Intro: Giacinto Zefiro e Cleomaco

Quando si ascolta una storia si ha sempre la tendenza a credere alla prima versione dei fatti che ci è rivelata. In fondo occorrerebbe appena un po' di ragione per rendersi conto del grave errore che si commette. Chi racconta una vicenda ha sempre una sua motivazione e ciò che rielabora è interpretato e interpretabile da molteplici bocche in molteplici modi. Occorre quindi non farsi suggestionare troppo. Ma cosa può saperne una divinità come me del ragionamento scientifico, fermo restando che per esso non dovrei nemmeno esistere? Ci sono molte cose che la scienza non vede, specialmente quelle che per sua propria cecità ha escluso facendole passare per infantili fantasie di chi, poco istruito o poco realista, non può fare a meno di ingannarsi con la conseguenza di non vivere appieno, ma che cosa avrà da sentire questo realista in più degli altri? La falsa verità inganna gli uomini di scienza tra la comodità della loro mente e niente sanno che non sia calcolato e verificabile. In sostanza se anche vedessero passare un drago di fronte a loro non lo vedrebbero, e ciò in fondo non fa che garantirmi, o meglio garantirci, una forma di anonimato. Al massimo lo farebbero passare per un travestimento o per un carro dei periodi di festa: certo, a patto che il drago non li arrostisca, ma allora sarebbe troppo tardi per ammettere di aver sbagliato. In ogni caso la mia storia, o meglio quella che vi voglio raccontare, inizia così...

Io, Zefiro, sono la brezza primaverile, il figlio del titano Astreo e della dea Eos, dell'Alba e delle Stelle. La mitologia greca si ricorda di me per alcune vicende, ma, lasciatemelo dire, il poeta ispirato dalla musa ha fuorviato il suo messaggio e così a volte gli dei. Ricorderete di certo Giacinto, il principe spartano che ha avuto la disgrazia di divenire il favorito di Apollo. Anch'io ho spasimato per lui, ma cosa mai può fare una brezza primaverile contro il potere del sole? Pure un evento c'è stato, quel blasfemo giavellotto che ha osato colpire mortalmente la ricciuta chioma del bel Giacinto. Apollo mi ha trovato subito ed avrebbe voluto uccidermi non fosse che sono divino anch'io, e così mi ha trascinato da Zeus e là ho atteso che le lacrime del suo ennesimo figlio si evaporassero, per essere poi giudicato per averlo così oltraggiato durante il suo sport amatorio preferito.

Nessuno ha notato il mio pianto solitario per quel ragazzo così dolce e sincero, così teneramente ingenuo ed amabile. Non si è reso conto che Apollo non lo amava più di qualunque altro amante avesse mai avuto. Non ti accorgevi, o scattante fanciullo, che quel sole così cocente poteva farsi avvicinare da te solo per tramite mio? Ora sei morto, orrido pasto per le fiamme della pira. Un ultimo lucore ti ha avvolto tutto, quell'ultimo amplesso di Apollo. Incenerito come Semele ti rechi nell'Ade ad allietare quelle caliginose vastità di caverna, dimentico di me, dimentico di lui, dimentico perfino di te stesso. Il poeta ricorda senza sentire davvero, il dio passa ad una nuova fiamma accendendola fino ad estinguerla, e la brezza spira con il massimo di intensità che le è consentito, pur volendo gridare più dello strazio dell'amante divino. Concluso tutto questo ecco che tocca a me fare la mia parte. Apollo non è venuto nemmeno ad accusarmi, anzi ha già riferito tutto al padre nel momento in cui mi ha portato nelle prigioni dell'Olimpo. Il fatto è che in quel frangente mi ostinavo con foga a ribadire che, se anche ero presente, non avevo commesso l'omicidio, non avrei potuto neanche arrivare a pensarlo. Certo infuriavo di invidia per ciò che Giacinto offriva al dio trascurandomi completamente, pure sapevo che contro una divinità di un simile calibro non è possibile nulla. L'ho detto nuovamente anche a Zeus, ma sono rimasto inascoltato perché egli è riuscito perfino a trovare dei testimoni che confermassero ciò che Apollo ha creduto di aver visto. Per dire quanto ingiustamente sono stato accusato, sono perfino giunti i miei più anziani fratelli venti, Noto e Borea. Il primo è signore dei tempestosi venti dell'estate, mentre l'altro è il sovrano di quelli del nord che portano l'inverno. Da sempre fra noi non corre buon vento ed anzi per il solo fatto di essere una brezza così inutile, a detta loro, sono un incapace. Credo in effetti mi invidino qualcosa di cui però io non so. A conti fatti ho capito allora che sono stati loro a fare il misfatto, e tutto per liberarsi di me. Sono degli dei troppo antichi per rendersi conto del valore che può comunque avere la vita di un umano. Per farmi un meschino gioco hanno dato all'Ade un animo così gentile... Loro hanno detto di avermi visto chiaramente compiere quell'atto così tracotante nei confronti di Apollo e che anzi già diversi giorni prima mi avevano ammonito sul fatto di lasciare al dio i suoi amori. Chiaramente bisogna ammettere che Zeus non ha avuto molta voglia di protrarre a lungo una tale questione, probabilmente per inseguire a sua volta qualche nuova preda amorosa, e così mi ha ritenuto colpevole seduta stante, completamente disinteressato a quello che io gridavo perché sapevo che le sue punizioni potevano essere atroci perfino per un essere immortale. In realtà, per quella che ritengo un'ulteriore vendetta, sono stato punito con una sanzione che è già stata praticata ai tempi dallo stesso Apollo, quando ha servito per nove anni Admeto fingendosi un mortale e subendo qualunque richiesta egli voleva. Mi ha mandato in un posto abitato da quelli che lui ha definito "romani" di cui io mai ho sentito parlare. Pure ricordavo esserci un luogo, in una penisola antistante la Grecia, in cui mi chiamavano Favonio. La differenza sta nel fatto che sono stato mandato là, avendo cercato di ostacolare l'attività di una divinità ben più importante di me, fino a data da destinarsi. Il che voleva dire che sarei stato mortale per sempre pur non essendolo davvero. Ho tentato allora di accampare come scusa il mio dovere di divinità minore che porta la brezza primaverile quando è il momento. Seccamente Zeus mi ha detto che di certo quel compito lo avrei mantenuto, ma che per il resto dell'anno sarei stato al più completo servizio di un certo Cleomaco, il quale sembra avergli prestato un egregio favore in passato. Detto ciò non ho saputo più ribattere a quello sguardo così ferale, sconfitto e punito per qualcosa che non ho fatto, portando con me il rimpianto per Giacinto. I miei fratelli venti se ne sono andati ridendo ed io, costretto ad indossare un cencio, sono stato scagliato direttamente giù dall'Olimpo proprio davanti alle porte del mio nuovo padrone.

Nell'estate del 126 a.C., a vent'anni dalla conquista della Grecia, una stella cadente (che sarei io) solca il cielo dell'Italia e si schianta a Cordinium, ma procediamo con ordine. Cleomaco amava sempre ripetere che, se anche nella guerra i pragmatici romani avevano avuto la meglio su di loro, la vittoria era comunque dei greci e della loro cultura, che aveva contribuito ad ingentilire la vita della Roma repubblicana. Inoltre quella vittoria era anche di Cleomaco, lui, un erudito bottino di conquista, un filosofo divenuto un servo che con la sua pacata irreprensibilità aveva destato l'interesse di molti senatori, spingendoli a contenderselo assieme ai suoi degni ed orgogliosi compagni. Egli è divenuto insomma un precettore per i rampolli della classe senatoria, nonché per i loro illustri genitori, ugualmente appassionandoli dei suoi costumi che, uniti ad una predisposizione di certo affine, fecero sbocciare la societas romana. Nel 136 a.C. Cleomaco è reso un liberto grazie ai suoi servigi ed è pure abbastanza agiato da permettersi di scegliere il proprio destino. Beh, arricchito sì, ma non sufficientemente per tornarsene in Grecia. Così, costretto a cambiare i suoi piani, opta per una regione più a Nord di Roma, nell'Italia Settentrionale, una nuova colonia: Cordinium. La sua erudizione non basta però per renderlo autosufficiente e così erige un ostello per viaggiatori assieme a Dafne, la sua figlia adottiva. Egli è catturato ventenne, liberto a trenta ed oste completo a quaranta; questo il momento in cui il nostro incontro giunge a sconvolgerci letteralmente la vita. Il mio unico rammarico è non essermene accorto prima, non averlo notato, avremmo avuto molto più tempo da vivere insieme. Di nuovo mi ritrovo a divagare...

La gentilezza di Zeus è stata tale da rendermi una torcia vivente durante quella caduta e del rovinoso impatto non ricordo nulla, così come delle braccia di Cleomaco che mi sollevano per portarmi all'interno della sua dimora. Temevo allora di incappare in un uomo violento, senza remore e morale, invece abbiamo provato un'incredibile intesa fin da subito e... ho capito di essere stato davvero fortunato: c'è stato tra noi non solo amore, ma amore reciproco, empatico, colmato da estremo valore e dignità. La differenza d'età non è mai stata per me un problema, sono pur sempre un dio sempiterno con l'aspetto di un ventenne, e questo gliel'ho detto, col risultato di farlo sorridere e finire a dire che allora era lui il bambino tra i due. Com'è accaduto che lui ha scoperto di me? E' molto semplice... Zeus gli è apparso in sogno e semplicemente gli ha detto la verità: che sono un dio, sono Zefiro e se vuole sono suo perché lui non sa che farsene di un ribelle come me. Neanche fossi un maledetto oggetto! Cleomaco ha voluto sapere la mia storia e quando gliel'ho riferita mi ha detto stranamente di conoscerla già, è un mito molto antico e non è riuscito a capire perché Zeus mi punisca ora dopo così tanto tempo. Non lo so, per me sembra stato ieri, ma a sentir lui erano passati secoli, se non millenni.

I primi tempi è stato difficile perfino parlarsi, io sapevo un greco molto antico, lui un po' meno, ma ero comunque in un paese a lingua latina che mi era impossibile da comprendere, almeno finché Cleomaco non me l'ha insegnato. In effetti devo molto a lui, più di quanto si immagini. Un giorno Cleomaco mi ha detto anche la storia del suo nome, lo stesso di un guerriero dell'antichità greca il quale, trovandosi a lottare insieme al suo giovane innamorato, ha combattuto strenuamente al suo fianco e sono morti entrambi, insieme ottenendo però la vittoria, tanto che i greci hanno scritto dei versi sul suo valore, contribuendo anche alla diffusione di rapporti e coppie dello stesso genere, considerati estremamente onorevoli e quindi rispettati con pari dignità. Mi ha detto che in fondo si sentiva più che onorato di condividere con me una storia che se non era simile, comunque ci andava molto vicina. Questi erano i versi di un poema riferiti a quel primo Cleomaco: "O voi ragazzi di grazia e destati da un'azione onorevole, / Non provate rancore per l'uomo di coraggio che conversa sulla vostra bellezza: / Nelle città della Calcide, l'amore, colui che scioglie le membra, / Prospera fianco a fianco al coraggio"

Bellezza... Io beh, non sono così narcisista come Apollo, quindi non posso dire se io lo sia o meno. Di certo posso giudicare Cleomaco. La sua pelle è molto olivastra, il suo viso è a cuore con una fronte solcata da rughe di espressione, unita ad un naso ampio, sopracciglia regolari, occhi neri come le tempeste più cupe ed infine labbra piccole e carnose, incorniciate da baffi esili, barba curata molto corta ed un mento appena retratto al centro. L'espressione è giovanile, lo sguardo è profondo ed acuto e tutto di lui denota una certa grazia, unita però ad una tempra virile, a mani ben salde e robuste. I suoi capelli sono ispidi, scuri, ricciuti fitti fitti ed infine le orecchie sono sporgenti, motivo per lui causa di un certo imbarazzo. Le sue spalle non sono molto ampie ed anzi in lui c'è una certa esilità, equilibrata però da mani robuste e scolpite, da polpacci possenti e presenza di un certo magnetismo. Sempre ha in mano uno o più rotoli di pergamena o papiro, con nuove poesie a me dedicate che io ho sempre apprezzato molto, essendone contemporaneamente deliziato e imbarazzatissimo. Puntualmente le trascrivo tutte e la loro leggerezza, compostezza, semplicità ed innocenza mi sono ogni volta motivo di innamoramento, pur essendo passati più di duemila anni dalla sua morte.

Ritratto di Terenzio Neo, I secolo, Pompei, Casa di Terenzio Neo

Come? Il mio aspetto? Ah, sono tutto in disordine! Datemi il tempo di prepararmi e forse... fra qualche capitolo... chissà.

Sono stati degli splendidi quarant'anni vissuti assieme, talmente spensierati e colmi di amore erudito che mi sono illuso avremmo avuto l'eternità tutta per noi. Ciò che subito è stato per me causa di sconfinato amore, mi si è rivelato interamente col tempo, man mano che sono entrato in confidenza con il suo animo pius quanto Enea. Tutti coloro che erano incompresi, ed io uno di loro, gli erano del tutto affini, cosiccome era stato per sua figlia Dafne, adottata per renderla libera quando era stato concesso a lui lo stesso. Cleomaco è sempre stato insomma prodigo nell'aiutare chiunque avesse bisogno, ospitando perfino a sue spese chi non avrebbe potuto permetterselo. Non crediate che il suo ostello sia stato una cosa da nulla, anzi è stato uno dei più ricchi ed interessanti del territorio, dove sono state allietate figure di alto rango tra simposi eruditi, feste colme di musica e spettacoli teatrali oppure agoni poetici. Cleomaco ha utilizzato sempre la sua innata empatia nel mettere a proprio agio i suoi ospiti, studiandoli attentamente per pochi minuti, il tempo di registrarli prima di mostrare loro il proprio alloggio. Il segreto del suo successo risiede davvero in questo, che è anche ciò che ha insegnato a me e Dafne. Replicare metodicamente le sue azioni me lo fa sentire ancora oggi vicino ed è in fondo per me un rituale che sempre fa rivivere il nostro amore... Eppure ai tempi lieti se ne sono succeduti degli altri e solo allora ho davvero compreso il segreto degli uomini, più di quanto non abbia potuto fare con Giacinto.

Il nome dell'ostello? Rosae Aureae, Alla rosa d'oro. Di fatto è la Domus padronale di Cleomaco che si è costruito nel tempo, in quei cinque anni prima del mio arrivo. Ogni stanza è affrescata con lo stile più ricco, con figure del tutto naturali, scene mitologiche e marmi, mentre i pavimenti sono mosaicati a motivi vegetali. È un edificio a due piani dall'ampio atrium centrale su cui si affacciano tutti gli ambienti principali quali il tablinum (un luogo di registrazione degli ospiti e ristoro), i tre triclinia (le sale da pranzo), l'hortus sul retro dalle piante aromatiche, le terme, la biblioteca, il bacino centrale di raccolta delle acque piovane. Infine il secondo livello è per metà la nostra dimora e l'altra metà è composta dai cubiculi (camere da letto) degli ospiti. Ovviamente c'è anche una stalla per i viaggiatori a cavallo.

Insomma nulla è mai mancato ai nostri ospiti e nulla ci è mai stato criticato ed io, devo dirlo, ho imparato a fare di tutto senza scandalizzarmi tanto su ciò che può o non può fare un dio. Sono diventato quindi un tuttofare per l'estremo divertimento di Cleomaco. In fondo prima ho vissuto in una eterna età dell'oro, accontentandomi di cantare assieme alle ninfe, di giocare con le forze della natura, di inseguire inconsistenti amori diafani e vani. Di certo sono diventato maturo e responsabile in tutti questi secoli e molto lo devo a Cleomaco... E poi gli dei credono di non aver nulla da imparare dai mortali, non si è mai sentita sciocchezza più falsa. Quando questa mia storia pare assestarsi e divenire lieta e colma di riscatto, ecco che l'amara verità prende ad avvicinarsi di soppiatto con una ferale grazia felina.

Man mano che tra i capelli di Cleomaco giungeva la neve io non potevo far altro che riempirmi di tenerezza per questo amabile anziano. Che sia stato questo stesso sentimento a spingere Prometeo a sacrificarsi pur di salvare l'umanità? Non lo so. Pure avrei lottato anch'io, se fosse valso a qualcosa, pur di rallentare ciò che stava giungendo. Gli ultimi tempi vedevo l'ombra di Thanatos sempre più chiaramente, ma, di nuovo, che cosa può fare una piccola brezza contro il dio della morte? Cleomaco è stato lucido fino alla fine, morendo dolcemente tra le mie carezze e quando giunse Ermes per prendersi la sua anima sapevo che non mi sarebbe servito a nulla lottare... La nostra vita è stata vissuta assieme, se non tutta gran parte, non siamo stati come Euridice ed Orfeo. Lo salutai comunque tra le lacrime, ma Cleomaco non potè vedermi ed in un attimo volò via assieme al traghettatore, trasferendosi ai campi Elisi, un nuovo immemore amore a salutare l'antico Giacinto. Che cosa mi era rimasto se non onorare il suo ultimo desiderio ed accompagnarlo alla pira? Poi semplicemente mi sono congedato per un po' da Dafne per sorvolare la Grecia e spargere le sue ceneri sulla Tessaglia, sua terra d'origine, come mi aveva chiesto quando ci siamo scambiati l'ultimo bacio. Quell'anno la primavera è giunta in anticipo e non certo perchè mi sentissi lieto, tutt'altro: l'impeto del mio dolore ha lasciato il mio potere a briglia sciolta e non è stato domo finchè non si è estinto da solo. Se anche Zeus mi avrebbe punito, non lo temevo, non ora che avevo davvero perso tutto ed ero tornato solo Zefiro... Niente più poesie, niente più parole dolci sussurrate all'orecchio, niente più carezze di mani calde, niente più teneri nomi a chiamarmi, niente più conforto nelle sere d'inverno, niente più risate, niente più Cleomaco. Solo io, io, solo con i miei ricordi, il mio strazio e le mie lacrime.

E finita qui? Certo che no, altrimenti mi sarei fermato ai tempi più lieti...

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Ho dato il via ad una nuova avventura, ma non aggiornerò presto, mi duole dirlo...

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