la macchinetta da caffè.
«Cosa ti è successo?» Lo raggiunsi, fermandomi qualche centimetro dietro le sue spalle. Sembrava che la mia domanda non l'avesse riguardato affatto dal momento in cui nessuna risposta lasciò le sue labbra. Feci un cenno al biondo, che nel mentre cercava di assestare le mostrine sulla sua divisa.
«Stavamo facendo quattro passaggi di rugby al parco...», la sua voce giovane coprì il gorgoglio del caffé, «ma il tuo ragazzo è così alto e idiota da aver sbattuto contro un ramo. Sai, è un uomo di mille risorse, ma nello sport è proprio impedito. Credo abbia i muscoli atrofizzati».
«Io sono del parere che sia meglio avere più cervello che muscoli» intervenne Nolan alzando il tono, portando la tazzina fino alle labbra.
L'altro gli si avvicinò, rubandogli il caffè dalle mani e bevendolo come se fosse uno shot. «Il classico del professore che usa l'arma dell'intelligenza... che poi, il cervello non è un muscolo?»
Nolan si portò con disperazione una mano al petto. Sembrava aver perso quel velo di timore che fino a un istante prima annebbiava i suoi occhi. «Che castroneria dici, Aaron... mi stai facendo rivoltare gli organi».
D'altro canto, il biondo lasciò rapidamente la tazzina sul lavello, dirigendosi verso la porta d'ingresso. «Mi sa che non dovrò mai più parlare del corpo umano davanti a voi due», ci indicò mentre Nolan mi scoccava un casto bacio sulla fronte, dirigendosi a ruota verso l'uscita. Fu questione di pochi attimi che mi trovassi sola nella casa di un poliziotto praticamente sconosciuto che vive con il mio ragazzo praticamente poco conosciuto. Le mie strade avevano incrociato le sue quasi mezzo anno prima alla cerimonia di consegna dei diplomi, ergo non lo vidi fino a quando non lo trovai con la sua aria elegante a cavallo della cattedra di anatomia della mia università, poco meno di tre mesi prima. Nolan. Semplicemente Nolan Campbell, il professore che aveva prepotentemente rubato le chiavi del mio cuore, custodendole gelosamente. Ero consapevole ci fossero infinite cose del suo mondo che non sapevo. Ma quello che sapevo per certo era che avessi affidato la mia vita nelle sue mani.
Vagai per le stanze, cercando di non riflettere troppo. Per essere una casa abitata da uomini era parecchio in ordine, con l'arredamento in stile country così accogliente da farmi quasi sentire in una fiction. Era molto piccola, forse adibita a una o due sole persone, ma non sembrava che io avessi stravolto il loro equilibrio. Anzi, era come se la mia presenza li avesse in qualche modo completati. Salii silenziosamente le poche scale che conducevano alla camera dove avevo alloggiato quella notte, e gli unici suoni a farmi compagnia erano quelli sporadici di qualche auto e bambini in corsa che passavano per il viale. D'altro canto, la luce che veniva filtrata dalle persiane era abbondante e riempiva tutta la stanza, maniacalmente ordinata in ogni dettaglio. Fogli, penne e libri perfettamente impilati sulla superficie di legno di una scrivania che si trovava ai piedi del letto su cui avevo dormito e che di lì a poco mi avrebbe riaccolta. Poco a lato un piccolo armadio in tinta con la scrivania teneva le ante socchiuse. La curiosità mi balenò incontrollata per tutto il corpo e, prima che potessi accorgermene, mi trovai le mani a tastare indisturbate gli abiti di Nolan, maniacalmente ordinati per colore. Non ebbi modo di svuotare il mio guardaroba la sera prima, così avevo agguantato i primi capi che mi vennero per le mani, lanciandoli in una piccola borsa. Necessitavo disperatamente una doccia e un cambio, ma quando afferrai una delle tante t-shirt per indossarla come fosse un vestito, qualcosa tonfò sul pavimento facendomi sussultare. Passò poco che notai una piccola scatola di pelle marrone giacere tra i miei piedi. La scrutai per un tempo indefinito mentre mi chinavo a raccoglierla, dando inizio a una profonda lotta interiore. Avrei dovuto aprirla? La polvere che costellava la superficie era testimonianza del poco utilizzo di quel contenitore, la cui chiusura metallica d'argento lasciava presagire contenesse qualcosa di affettivamente prezioso. Fu la mia fazione istintiva a prevalere, facendomi trovare pochi istanti dopo una fotografia fra le dita. In bianco e nero era ritratto un uomo sulla quarantina, con gli occhi e i capelli visibilmente chiari. Abiti eleganti fasciavano il suo corpo slanciato, poggiato a cavallo di una moto antica parcheggiata davanti l'ampio ingresso di quella che sembrava essere un'industria. Entrambi i polpastrelli e i miei occhi perlustrarono la piccola foto per poi passare al retro, sulla cui carta versava indelebile una scritta.
"Perdonami per i miei sbagli.
Tuo padre, sedici ottobre duemilaquattro".
Mi presi un paio di legittimi minuti per elaborare quelle due righe scritte a mano e in corsivo, che sembra avessero un valore inestimabile. Il mistero che avvolgeva Nolan si faceva sempre più espanso, e fino a quel momento avevo solo conosciuto una microscopica parte del suo essere. Continuai nell'osservazione fino a quando il suono del chiavistello della porta d'ingresso mi destò dalla migliaia di pensieri che la testa frullava.
• • •
«Buon... risveglio, darling», sogghignai timidamente, nel vano tentativo di imitare il suo accento inglese. Il corpo caldo di Nolan era sdraiato immobile accanto al mio, con gli occhi pacificamente socchiusi e una mano ad avvolgere la mia. I miei polpastrelli liberi erano impegnati a vagare fra i suoi capelli mentre sembrava che da quel sonno non volesse mai più svegliarsi. Poca luce veniva filtrata dalla finestra, la quale sporgeva sulla strada che pian piano si stava spopolando. Le lancette brillanti dell'orologio perennemente al polso di Nolan segnavano le quattro: era pieno inverno, l'ora girava caratteristicamente più veloce e così anche le giornate, ombrose e gelide.
«Non puoi imitare il mio accento, darling» borbottò lui con voce assonnata e le palpebre ancora chiuse. Mi stupiva constatare quanto lo vedessi più bello ogni giorno che passava. Era come se fosse impossibile smettere di guardarlo, allo stesso modo con cui una falena viene attratta dalla luce o un magnete a un altro di segno opposto. Sospirò profondamente, poi gli occhi cerulei brillarono nella penombra della stanza. «Ti va di fare una passeggiata sulla neve?»
Passò poco che mi trovassi giù per le scale, diretta verso la porta d'ingresso che ne era perpendicolare. Davanti ad essa la figura di Nolan era eretta, coperta da un lungo cappotto monocromatico e con l'usuale espressione di pace marcata sul volto. Il suo avambraccio si mosse nella mia direzione, fermandosi pochi centimetri prima di toccare il mio. «Pronta, signorina?»
Passeggiammo silenziosi per le vie isolate del quartiere. Il sole aveva ormai abbracciato l'orizzonte da parecchio, lasciando il cielo del crepuscolo alla luna quasi piena. Ancora qualche ombra rosea del giorno aveva lasciato traccia in alto vicino le stelle. Il mio braccio era attanagliato protettivamente a quello di Nolan mentre seguivo i suoi passi flemmatici e cadenzati che ci avrebbero condotti a un'elevazione coperta dalla neve dicembrina. Fra di noi regnava un sano silenzio, accompagnato solo dal fruscio degli alberi e dal suono disturbante di qualche auto che di tanto in tanto passava per il quartiere. Non c'era niente di apparentemente bello in quello che stavamo facendo, ma fu quello l'istante in cui capii che forse era solo questione di saper ricercarlo. Non c'era nessuna magia in due ombre che passeggiavano isolate in un tardo pomeriggio dicembrino, ma c'era magia in due cuori che si bramavano appassionatamente e senza limiti. Nolan Campbell era il mio desiderio proibito, la più grande e struggente follia d'amore che il mio cuore avesse conosciuto.
«Stai riflettendo...» furono le sue parole bisbigliate a interrompere il flusso di pensieri che ormai perdurava da alcuni minuti.
Tenni il suo passo, continuando a fissare la strada che si apriva davanti ai miei occhi. «Sì» mugugnai.
«Spero che tu stia pensando cose belle, Amelia», afferrò la mia mano seppur mantenendo la medesima posizione in cui ci trovavamo prima, «lo spero sempre in realtà».
«Perché?»
Dopo la mia domanda Nolan si lasciò a un abissale sospiro per poi stringermi le dita fino a farmi percepire il loro calore. Lasciai che esse si intrecciassero mentre continuammo sui nostri passi fino a giungere alle pendici del fiume ghiacciato. I suoi occhi riflettevano il colore freddo della neve, completandosi nei miei vivamente bruni. «Perché odio terribilmente vederti soffrire nei tuoi pensieri, Amelia» disse, il suo tono così profondo da inabissarsi nella mia anima e farla tremare di percezioni. Era quello l'amore? Desiderare con tutti se stessi il meglio per la propria metà, anche se quello avrebbe condotto all'inferno.
Ero assorta nei pensieri quando a un tratto sentii la terra mancarmi sotto ai piedi.
«L'ho presa, signorina» si sforzò di asserire mentre trovavo le entrambe le gambe avvolte fra un suo braccio, l'altro posto dietro le mie spalle a sostenermi. La distanza che ci separava era così poca che le puente dei nostri nasi si sfiorarono delicatamente.
«Mi metta subito giù» Borbottai invano mentre le sue gambe iniziarono a compiere passi sul ghiaccio. Attanagliò le braccia, stringendomi sempre più contro il suo petto ampio, coperto da un lungo cappotto di lana scuro. Giurai non esistesse nessun altro luogo in cui avrei voluto essere se non fra le sue braccia, che avevano conquistato il titolo di casa. Le sue parole erano casa. I suoi gesti erano casa. Nolan era casa.
«Declino la proposta» si limitò ad asserire con il volto stampata l'espressione più imperturbabile che il contesto avesse permesso, «chiuda gli occhi».
«Per quel che ne so potrebbe anche uccidermi e...», mi zittii non appena le sue labbra umide si unirono alle mie.
«La ucciderò sicuramente», sospirò a qualche centimetro dalla mia bocca fervente, «di baci. Adesso chiuda gli occhi e si lasci guidare da me».
Sospirai profondamente, seguendo poi alla lettera le sue parole. Lasciai che il suo corpo trasportasse il mio per alcuni istanti, fino a quando l'abbraccio caldo a cui ero ormai abituata venne a mancare e le sue parole suadenti mi raggiunsero da alcuni passi di distanza. «Li riapra».
Il crepuscolo annuvolato diede mille sfumature di grigio, che si intrecciavano al colore ceruleo del cielo. Il ghiaccio brillava sotto i nostri piedi e gli alberi, spogli dalle foglie e coperti di neve, ci contornarono in un'area isolata del Charles River ghiacciato. Nolan si avvicinò di alcuni passi fino a sfiorarmi, porgendomi una mano e scatenando una serie di indecifrabili brividi che mi percorsero l'intera colonna vertebrale. «Le va di provare a pattinare?»
Sollecitata dalla proposta strinsi i suoi avambracci, iniziando a scivolare con la suola degli stivaletti sul ghiaccio liscio. Dire che sentii il cuore esplodermi nel petto fu dire poco. Era lui, era sempre stato lui ciò di cui mi resi conto di aver bisogno. La sua espressione fermamente concentrata nei movimenti da eseguire scatenò in me un sorriso che non riuscii più a cacciare via. Era così terribilmente negato da non riuscir neppure a camminare senza sostenersi a me con fatica, tanto che in un battito di ciglia mi trovai a terra sulle sue gambe. «È stata colpa tua», bisbigliò mentre silenziosamente lasciai che lui mi avvicinasse al suo petto in rapido movimento, «mi hai pestato i piedi».
Mi chiesi se esistesse qualcosa più magica di quell'istante, ma nessun pensiero converse nella mia mente seppur sforzandomi. Afferrai il cellulare dalla tasca pigiando sulla casella "random" della mia playlist, lasciando che la versione acustica di "Latch" risuonasse nell'ambiente incontaminato. Nolan mantenne la sua posizione seduta mentre le note del piano di Sam Smith mi accompagnavano in quella che era una sorta di danza sul ghiaccio. Mantenni l'equilibrio, pattinando e volteggiando a occhi chiusi sotto il tramonto scuro dicembrino fin quando sentii le sue dolci mani unirsi alle mie. Ballammo movimenti minimi quasi come fosse un valzer, percependo il suo battito uniformato al mio nonostante i pesanti cappotti che ci avvolgevano.
«Credo...» sospirò le parole calde e solleticanti sulle mie labbra, «credo di essermi perdutamente innamorato di lei, Amelia».
Le ultime note della canzone furono interrotte dal suono insistente e prolungato della mia suoneria. Mi allontanai di qualche passo da Nolan, che mi attese stranito ancora eretto sul ghiaccio. Poi sbuffando premetti sul tasto verde.
«Anne, dimmi».
«Amelia, sono la mamma. Devo parlarti».
Spazio autrice🌹
Che ne pensate della frase dietro la foto? Chissà cosa nasconderà mai il passato di Nolan... deliziatemi con le vostre teorie!
Ci vediamo al prossimo appuntamento
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top