Annie Wilkes - Misery non deve morire - #ConcorsiOscuri - Seconda Prova
Annie osserva le gocce scivolare sulla cassa di legno bianco, che scende lentamente, ondeggiando.
Nel silenzio che la circonda, ascolta il frusciare delle corde sul ciglio erboso della fossa e il leggero picchiettare della pioggia sugli ombrelli neri, ali di corvo spalancate sopra di lei per proteggerla dal cielo in lacrime.
Come se l'acqua potesse arrecarle dolore, anziché lenire, piuttosto, quello sordo e insopportabile che le pulsa nel ventre devastato dalla colpa, le lacera il cuore arpionato dal rimorso, le infiamma la gola, graffiata dal troppo disperarsi.
Intorno a lei echi di pianti sommessi, orfani della rabbia cieca, del desiderio di spaccare tutto, della tentazione di farsi giustizia da sé. Restano solo rassegnati e tristi lamenti, svuotati di ogni speranza, ormai.
Sente il gemito dell'ultimo sforzo di braccia esperte, poi un tonfo sordo. Imita meccanicamente i gesti degli altri, mentre la nenia rituale si leva dai presenti.
La sua mente in fuga è catturata da dettagli irrilevanti, senza alcuna logica apparente.
È come assente, distante, eppure i suoi sensi sono acuiti e le sue percezioni le incidono la mente con precisione chirurgica, come mani esperte di artigiano sul legno tenero.
Coglie l'odore dolciastro delle corone di fiori e lo scricchiolio delicato delle foglie secche, che coprono la terra nuda come un mantello, per ripararla dal gelo imminente.
Rumore di terriccio che batte sul legno. Anche lei, come gli altri, si china e ne raccoglie una manciata. Esita, ma poi lo lascia cadere, dentro il baratro nel quale si sente sprofondare.
Le punte delle sue scarpe di vernice, nere come tutto intorno a lei, attirano il suo sguardo. Sono coperte da piccoli spruzzi e da granelli di argilla, da fili d'erba spezzati. Per un attimo si sente parte di quel prato coperto di croci severe, risucchiata dalla terra, disciolta nell'acqua, evaporata nel suo stesso alito, che forma nuvole nell'aria fredda di un pomeriggio d'autunno.
Poi torna a percepire il proprio peso sulle suole, la vertigine è passata. I colpi sulla piccola bara diventano più forti. Gli uomini ora riempiono la fossa con la pala. Quasi non sembra terra che cade, ma piccoli pugni che picchiano da dentro, mani ferite dall'angoscia, labbra che implorano di uscire.
Ma lei sa che non può accadere. Timmy non risalirà da quella tomba e non lancerà mai più la palla maledetta che ce lo ha portato. Né indosserà quel guantone, che giace nel raso accanto a lui, pelle contro pelle.
Era veloce suo fratello, per i suoi dieci anni. Correva come il vento, con lo sguardo al cielo e una decisione caparbia negli occhi. Ma quella volta non gli era bastato, contro il suo fuoricampo.
Aveva tanto insistito con lei, di quattro anni più grande, perché imparasse a giocare a baseball. Lui era fissato e si allenava ogni giorno, dopo la scuola. Così, alla fine, lei aveva ceduto. Avevano tutti un debole per il piccolo. Con quel sorriso e quel ciuffo biondo ribelle, a nascondere occhi azzurri e profondi come il lago Erie, era impossibile resistergli. Il dolce Timmy, ci sapeva fare con la gente. Ci sapeva fare con lei.
E ora è chiuso lì. Serio e pallido nel suo vestito migliore, con la sua palla e il suo guantone.
La mazza da baseball invece no. Il padre l'aveva cercata dappertutto, per metterla assieme al resto, senza però trovarla, per quanti sforzi avesse fatto. Quella non sarebbe mai uscita da dove lei l'aveva nascosta. Sotto il cuscino, vicino alla testiera del suo letto, dove avrebbe potuto toccarla ogni giorno, per ricordarsi sempre che era stata lei a spedire quella fottuta palla dritta in strada, a uccidere suo fratello.
Sente il peso di una mano sulla spalla, le parole di una voce adulta, a cui non presta molta attenzione, pur compiendo il gesto suggerito. Sposta un piede, poi un altro, scoprendosi ancora capace di muoverli senza fatica, nonostante la sensazione di essere un tutt'uno con il prato di quel cimitero, impietrita davanti a quella bara bianca, a quella fossa, a quel muro di dolore e biasimo che sente tutto intorno a sé.
L'assassina di Timmy. Che peso grande sulle sue spalle fragili di ragazza.
Alza lo sguardo. Sua madre è il ritratto di una vita distrutta, spezzata. Suo padre ora la cinge per sorreggerla. Sembra anche lei sorpresa di riuscire a spostarsi da quel ciglio fangoso, dentro il quale la sua gioia è sepolta per sempre.
Lui si fa forza, ma la bottiglia è riapparsa già da giorni perfino sul lavandino del bagno, dove si rade la mattina e si lava i denti la sera. Fatica inutile: nulla può liberare la sua bocca dall'odore pungente di quel bourbon da quattro soldi, di cui ha iniziato a ingozzarsi come se fosse acqua, mentre si sposta da una stanza all'altra con il suo veleno in abito di vetro fra le dita, rese ruvide dal duro lavoro.
Lo ha visto travasare nello stomaco quel liquido ambrato. Non usa nemmeno il bicchiere, nonostante le sgridate che dava ai figli perché non bevessero in quel modo. Lo tracanna direttamente, per fare prima a stordirsi, per non pensare. A quel tesoro di Timmy e a quella incapace di Annie, che non ha nemmeno saputo badare al fratello minore, suo orgoglio, sua unica soddisfazione.
Arrivano a casa, assieme ai parenti e agli amici, per lo più del vicinato o del lavoro. I piatti con le torte dolci e salate, preparate dalle colleghe della mamma, iniziano a girare fra gli ospiti, che parlano a bassa voce, per rispetto.
Non è il funerale del decrepito capofamiglia o della vecchia zia bisbetica, mancati dopo una lunga e burbera esistenza, che porta in dono il conforto di una piccola eredità, perfetta per cambiare la macchina.
Non si trovano di fronte al normale corso della vita, capace di trasformare un momento di sofferenza nell'occasione unica per rivedere, commossi, zii e cugini lontani.
Al numero cinque di Glover Street, si è consumata una vera tragedia.
Annie ha ancora impressi sulle retine i lampeggianti dell'ambulanza, di quando, infine, l'hanno portato via. La mamma era svenuta e avevano dovuto soccorrere anche lei. Anzi, solo lei, perché per Timmy, non c'era stato proprio nulla da fare.
L'autista del pick-up è stato trattenuto dallo sceriffo. Aveva alzato un po' il gomito con i colleghi giù al cantiere, per togliersi la polvere dalla gola a fine giornata, come diceva lui, prima di salire sul pesante mezzo e tornarsene a casa.
C'erano dei lavori su Portland Road, così aveva deviato il percorso per la Michigan e poi era risalito sulla West River. Questo gli ha sentito raccontare ai poliziotti. Non riesce a levarselo dalla testa, Annie, quel maledetto percorso. Dopo l'incrocio la West River diventa Glover Street, che scende ripida dalla collina, costeggiata da villette con il giardino, dove i bambini come lei e Timmy giocano a palla, senza pericoli. Zona di negozietti, scuole e adolescenti in skateboard: le auto rispettano i limiti e viaggiano con prudenza.
Ma Dan Higgins, alla guida del pick-up, questo proprio non lo sapeva. Non passava mai di lì. Così non c'era stato niente da fare, quando il vecchio Chevrolet del '68 si era trovato davanti suo fratellino che inseguiva la palla, colpita con forza dalla mazza che lei roteava con orgoglio. L'aveva centrato in pieno, scaraventandolo dall'altra parte della strada, già senza vita.
All'uomo era rimasto solo di proteggere quel corpo immobile dagli sguardi sconvolti dei curiosi, con una coperta presa dal sedile posteriore, prima che lo sceriffo lo levasse dalle mani degli abitanti della via, sottraendolo al sicuro linciaggio con l'auto di servizio.
I parenti si congedano per primi e Annie cerca di rispondere ai saluti, di cancellare dalla testa la scena di quel bambino immobile. Poi è la volta degli amici di famiglia, che tornano alle loro case, mentre il buio scende su Glover Street numero 5. Un buio che non aveva mai visto prima, un buio che la atterrisce, perché ora non c'è più Timmy a chiederle di ripetergli la filastrocca "Il gatto lava il topo", prima di dormire. La porta della sua stanzetta è chiusa e non ha più nemmeno il coraggio di entrarci.
Conosce a memoria i poster dei lanciatori più famosi, le sue palle autografate, il cappellino con la visiera sporca di grasso per il guantone. Tutto il mondo del suo fratellino, che ora riposa sotto terra.
Pensa a quello con un brivido, mentre si mette il pigiama pesante. A fine ottobre fa già freddo di notte. Si infila fra le lenzuola gelate e rivede il raso bianco che gli avvolge il viso perlaceo, gli fascia le esili spalle, segue la linea delle gambe lunghe e sottili, fino ai piedi, già grandi per la sua età. Sarebbe diventato alto Timmy, un bel ragazzo, dicevano tutti, se lei non avesse colpito quella subdola palla così forte, spedendola così dannatamente lontano.
Si allunga sotto il cuscino. La mazza da baseball è lì, per poterla sentire, per non dimenticare.
Non le è comunque difficile ricordare il bambino che tutti amavano e la colpa della sua orrenda fine. Quando Annie scende in cucina, la mattina dopo, per andare a scuola, il padre già puzza di incubi e alcol, e la guarda con occhi iniettati di sangue, come se non avesse fatto altro che pensare a lei come a un'assassina per tutta la notte.
Chiede della mamma, che però non ce la fa ad alzarsi. Le pillole, prescritte dal dottore per l'esaurimento, le tolgono le forze. Deve occuparsi lei del pranzo e della cena. E arrangiarsi anche per la colazione. Il padre le dice di aver già preso quel che gli serve, mentre esce per andare al bar.
Da quel maledetto pomeriggio nulla nella vita di Annie è più come prima. Ogni santo giorno, durante l'ultimo anno di high school, si alterna con una badante al capezzale della mamma, che non lascia mai il letto.
Dopo la scuola si siede di fianco a lei, spesso incosciente, e le ripete ad alta voce le materie che sta studiando. Finiti i compiti, legge per lei le storie d'amore e passione che tanto le piacevano, pur trovandole imbarazzanti, all'inizio. Poi si abitua, come fanno le sue amiche di fronte ai suoi continui rifiuti di uscire con loro, per fare un giro, per andare al ballo, per vedere i ragazzi. Alla fine smettono di invitarla.
Annie la accudisce con pazienza, pur vedendola chiudersi ogni giorno di più in se stessa, sedata dai farmaci e sempre più smarrita in un limbo di incoscienza. Non riesce neanche a piangerla, il giorno in cui si spegne e raggiunge il marito, già portato via dalla cirrosi epatica. Nessuno dei due aveva smesso mai, neanche per un solo giorno, di guardarla, come l'inutile assassina che è.
Quando torna dal funerale della mamma, Annie ha già deciso cosa fare della sua vita. Vende la casa, lascia la cittadina dove è nata e si trasferisce, su un camion carico dei suoi adorati libri, in Colorado, dove nessuno la conosce e dove completa gli studi da infermiera professionale, per proseguire in corsia la vita di espiazione condotta con la madre, dopo l'incidente.
Si diploma e inizia a lavorare in ospedale, mentre gli anni passano, in quella grigia routine di disinfettanti e siringhe. Quello che comprende, vivendo ogni giorno con i malati, fra padelle e pappagalli, è che solo i personaggi dei libri restano per sempre, mentre le persone, prima o poi, la lasceranno, e lei si renderà conto di aver fallito, tradita anche da loro e di nuovo sola con i suoi sensi di colpa.
Nei racconti però trova conforto e nei suoi idoli di carta la compagnia di cui ha bisogno. Loro ricambiano la sua devozione, come i suoi amati gatti, senza farle notare se è ingrassata, se ha troppi brufoli o i capelli in disordine, sotto la cuffietta da infermiera.
E fra tutti i personaggi che ama ce n'è uno che vive sempre con lei, nel suo cuore e nelle pagine dei romanzi che legge e rilegge avidamente. Si chiama Misery ed è la sua eroina. Per lei è un po' come ritrovare il suo Timmy. E questa volta fa un giuramento a se stessa: "Misery non deve morire. Mai."
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Partecipa alle semifinali di Italian Writers Awards 2017 sul profilo ItalianWritersAwards
Se ti è piaciuta passa a votarla nella sezione votazioni del Grey Award (storie brevi), lasciando un commento motivato, un voto e riportando due citazioni prese dalla storia, come richiesto dal regolamento.
Grazie mille.
Far
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