16. Scoperte

"Not really sure how to feel about it
Something in the way you move
Makes me feel like I can't live without you
It takes me all the way
I want you to stay"
("Stay" - Rihanna)


Le ferite lentamente si rimarginavano. Erano passati alcuni giorni dalla violenza inaudita di mio padre e, a forza di antidolorifici e integratori di magnesio, riuscivo ormai ad alzarmi e passeggiare per la casa in piena autonomia. Non vedevo Nolan dal giorno in cui si intrufolò in casa mia, e gli unici messaggi sporadici che avevo ricevuto dal suo contatto erano pressoché scuse per la sua assenza. Feci spontaneamente spallucce mentre la sua mancanza mi abbatteva sempre di più. Mi mancavano le sue carezze dolci, i suoi respiri ritmati e flebili. Mi mancavano come l'aria i suoi abbracci protettivi, che mi facevano sentire nel posto più sicuro al mondo. Semplicemente, mi mancava Nolan Campbell.

Scesi in cucina, dove trovai mia madre seduta solitaria a tavola. «Buongiorno, principessa» esordì sulla difensiva mentre con uno scatto fulmineo mise giù il telefono.
La scrutai con sospetto. «Con chi parlavi?»
«Un'amica, tesoro. Con chi dovrei parlare?»

A volte non mi rendevo conto delle paranoie che la mia stessa mente elaborava. Rimasi immobile alcuni secondi per poi fare spallucce e rovistare negli scaffali alla ricerca di una bustina di té.
«So che non vuoi saperne nulla», le sue parole rimbombarono nella stanza, sapendo già la piega che avrebbero preso, «però credo che un giorno dovremo affrontare questa situazione faccia-»
«Concordo con la prima parte della frase» la interruppi prima che potesse nominarlo, e di riflesso si limitò a sospirare e annuire.

«Dov'è la tazza londinese?» Sbuffai a mia madre, di nuovo concentrata ad armeggiare con il suo cellulare. L'avevo comprata come souvenir alcuni anni prima, proprio sotto il famosissimo London Eye. Era rossa con in rilievo alcune delle tipicità della Big Smoke, come le cabine telefoniche, il logo "Underground" e le guardie reali. Avevo ripreso a usarla da quando l'accento britannico di un certo professore mi aveva rapita, facendomi misteriosamente appassionare al Regno Unito.

«Oh, si è rotta per sbaglio» non perse neanche una frazione di secondo per rispondere, con una finta convinzione che mi fece digrignare i denti e incamminare verso il mio punto zero. Stava per arrivare il Natale e, come ogni anno, avevo addobbato la mia stanza con luci e gingilli di tutti i gusti.

«Sta nevicando!» Anne spalancò la porta della mia camera, facendomi sobbalzare. D'istinto mi affacciai alla finestra, osservando i piccoli fiocchi bianchi cadere sul davanzale. «Sai cosa sto pensando, vero Biancaneve?»
«Ti sopporto da quasi due decenni, ovvio che lo so. E smettila di chiamarmi così!»
«Biancaneve e il principe azzurro nel bosco» il suo ghigno sardonico mi fece andare su di giri all'istante «ci sta a pennello».

«Ti odio!» Senza pensarci le scagliai addosso il primo oggetto che mi venne per le mani che, per mia sfortuna, lei schivò con agilità, lasciandolo colpire e frantumare la mia renna di ceramica. «Ti odio doppiamente!» Le inveì contro mentre beffarda si affrettava ormai a uscire dalla stanza. Contemplai la mia povera renna, regalatami quando ero una bambina dagli zii Tessa e Scott. Raccolsi i pezzi in un sacchetto, per poi pigiare l'interruttore delle luci natalizie. All'istante una magia di colori si mescolò con il chiarore tenue del cielo annuvolato mentre le note del piano di Rihanna e la sua stessa voce mi fecero immergere in una dimensione di pace.

Per sostituire la renna mancante mi munì di scala e torcia per poi arrampicarmi su per la botola che conduceva al solaio. Nonostante fosse molto polveroso, quel luogo claustrofobico era sempre stato il mio rifugio. L'odore di chiuso mi riportò alla nostalgica sensazione dei pigiama party in cui io e Anne ci dilettavamo da bambine. Scorsi i polpastrelli sulle nostre iniziali sbieche incise nelle travi di legno del tetto spiovente.

Mi misi sulle ginocchia, farfugliando tra gli scatoloni alla ricerca di un nuovo soprammobile fin quando tastai qualcosa di morbido. Ad apparire misteriosamente sul parquet era la mia coperta di pile. Borbottai qualche lamentela nei confronti di mia madre che, a causa della sua ossessione per l'ordine, faceva piazza pulita di ogni cosa le venisse davanti ai piedi. Fu appena sollevai la coperta per metterla sulle spalle che qualcosa si spostò rumorosamente. Sussultai, notando all'istante si trattasse di un libro che abitava la libreria di casa. 1984 di George Orwell. Cosa ci faceva lì? Anche in quel caso scrollai il capo stranita, prendendolo tra le braccia. Continuai a rovistare invano per tutto il soppalco fin quando - per l'ennesima e ultima volta - sobbalzai urtando altri oggetti. Fu la volta della mia tazza londinese, di un piatto sporco e di alcune posate.

Un flash. Un fulmine a ciel sereno. Un impeto violento. Come se mi bruciasse, lanciai lontano il libro che tenevo fra le braccia. Il libro che lui stava leggendo. Non riuscii a raccapezzarmi. Il miscuglio di sensazioni negative agiva peggio di una droga mentre, ignorando il leggero indolenzimento che ancora era insidiato lungo la schiena, scesi di gran carriera a cercare il cellulare di mia madre. Afferrai il dispositivo ancora sul divano, aprendo a malincuore il registro degli ultimi SMS.

"Scendi, Elias. Sta dormendo".
"Cosa vuoi per cena?"
"Vedrai che le passerà. È ancora una ragazzina immatura".

Bastò la lettura di quei pochi testi affinché una vertigine mi imponesse di stendermi sul divano. Ero più delusa dal comportamento falso di mia madre, o dallo strano senso di violazione dovuto al fatto di aver sempre avuto mio padre a due passi da me? Le lacrime mi rigarono il volto mentre mi rannicchiavo sul sofà. Stavo tremando, e i nervi a fior di pelle non mi permettevano di aprire bocca né di riflettere su cosa fare.

«Amelia, che diavolo succede?» Anne si precipitò verso di me, per poi chiamare nostra madre dall'altra stanza. Il suono cadenzato di ciabatte iniziò a echeggiare dentro le orecchie fino a svuotarmi il petto. Con ancora l'accappatoio addosso scese le scale per poi avvicinarsi preoccupata.

Strinsi in una morsa la mano di Anne, a volerle far capire di stare in assoluto silenzio mentre con l'altra - in un movimento fulmineo - scaraventai il cellulare addosso a mia madre.

«Amelia!» mi rimproverò non appena il cellulare toccò il suo corpo e poi il pavimento.
«Amelia un cazzo!» Sputai le parole con rabbia, quasi a volermi liberare da quel veleno che mi stava per soffocare, «Una vera madre non copre il marito violento».

Anne scrutava incredula. «Non ho capito, Amelia. Potresti spiegarmi di cosa stai parlando?»
«Vuoi davvero saperlo, sorella? La nostra cara mamma ha coperto quello stronzo di nostro padre, che per tutto il tempo ha vissuto nel solaio».
Gli occhi cristallini di Anne si coprirono con un velo di odio. «Dimmi che è una bugia», si rivolse amareggiata verso Selene, ormai in trappola.

«Non potevo lasciare che...»
Non finì la frase che fu interrotta da un suono metallico. Il chiavistello della porta d'ingresso ruotò due volte.

Spesso ci si vanta di essere coraggiosi. È un dato oggettivo, per la mente umana coraggio equivale a forza, al potere di fare qualsiasi cosa senza indugio e a testa alta. Spesso però, ci si attribuisce impropriamente questo attributo. Uomini che non sono coraggiosi dicono di esserlo, fra cui la sottoscritta. La triste verità era non credevo di essere così fragile.

Che la guerra abbia inizio, pensai.





Spazio autrice🌹
Buone feste a tutti miei cari lettori!🎄
Un bell'abbraccio!❤️

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