1. Diploma
"You can do anything
Look up, call to the sky"
(Angel By The Wings - Sia)
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Il diploma di mia sorella Anne rievocò la mia adolescenza: con malinconia ricordai il primo giorno di scuola, la prima cotta, il primo compito in classe, le prime vere amicizie, le prime delusioni. Quattro anni di liceo volati in un soffio, conclusi con il voto massimo e subito l'accesso alla facoltà di Medicina dell'Università di Harvard. Fin da quando ne ebbi memoria, provai un'irrefrenabile attrazione per il sapere, che mi spinse ogni giorno a dare il massimo per raggiungere il sogno di diventare un grande medico, come mio padre: il dottor Elias Moir, il primo neurochirurgo al mondo a effettuare un trapianto di cervello.
Da lui ereditai l'intero corredo genetico: i piccoli occhi color cioccolato che sotto i raggi solari si schiarivano assumendo una tonalità miele, i lunghi capelli bruni con naturali riflessi bronzei che si sposavano alla perfezione con la carnagione ambrata. Sostanzialmente ero la sua fotocopia al femminile, tanto da aver suscitato spesso degli sguardi increduli nelle persone che ci osservavano l'uno accanto all'altro; credetti sempre che il meccanismo di ricombinazione del DNA non avesse funzionato appieno nel nostro caso. Stessa cosa non si poteva dire di Anne, mia sorella minore, che aveva ereditato ogni gene da parte di madre.
Eravamo una bella famiglia, non nego un po' cliché, ma unita e pronta a combattere con le unghie e con i denti l'uno per l'altro. Tuttavia, nonostante l'amorevole rapporto c'era qualcosa che, in effetti, perturbava la perfezione e si dia il caso fosse il mio status sociale. Sono cresciuta nella tipica e stereotipata famiglia benestante, una di quelle da stipendio annuo di cinquecentomila dollari nelle quali la stragrande maggioranza delle persone sognava di viverci. Tra le quali non c'ero io.
La verità era che io odiavo profondamente essere la figlia del neurologo e della senatrice, quella ragazza a cui ogni cosa era dovuta e il cui nome precedeva tutto. La ragazza che non poteva discostarsi dalla linea della perfezione per l'impressione che avrebbe dato agli occhi della gente. Odiavo tutto ciò, ma al contempo non desideravo considerarmi un'indole ribelle, perché in fondo non lo ero. Lasciavo prevalere l'uso della ragione, ma sapevo che in fondo al mio cuore si nascondesse un tumulto di emozioni che attendevano impazienti di essere liberate.
Desideravo vivere qualche avventura in più. Qualsiasi tipo di avventura che mi potesse far allontanare dalla razionalità che zampillava dalle mie giornate. Desideravo sentirmi un po' folle. Percepire i brividi prendere vita sulla mia pelle, quei stessi brividi che fanno accelerare i battiti del cuore a più non posso e che fanno sentire ogni granello di vita scorrere all'interno delle proprie vene.
Desideravo tanto vivere di più.
E si dà il caso che questo desiderio non tardò a essere esaudito.
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«Sono molto nervosa, Amelia» confessò inquieta Anne non appena girai la chiave all'interno del blocchetto. Il motore dell'auto si spense davanti al cortile fiorito della scuola. Respirai a pieni polmoni il tipico profumo di primavera.
«Questo è il momento più emozionante di tutto il percorso di studi... goditelo fino in fondo». Attesi che il suo sguardo ceruleo mi desse un segno di convinzione, poi le lasciai un rapido bacio sulla tempia mentre insieme ci incamminavamo verso l'ingresso della Charlestown High School, adornata di striscioni colorati per la cerimonia di consegna dei diplomi. Così era anche la grande aula teatro dell'edificio, che di lì a breve avrebbe accolto tutti i Senior appena diplomati. Sul palco si destreggiavano un paio di assistenti, che apportavano gli ultimi ritocchi al tavolo dietro al quale stavano prendendo posto decine di professori. La platea era ormai gremita di gente, amici e genitori, armati di cellulari e in trepidante attesa dell'inizio della consegna dei diplomi.
«E adesso è giunto il momento del discorso da parte di tutti gli studenti» il presidente del consiglio studentesco attirò a sé tutti gli occhi della sala, dopo un breve errore acustico, «accogliamo sul palco la neodiplomata Anne Marie Moir!»
Anne era seduta al mio fianco, fra le prime file. I nostri sguardi di complicità si incrociarono mentre lei si apprestava a incamminarsi verso il palco. Ancorai le pupille su di lei: ero terribilmente estasiata di mia sorella, della piccola donna che era diventata. I capelli di un colore biondo miele sciolti sulle spalle, con due ciocche raccolte dietro la nuca; il vestito di una tonalità acquamarina che richiamava l'inspiegabile colore dei suoi occhi: a circondare la pupilla vi era un alone bruno, che si espandeva in una sfumatura di verde nell'area ciliare fino a formare un anello olivastro. Non compresi mai appieno da chi li avesse ereditati, sebbene mio padre sostenesse fossero uguali a quelli di nostro nonno.
«Buongiorno a tutti. Dire che sono emozionata è dire poco...» la sua voce iniziò a propagarsi lungo i miei timpani, che quel discorso lo avevano ormai sentito e risentito durante le innumerevoli prove che, da sorella maggiore, ero stata costretta a subire. Assorta nei miei pensieri, i miei occhi vagavano con attenzione sulla schiera di insegnanti seduti dietro il lungo tavolo di ebano al centro del palco. Sospirai, rievocando una marasma di sensazioni nostalgiche: quella scuola era stata il luogo dove anch'io avevo trascorso quattro anni della mia adolescenza. Catturarono subito il mio sguardo i caratteristici occhiali da sole stile aviator indossati perennemente da Mrs Daisy. Al suo fianco riconobbi Mrs Rose, la mia professoressa di storia: sebbene ci fosse qualche capello bianco in più fra il suo caschetto castano, il sorriso smagliante non era stato afflitto dal tempo. Poi fu il turno di Mr Linus, il docente di letteratura che, per i suoi modi da gentiluomo, sembrava essere sfornato direttamente dall'ottocento. Anch'egli non era cambiato, anzi, il trascorrere del tempo fu capace di accentuare quella fisionomia che già anni prima era stata in grado di farmi beccare una piccola cotta nei suoi confronti.
E al suo fianco, seduto all'ultimo posto in fondo al tavolo, fu lì che i miei occhi si ancorarono per un tempo indefinito, facendomi perdere la cognizione dei sensi: un professore tremendamente giovane e tremendamente affascinante. I capelli mossi - di una tonalità indecifrabile fra il nocciola e il biondo scuro - gli cadevano un po' sulla fronte, permettendomi di stimare la sua età sulla soglia dei trent'anni. Nonostante la distanza di un paio di metri che intercorreva fra me e lui, notai la sua fisionomia aggraziata e fuori dalla norma. Sul volto campeggiava un'espressione al contempo seria e rilassata. A dargli eleganza era la classica camicia di colore bianco che portava, dal cui colletto particolarmente disordinato pendeva una cravatta grigio sporco. Le spalle erano rivolte verso il centro del palco ad ascoltare il discorso di mia sorella. Poi, il mio sguardo percorse tutta la lunghezza del braccio sinistro posato sul maestoso tavolo a specchio, fino ad arrivare alla mano che stringeva una penna stilografica; i polsini della camicia avevano due svolte, che mi permisero di scorgere un elegante orologio.
Fu appena sollevai lo sguardo che mi resi conto di aver instaurato un contatto visivo con lui, che mi scrutava con la medesima attenzione che gli avevo dedicato. Poi, dopo un periodo di tempo indefinito, un sonoro applauso riuscì a riportarmi alla realtà. La cerimonia si era appena conclusa e chiunque nella platea lascio i propri posti.
«Cosa guardavi?» Seduto al mio fianco, mio padre mi interrogò con un tono particolarmente inquisitorio. La sua espressione era tesa e in allerta, come se qualcosa lo avesse perturbato. Mi alzai e lui copiò di riflesso la mia azione. Stranita mi limitai a scuotere la testa in segno di dissenso, fin quando Anne si piantò davanti a noi.
«Come sono andata?»
«B-bene, Anne. Bene», asserii mentre il mio sguardo vagava fra la folla, che piano si anteponeva fra me e il palco, ostruendo la visuale.
«Ehi, imbranata! Sono qui» punteggiò Anne sventolando una mano davanti ai miei occhi, «chi diavolo stai cercando?»
«Nessuno, Anne» volsi lo sguardo su di lei, «andiamo a bere qualcosa».
La folla si era concentrata nella sala spettacoli della scuola, dove una hostess serviva drink dietro un bancone. Presi un leggero alcolico, scansando la calca di studenti e parenti che gremivano la stanza. Odiavo i suoni, il caos, il tran tran di gente che mi opprimeva. Parecchie erano state le persone a fermarmi per un saluto, e il troppo rumore mi fece bramare la tranquillità a cui sempre ero stata abituata, così lasciai l'aula.
Bevvi il drink leggermente frizzante poco a poco, tenendo il bicchiere in mano mentre passeggiavo per i corridoi silenziosi della scuola, rammentando i miei ricordi da liceale. Mi fermai davanti alla vetrina, che raccoglieva di anno in anno i premi sportivi conquistati dagli studenti atleti. C'era il nome di Anne nella lista di cheerleaders, coppe, medaglie, foto di ogni genere. Persino mio padre spiccava tra i trofei, raffigurato in sella insieme a un ragazzo su una foto di vecchia data. Si trattava della finale di equitazione di trent'anni prima, vinta dai due nomi incisi sulla targhetta sottostante.
«Cosa stai guardando?» Anne mi fece trasalire spuntandomi dietro come un fungo. Sentivo i battiti pulsare fastidiosamente nelle tempie.
«Mi hai spaventata!»
«Sembri strana da quando eravamo in sala, stai bene?»
«Sì, ho solo mal di testa e voglio tornare a casa», minimizzai.
«La cerimonia è finita, puoi dire a papà che vado con gli altri a festeggiare in città? E dopo ci sarà un party a casa di Sofia, quindi...».
«Sì, Anne...», infilai la mano in tasca, porgendole le chiavi della mia auto.
«Sei la migliore sorella di questo mondo!»
Mi limitai ad annuire mentre lei era già sparita dietro l'angolo più vicino. Anne non era come me. Aveva una vita sociale, un esercito di amici e una lista di feste a cui andare. Non ero gelosa di lei, non lo ero mai stata e mai sarei potuta esserlo. Ma forse invidiavo un po' il suo carattere fervente, che le dava il coraggio di affrontare i nostri genitori e mettere in chiaro i suoi punti di vista. Voleva andare in discoteca? Sarebbe scesa a un compromesso, ma avrebbe ottenuto la serata in discoteca. Io ero il totale opposto: già solo il pensiero di chiedere il permesso mi causava notti insonni, allora soccombevo con solo un migliore amico e una lista di libri da leggere e studiare.
Vagai per le varie aule cercando mio padre e, dopo qualche minuto, finalmente intravidi la sua figura in fondo a un corridoio a gesticolare contro un'altra della sua stessa stazza. Spazientita, mi incamminai a passo svelto verso la loro direzione - battendo i tacchi per marcare la mia presenza - ma non feci neanche dieci passi che mi trovai a faccia in giù sul freddo pavimento di marmo della scuola. Passò poco che le mani grandi di mio padre mi afferrarono per le braccia, aiutandomi a sollevarmi da terra. E fu in quel momento che ancorai il mio sguardo su un lungo paio di scarpe inglesi al suo fianco, poi verso l'alto su un completo nero, poi su una cravatta grigio sporco, poi su una fisionomia che non mi era affatto sconosciuta. Gli occhi chiari di quel professore mi fulminarono, e l'unica cosa che bramavo era sotterrarmi dall'imbarazzo per essere caduta come una pera davanti a quell'uomo.
Fu la voce brusca di mio padre a svegliarmi dallo stato di trance in cui ero piombata, come se si fosse alzato tutto d'un tratto il volume all'interno delle mie orecchie.
«Amelia!»
«S-sì s-sto... bene» risposi frastornata, non tanto dalla caduta bensì dallo sguardo ammaliante di quel giovane.
«Ascoltami bene», mi prese la mano e la strinse attorno alle chiavi dell'auto, «ho un'urgenza di primo livello in pronto soccorso e devo scappare, ma tu prendi queste chiavi e torna immediatamente a casa, hai capito?»
Mi indusse ad annuire sebbene non avessi capito affatto. Poi, prima di voltare le spalle e uscire dall'edificio, la figura possente di mio padre si apprestò a dare un ordine anche al giovane professore che, al mio contrario, sembrava disinvolto e pienamente sicuro di sé.
«Perché...», con un senso sempre più forte di debolezza volsi gli occhi su di lui, «mio padre ti ha detto di sparire e non seguirmi?»
Fece un lento passo avanti, dimezzando la distanza che intercorreva tra noi.
«Perché secondo tuo padre io sono una cattiva persona».
La sua voce era così profonda che dimenticai come respirare per un istante. Sentii la sensazione amara della vergogna che dalla testa scese fino ai piedi, poi un brivido di freddo.
«E... mio padre ha ragione?»
Percepii solo la pressione crollare, il battito accelerare, i suoni che iniziarono a sentirsi lontani e gli occhi che involontariamente si chiusero.
Il buio.
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