𝗺𝗶𝗹𝗸 𝗮𝗻𝗱 𝗰𝗼𝗼𝗸𝗶𝗲𝘀 :: 𝟮

(se dopo questa non subisco la scomunica più grande della storia del vaticano mi riterrò sorpresa)

(e scusatemi ma il mio telefono dice che sono nel mio periodo fertile quindi non è colpa mia è della biologia)

╰┈➤ ❝ continua

Quando esco dalla mensa, un passo alla volta verso il corridoio, sono passati due mesi.

Due mesi.

Sessanta giorni, all'incirca.

La stagione è cambiata e con lei, con lei sono cambiato anch'io.

Sposto l'attenzione oltre il nugolo di persone vicino all'entrata, alla ricerca di qualcosa che per me è diventata salvezza, e se Dio vuole, anche abitudine.

No, un attimo, Dio non vuole.

Dio non vorrebbe.

Di Dio non m'interessa più, però, e sorrido all'idea che non può fare niente, ora per fermare quello che c'è dentro di me.

Ho mangiato poco, stasera, ma non è strano per me. Non sono una buona forchetta, sono abbastanza schizzinoso, e le cose che non mi piacciono, le lascio senza neppure tentare di sentirne un'altra volta il gusto.

Se non mi piaci, stai lontano da me.

Così se sei un pezzo di carota, o una persona che detesto.

La cintura tintinna sopra la camicia che ci ho infilato dentro, i passi ticchettano come al solito, il silenzio è contaminato dall'unico rumore delle persone che ridono.

Due mesi, eh?

Due mesi.

Due mesi fa, questo era uno dei momenti peggiori della mia giornata.

Non so che cosa della sera ti tolga le inibizioni, se la stanchezza o l'imbrunirsi della luce esterna, ma capitava più spesso, più violentemente, che gli altri mi aspettassero.

Uscivo un passo alla volta come sto facendo ora, e pregavo nella mia testa, pregavo Dio, che oggi si fossero dimenticati di me.

Non si dimenticavano mai.

E io rimanevo il divertimento che ero, trascinato e preso e colpito perché mi odiavano, perché mi odiano ancora.

Sistemo i polsini sulle mani, le maniche sono troppo lunghe.

La camicia non è mia.

Si vede che non è mia, e mi piace che si veda.

Mi piace che sia larga sui polsi e lunga sulle cosce, che il colletto sia troppo abbondante per il mio collo sottile, che si arricci sulle spalle.

Mi fa sentire... preso.

Preso, marchiato.

Occupato, impegnato, sottratto, voluto, adorato, tenuto.

Mi fa sentire di qualcuno.

Chi di loro è di qualcuno? Chi di loro è apprezzato come lo sono io? Nessuno, nessuno, sono soli, sono infimi, sono orrendi.

E invece io sono perfetto, mi sento perfetto, e mai mi sono sentito tanto bene con me stesso quanto ora, che ho rifiutato Dio per la tentazione del male.

Sento una mano afferrarmi dal maglione che tengo sopra la camicia, mi sento tirare indietro.

Ma non è la bella mano che adoro, è una brutta, che non vorrei.

− Dove cazzo credi di andare, tu? –

− In camera mia. – rispondo, nella timidezza del terrore che non provo più, ma che ricordo bene.

Tirato e schiacciato al muro, le mie scapole si appoggiano contro una superficie solida, aggressiva.

È un ragazzo della mia classe, uno di quelli che mi odiano.

Ed eppure se mi odiasse davvero, che bisogno ci sarebbe di avere questa posizione così ravvicinata? Mi rinchiudi in te stesso e mi stringi, avvicini il viso al mio.

Vuoi minacciarmi?

O vuoi che ti dia la scusa per premere le labbra sulle mie, per toccarmi e fare il male che Dio ti dice di non fare?

− Non mi piace come ti comporti ultimamente. Chi cazzo ti credi di essere, eh? –

Sorrido.

− Io sono Kenma. –

Qualcuno si gira, qualcuno del gruppo grande di persone vicino a noi si mette a guardare, a ridere.

Il ragazzo mi si avvicina di più.

− Mi prendi per il culo? –

Se lo faccio, mi chiedi.

Certo che lo faccio. Cosa dovrei fare con qualcuno che come te non vede la realtà ma solo quel che gli hanno insegnato? Se ti capissi per come sei, staresti meglio, saresti migliore.

Alzo piano una mano dal mio fianco, gliel'appoggio sul viso.

− Ho impressione che ti piacerebbe farlo con me, mi sbaglio? –

Congelato.

Potrebbe farmi del male, tanto male, farmi rimangiare ogni singola parola che dico. Ma rimane fermo, congelato, quando la mia mano si appoggia sulla sua pelle.

La vedo, la parola che dicono i tuoi occhi.

"Ancora".

Muovo il pollice sul suo zigomo, come se lo stessi accarezzando.

− Perché non lo dici anche tu? Perché non te ne rendi conto anche tu? –

Bocca aperta ma vuota, nessuna parola, niente.

Solo...

Mmh, non saranno stretti, i tuoi pantaloni, per caso?

Mi sporgo facendo leva sulla schiena, per avvicinare il mio naso al suo. Mi guarda negli occhi, giurerei che se non avesse la bocca secca starebbe sbavando.

− Tu non vuoi farmi male, perché fingi? –

Lancio un'occhiata di lato.

Nessuno ride più.

Nessuno ride.

Sono zitti.

Sono... spaventati.

− Che cos'è che vuoi farmi, tu? –

− Io voglio... −

La mano che mi tiene ferma la spalla al muro, è più morbida, più delicata, ora. Trema, nel tentativo di scendere, di muoversi.

− Voglio... − ripete.

Vuoi me.

Lo sappiamo tutti e due, che vuoi me.

Vuoi cancellare lo spazio fra noi due e spalancare le mie labbra con le tue, vuoi lasciar scorrere le dita sul mio corpo e sotto i vestiti per afferrare, prendere, avere.

Socchiudo gli occhi, sorrido appena.

− Dimmi che cosa vuoi farmi, avanti. –

Non riesce a rispondere. È come se avesse le parole in testa ma non avesse cuore di tirarle fuori, come se si sentisse impotente nonostante sia io ad essere bloccato al muro.

La forza di Lucifero, non è forse la tentazione?

Non è forse dirti che cosa vuoi avere, non è forse darti quel che desideri, non è forse farti vedere quanto piacevole sia il peccato che dovrebbe spaventarci tanto?

Si avvicina, sento il suo corpo contro il mio.

Mi lecco le labbra per un istante.

− Ti tira, la cintura, non è vero? –

Arrossisce.

Che arrossisci a fare? È vero, lo vedo, lo... lo sento.

Dio, quanto potere mi hai tolto dicendomi di fare il bravo.

La cattiveria è più fiera di te.

È inarrestabile.

Voce come un sussurro, come un filo da cucito che passa dove l'ago ha bucato uno spazio minuscolo, la mia.

Sposto il mio viso verso il suo orecchio.

− Vuoi scoparmi così tanto che nemmeno riesci a guardarti allo specchio. –

S'irrigidisce, e si scalda.

Ma non mi ferma.

Nessuno può.

Nemmeno io.

− Ma mi detesti perché sai che con tutto quello che posso avere, di certo non mi accontenterei di qualcuno come te. –

Un istante di pace.

L'istante dopo è furia.

Il suo corpo scatta, il fuoco brucia nei suoi occhi, e so che sta per colpirmi, prima che io pronunci sottovoce la parola "Sitri", e una voce compaia nel corridoio.

− Che sta succedendo, qui? –

Il tipo di fronte a me si stacca, impaurito più dall'autorità che da me, torna verso gli altri e china la testa.

− Nulla, professore. –

Io sono ancora con la schiena al muro, quando rivolgo lo sguardo a qualcuno che conosco, che conosce me.

− Nulla di importante. – preciso.

Scuote la testa, guarda gli altri.

− Avete di nuovo minacciato Kenma? –

− Noi... −

Alzo appena un angolo della bocca.

− Sì, professore, mi hanno minacciato. E ora ho paura di girare da solo, non so che cosa potrebbero farmi. –

Kuro mi è accanto in un attimo, mi prende dalle spalle, mi squadra per guardare come sto.

Sto bene, sto bene.

Sono loro, che stanno male.

− Sei spaventato, Kenma? –

− Sono terribilmente spaventato. Io... −

Giro il viso verso gli altri e sorrido, col dolore e la cattiveria negli occhi, quando mi sporgo verso Kuro e appoggio il viso contro il suo petto.

Oh, cazzo, guardatemi.

Guardatemi tutti.

− Ho così paura che sto tremando, professore. La prego, non mi lasci da solo con loro. –

Stringe le braccia attorno a me, i bicipiti che si flettono sotto la camicia scura per proteggere me.

− Chi è stato? –

Lo vedo, lo stronzo che voleva farmi del male. Lo vedo che scuote la testa, che chiede pietà, che chiede di essere lasciato stare.

Non mi ha fatto niente, dopotutto, non stavolta.

Ma l'ha fatto in passato, e mi gira così.

Alzo la mano e lo indico.

− È lui, professore. È stato lui. –

Tutto in Kuro s'irrigidisce.

Abbassa la voce, lo sento solo io.

− Cosa vuoi che gli faccia? Dammi l'ordine e lo uccido, Kenma, lo uccido. –

Rido appena.

− Un'ora di punizione va più che bene. –

Sospira, ripete la sentenza agli altri, li guarda come se li volesse veder bruciare.

E poi mi stacca da sé, e mi si mette vicino per accompagnarmi in camera mia.

Dondolo sulle gambe, prima di cominciare a camminare, e alzo il tono perché si senta quel che basta.

− Mi può dare la mano, professore? Ho davvero molta paura. –

− Come preferisci, Kenma. –

Come preferisco.

Esatto.

Come preferisco.

Intreccia le dita con le mie, con una stretta da amanti, non da adulto e adolescente, e muove il pollice sul dorso della mia mano con affetto, quando mi tira per camminare.

Non c'è rumore, nel corridoio, nessun brusio, niente.

Solo Kenma.

Il ticchettare delle suole sul pavimento di pietra in un grande edificio vuoto, l'eco solitaria che si espande, la bellezza di una persona che regna da sola.

Non parla, Kuro.

Non parla ma c'è, ed è quel che mi serve.

Bello come la Luna, minaccioso come il fuoco, asservito a me.

Non prende la strada della sua stanza ma quella della mia, che preferisce la mia camera alla sua, ma non mi lascia andare come dovrebbe, non mi dice "buonanotte" e se ne va come un professore dovrebbe fare.

No, lui prende la chiave dalla mia tasca ed entra dalla stessa porta, e gira a doppia mandata prima di spogliarsi della sua copertura così lasciva e chinarsi verso di me.

È altissimo, Kuro, sarà due metri di persona.

Ha le gambe lunghe, le mani grandi.

Sembrano così corte, le mie dita, quando le apro sulle sue guance, e sembro così piccolo, io, quando stiro le caviglie per mettermi in punta di piedi.

Si abbassa.

Se guardassi la finestra, vedrei il riflesso di quello che siamo.

Vedrei il suo corpo piegato sul mio, le ali scure che compaiono sulla sua schiena, le mie cosce magre tese per raggiungerlo, le mie mani che circondano il suo collo.

Siamo un bel quadro vittoriano, Kuro.

Il peccatore e l'angelo caduto, Lucifero e i Principi dell'Inferno, la rovina del Paradiso.

Incontra le mie labbra con dolcezza, con tanta dolcezza, le assaggia e le adora, come adora me.

− Dovremmo fare in modo che ci sia un'ora di scienze ogni giorno in classe tua, oggi mi sei mancato davvero troppo, gattino. −

− Anche tu mi sei mancato, Kuro. –

Piega un'ala e mi sfiora la pelle con le piume sottili, ci passo sopra le dita. Non può volare, Kuro, come tutti gli altri angeli caduti. Le sue ali sono scure e sono spezzate, l'attaccatura rovinata da quelle che sembrano coltellate, sanguinano ogni volta che me le mostra.

Ma sono belle, le sue ali, sono così belle.

− Mi dispiace di non essere arrivato subito dopo cena, la professoressa di inglese mi ha fermato per parlare e non me ne sono reso conto. – aggiunge, riferendosi al fatto che non era lì ad attendermi come ogni volta, oggi, fuori dalla mensa.

Storco il naso, stringo lo sguardo.

− Scusami? –

Si accorge di quel che ha detto e china la testa.

− Mi dispiace, Kenma. –

Le dita che sfioravano le piume delle sue ali salgono fino alla radice, dove so che sono ferite, sanguinanti.

Stringo.

Non è tanto un dolore insopportabile, ma un accenno che cattura il suo bel viso.

− Hai appena detto che ti sei dimenticato di me per qualcun altro? –

Questa cosa mi fa... infuriare.

Mi fa infuriare perché lui è mio, solo mio, mio e basta.

Sarà l'avidità, quella che mi sono reso conto di provare così intensamente solo quando qualcuno si è detto di mia proprietà.

− Perdonami. – risponde.

Disperazione, sul suo volto.

Oh, Kuro, quanta disperazione c'è, in te.

Mi fai sentire... mi fai sentire potente, forte, quando mi guardi così. Come se avessi la tua vita fra le mani, come se avessi tutto quello che sei stretto fra le mie dita sottili.

Ed eppure debole dall'altra parte, perché dipende da te, la forza che mi dai.

Disallineati ma sullo stesso piano, io e te. Scombinati e sbagliati, ma funzionali nell'essenza più completa della disfunzionalità.

Sorrido e lo lascio andare.

− Vai a letto, su, dai. –

Si scioglie, il suo viso, si scioglie il suo corpo.

Le ali ricadono morbide sulla sua schiena, mi stringe le spalle con le mani in un gesto di puro affetto, prima di allontanarsi.

− Come vuoi, Kenma. –

Camera mia non è grande, è come tutte le altre, solo una stanza per dormire. C'è il letto e c'è l'armadio di legno, c'è la grande finestra arcuata sul muro di fronte alla testiera, la scrivania per studiare.

In due non è facile starci, ma io e Kuro c'entriamo bene, non so neppure io per quale motivo.

È come se fossimo fatti per questa situazione, per condividere, per respirare assieme.

Mi fa battere forte il cuore, il pensiero.

Lo osservo sfilarsi il maglioncino con calma, sbottonare la camicia, lasciarla scivolare sotto le braccia.

C'è qualcosa di eternamente lascivo nel guardare qualcuno slacciarsi la cintura, ho sempre pensato. Quel lembo di cuoio che separa quel che è elegante da quel che non lo è, sfilato via con delicatezza, in un istante di puro silenzio.

Mi piace, quest'angelo.

Mi piace tanto.

E mi piace tanto come mi fa sentire.

Non mi spoglio, io, è raro che lo faccia subito. Il mio corpo è qualcosa di me verso cui provo ambivalentemente amore ed odio, e ho bisogno di un po' di calma e atmosfera per mostrarlo.

− Che cos'è che hai detto al tuo compagno, prima? – chiede poi Kuro, intromettendosi nei miei pensieri.

Non ha sentito?

No, non c'era, è ovvio che non abbia sentito.

Un sorriso si descrive sulle mie labbra quando mi appoggio con le spalle alla porta chiusa e porto le braccia conserte al petto.

− Una cosa cattiva, Kuro. –

− Una cosa cattiva? –

Non è di domanda, il suo tono, è di allusione. Tira via i pantaloni dalle gambe lunghe e li incastra sullo schienale della sedia di fronte alla scrivania, si siede sul letto.

Quando alza gli occhi su di me, sono soddisfatti.

Già, Kuro, una cosa cattiva.

Ti piaccio, cattivo, eh?

Sporgo un piede in avanti, incastro il tallone sul tappeto, lascio ballare la punta nell'aria.

− Molto cattiva. –

Quello che Kuro prova per me, secondo me, non è amore.

È diverso, dall'amore, è un sentimento molto meno dolce e molto più sfacciato, più violento e più sbagliato.

Kuro non mi ama.

Kuro mi adora.

Adora la minuscola striscia di pelle che si vede spuntare dal calzino bianco sceso sulla caviglia, la guarda come se fosse la cosa più bella che abbia mai visto.

− Credo di dover delle scuse a qualcuno per questo, in effetti. –

− Delle scuse? –

− A Dio, Kuro, devo delle scuse a Dio. Non credi anche tu? –

I suoi occhi si aprono un po' più di prima, sbatte le ciglia.

Non capisce, all'inizio, poi la realizzazione si appoggia sulla sua mente e il suo sorriso si fa più perfido. Più storto, perché sorride un po' storto, ma paradossalmente più bello.

− Se dovessi scusarti per tutto quello che hai fatto a Dio, Kenma, non basterebbe una giornata. –

Mi lecco le labbra.

− Sono così cattivo? –

Incolla lo sguardo su di me al primo passo.

Non sono tanti a separarci, anzi, sono giusto un paio.

Ne faccio uno, uno solo, e già mi fissa come se gli avessi concesso di me tutto.

Adorazione, Kuro, adorazione nel tuo sguardo.

E per quanto ne sia saturo, per quanto tu me l'abbia già dedicata tutta, mi sembra di volerne ancora, ancora, ancora. Anche se non so dove metterla, anche se ne sono già pieno, ancora, dammene ancora.

− Se la cattiveria fosse una persona, saresti tu, gattino. –

Giusto, è vero.

Se fosse una persona, sarei io.

Sarei io, perché la cattiveria è Lucifero, e Lucifero, sono io.

Respiro piano dal naso.

Essendo seduto, sono io, per una volta, a guardarlo dall'alto. E non mi piace, questa cosa, non mi piace.

Preferisco che si stagli sopra di me e che torreggi su di me che sono così piccino, così minuto, ma così importante, per lui.

− Gli ho chiesto che cosa volesse farmi in realtà. Perché fingesse di volermi far male. Secondo te cosa voleva farmi, Kuro? –

Non risponde, ma gli passa un'ombra in viso.

Stringe la mascella.

Bravo, Kuro, così. Incazzati perché qualcuno tenta di rubarmi, infuriati perché qualcuno si permette di toccare qualcosa che tu adori.

− Secondo me... −

Occhi nei miei, oro che m'incontra.

Non sembra la tonalità fredda e rigida del solito, ora, sembra liquida, sembra incandescente.

Altro passo in avanti.

Se si sporgesse, potrebbe toccarmi.

− Secondo me voleva fare quello che mi fai tu, Kuro. –

Apre la bocca per parlare ma lo precedo e gli impedisco di dire qualsiasi cosa.

− E allora gli ho detto una cosa molto cattiva. –

Non so se sia confuso, se sia trasportato o eccitato o cos'altro, so solo che c'è tanto dentro di lui, e tutto è illogico e irrazionale.

Mi piace, sconvolgerti così, Kuro.

Tu che sei millenario, tu che hai visto com'è nato il mondo, tu che dovresti essere della fermezza antica del sapere.

Sconvolto da me.

Il terzo passo, l'ultimo, è accennato e infantile, veloce, come se lo stessi facendo per gioco. Come se volessi farlo di nascosto, come se preferissi che non lo notasse.

Spingo indietro la sua fronte con l'indice, alza la testa per guardarmi, appoggia il mento contro la parte bassa del mio petto.

− Gli ho detto che mi detestava perché in realtà voleva scoparmi. –

Kuro stringe la mascella.

Come se si stesse... trattenendo.

Io... io sono lascivo, è vero, credo che sia qualcosa che sono sempre stato.

Osceno, forse, erotico.

Non è che io lo desideri, è come sono fatto.

C'è qualcosa nei miei occhi grandi, nella pelle chiara, nella forma gentile dei fianchi e sottile della vita che agli altri comunica questo.

Dall'altra, però, sono sempre stato intimidito dall'intimità, e puro.

L'effetto che a Kuro fa sentirmi dire qualcosa di così volgare, è palese, plateale.

E sto iniziando a riprendermela per me, io, la volgarità, perché si sposa così male con la mia dolcezza che trovo il contrasto perfettamente calzante col male che ho scelto di diventare.

− Cosa posso fare per farmi perdonare da Dio, Kuro? –

− Puoi... −

È come se non sapesse cosa dire.

Ti ho fatto finire le parole, angelo?

Tira su le mani per appoggiarmele addosso, ma non lo fa, rimangono appena distanti da me. Sembra che brilli, il mio corpo, quando lo guarda. Sembra che sia così perfetto che anche solo toccarlo potrebbe rovinarne l'eleganza.

Chiudo le dita sul suo viso, io, che di toccarlo non ho paura.

− Posso pregare, Kuro? –

Ha la gola secca, se la schiarisce.

− Puoi pregare, sì, credo. –

− E com'è che dovrei pregare? Com'è che si prega, Kuro? –

Capisce, capisce e sorride e le sue pupille si dilatano mangiando quasi completamente l'oro dell'iride. Capisce e cazzo, mi sembra di non avergli mai visto dentro una fame così spietata.

− Si prega in ginocchio, Kenma. –

Annuisco, lascio che tolga le braccia da me.

Appoggio le mani sulle sue cosce nude, quando piego le gambe una alla volta, come ho fatto tante volte.

Appoggio le ginocchia sul velluto, lui apre di più le gambe per farmi posto.

Non è completamente nudo, Kuro, non lo è mai se non glielo chiedo o gli faccio capire di volerlo, ma le mutande non lasciano molto all'immaginazione.

Mi sporgo un po' più avanti, un po' più fra le sue gambe.

Metto i gomiti sopra i muscoli delle sue cosce, congiungo le mani, lo guardo dal basso.

Lui vorrebbe...

Lui vorrebbe mangiarmi.

Divorarmi.

Sono la cosa migliore che abbia mai visto, glielo leggo in faccia.

Di più, Kuro.

Di più.

− Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi. –

"Atto di dolore".

Questa preghiera si chiama "atto di dolore".

E la dico nella mia lingua, perché non si merita l'elevazione del latino, ma l'umanità dell'errore.

− E molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. –

A chi è che sto parlando, eh?

Sto parlando a te, Dio?

O sto parlando a qualcosa di molto più volgare di te?

− Propongo con il tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato. –

Perdonami, Dio, perdonami.

O non perdonarmi.

Non credo che faccia alcuna differenza, a questo punto.

− Signore, misericordia, perdonami. –

Mi lecco le labbra un'altra volta, Kuro segue ognuno dei miei movimenti con attenzione, con calma. C'è così tanta tensione, in questa stanza, che giurerei di sentirmela scorrere addosso.

Distolgo lo sguardo da lui per un attimo.

E poi, più intensamente di prima, con più significato, schianto gli occhi sui suoi e stringo più forte le mie mani giunte.

− Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. –

Quanta cattiveria, Kenma, quanta cattiveria.

Ed eppure se fosse malvagia non ti sentiresti così bene, no? Non sentiresti le tue cosce schiacciarsi nel tentativo di chiuderle assieme, non sentiresti l'eccitazione correrti sulla pelle, non sentiresti Kuro che ti vuole.

− Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questo giorno. –

Inizio a sciogliere le dita con calma.

− Perdonami il male oggi commesso, e se qualche bene ho compiuto, accettalo. –

Corrono più in avanti, sull'elastico delle mutande di Kuro, sul tessuto.

Si mordicchia il labbro, a metà fra il nervosismo e la voglia di distruggermi.

− Custodiscimi nel riposo e liberami dai pericoli. La tua grazia sia sempre con me e con tutti i miei cari. –

Potresti dire a chi sto rivolgendo queste parole, Kuro?

È Dio?

Sei tu?

O parlo forse con tutti e due?

− Amen. –

E Kuro si rompe.

Nel tempo che è passato, in questi due mesi, nonostante l'inizio frettoloso che questa cosa ha avuto, non abbiamo fatto molto.

Credo fosse perché... mi sentivo intimidito.

È un'ascesa al male, la mia, ma per salire le scale sono tanti i gradini da fare, e non potevo saltarli a piè pari, o nulla mi sarebbe rimasto.

Questo, per esempio, non l'abbiamo fatto mai.

In realtà, nulla che si concentrasse su me che do a lui, abbiamo mai fatto.

È stato lui a tentarmi, lui a toccarmi e farmi star bene, e io mi sono lasciato viziare per il gusto di avere qualcosa che non avrei dovuto.

Ma se subire è passivamente cattivo, c'è tutta la potenza della volontà, nel farle, le cose.

Una delle sue mani mi s'incastra fra i capelli e li tira, forte, indietro.

− Porca puttana, Kenma, porca di una puttana. –

Nessun controllo, lo perde, con me. Lo perde o non l'ha mai avuto? Non lo so, entrambe le prospettive mi soddisfano allo stesso modo.

− Sei la creaturina più blasfema che ci sia, cazzo. –

Se lo sono?

Lo sono.

Lo sono perché nulla è più irrispettoso di chi t'ha amato e ti si rivolta contro, e io Dio l'ho amato per tanto tempo.

Incastro i polpastrelli sull'elastico con più intenzione, ora, e tiro giù.

Mi vuoi, Kuro, quanto mi vuoi.

− Sei tu che ti sei eccitato a vedermi pregare, Kuro. – rispondo, gli occhi che non guardano più i suoi, ma un altro punto del suo corpo.

− Cazzo, sembrava che stessi pregando me. –

− Forse lo stavo facendo. –

Ride, ma s'interrompe dopo qualche istante.

Lo vedo chiudere le dita su se stesso, muovere appena la mano in su e in giù.

Poi mi guarda.

− Vuoi qualcosa da adorare, gattino? –

Annuisco.

− Vuoi qualcosa da pregare in ginocchio? –

Avvicino il viso a lui.

Sono io, che ho te, che decido su di te, che ho il potere. Ma mi sembra di non avere un briciolo di controllo, quando apro appena le labbra perché appoggi qualcosa di così volgare sul mio viso.

− Vuoi qualcuno da chiamare Dio? –

Vuoi che ti chiami Dio, Kuro?

Vuoi rubare il trono al Signore?

Quanto debole e quanto forte mi fa sentire, che per poter avere questo tu debba chiederlo a me.

− Apri la bocca, Kenma. –

E io la apro.

Divarico appena le labbra, e sento Kuro entrare dentro di me.

Ha un sapore... strano, credo, particolare. Non credo di aver mai sentito nulla di simile. Non è sgradevole, in ogni caso, anzi.

Mi...

Mi piace.

Mi piace tanto.

− Respira dal naso, rilassati. –

Ha la voce tesa, come se si stesse sforzando.

Obbedisco, faccio quel che mi dice, rilasso i muscoli e respiro.

Entra di più.

− Dammi la mano. –

La tiro su, aspetto che prenda le dita con le mie, che le porti su se stesso, sulla parte che non è nella mia bocca.

È...

− Ora succhia, Kenma. –

Volgare.

Sei volgare.

Mi piaci, volgare.

Sento le mie guance che rientrano appena, la lingua che si appoggia istintivamente sotto, la mano che si muove appena più veloce.

Sento la sua voce incastrarsi in quella che sembra una via di mezzo fra un gemito e il mio nome.

Accompagna il movimento con la mano, aiutandomi a muovere la testa.

È faticoso.

Kuro è...

È tanto ed è troppo, è l'unica cosa che sento.

Gli ho chiesto, tempo fa, quando ancora stavamo scoprendo noi stessi, se il suo corpo fosse umano. Se sentisse le sensazioni e provasse le emozioni più terrene, per sapere che tasti premere, che leve tirare.

Il corpo di un angelo caduto è in tutto e per tutto il corpo di un essere umano.

È solo migliore.

Perché s'eri un angelo sei bello, anche nella rovina.

Per cui mi sforzo e m'impegno, nel fare qualcosa che so sentirà.

Stringo appena le labbra, succhio più forte.

Stringe le dita fra i miei capelli più saldamente, vedo per un attimo il centro delle sue sopracciglia alzarsi.

− Vacci piano, gattino. –

Mi stacco da lui.

− Non ti piace? –

Il contatto diventa più gentile, sposta le ciocche con delicatezza, come se mi stesse coccolando.

− È che tutto di te è così stretto, Kenma, che se non fai un po' d'attenzione finirò ancor prima d'iniziare. –

Alzo i bordi delle mie labbra in un sorriso, poi li separo, lascio uscire per un attimo la lingua per passarla velocemente sulla sua punta.

Cos'è, che di volgare potrei dire?

Cos'è che potrebbe essere sbagliato, in me, in questo istante?

L'apprezzamento terreno, quello, è ciò che cerco. Un amore erotico e passionale, puramente fisico, puramente chimico, puramente umano.

− Non sono io che sono stretto, Kuro, sei tu che sei grosso. –

Piace agli angeli come ai maschi della mia specie, sentirselo dire.

Perché ti fa sentire migliore, speciale, in grado di fare tutto.

− Riapri la bocca. –

La riapro.

E mi mozza il respiro sentirlo infilarsi più a fondo, quasi contro le tonsille, senza lasciarmi neppure un attimo di tregua per adattarmi.

− Sei una Maddalena al contrario, Kenma. – è quel che borbotta a mezza voce, prima di muovere il mio capo su se stesso su e giù e ancora su.

Vorrei chiedergli cosa intende, ma lo spiega lui senza richieste, perché non posso parlare e preferisco non averne la possibilità.

− Tu non sei una puttana che si converte per l'amor di Dio, cazzo. –

Mi manca il fiato.

I polmoni si svuotano ma quando cerco di riprendere aria, c'è solo Kuro in me.

− Tu sei un fedele che diventa una troia al primo accenno di qualcosa che ti fa eccitare. –

Stringo più forte le cosce fra di loro, apro la bocca ancora di più.

Di più, più in fondo.

Rovinami, Kuro.

Distruggimi.

Fammi a brandelli.

Che non c'è niente di puro in me, e quel che è profanato lo possiamo disfare insieme.

− Solo una troia si sarebbe messa a pregare con la faccia davanti al mio cazzo. –

Sì, sì, sono io.

Sono io, sono io.

Non c'è più niente di santo o sacro, in me.

Piego appena il capo di lato, per aiutarlo a scendere più giù, più in fondo.

Non mi sarebbe così facile, se non fossi fatto per farlo. Non riuscirei a farlo arrivare giù fino alla sommità della mia gola, se il mio corpo non fosse stato esattamente progettato per ricevere questo.

− Sei la rovina di Dio, Kenma. –

Mi salgono le lacrime agli occhi, i movimenti diventano più meccanici, più stanchi.

− Sei... −

Sono il più grande fallimento della Creazione.

Perché non sono durato un istante, e tutto quel che ero l'ho buttato via in un attimo.

Ma che importa?

L'unica cosa che conta è che tu sia qui con me, solo me, me e basta. Che tu stia cadendo a pezzi per me che mi sforzo, che tu stia guardando con cattiveria il centro della mia testa, che tu sia dentro di me.

Perde attenzione nei movimenti.

Muove la mia testa come se fosse un giocattolo non senziente, su e giù su se stesso.

Tu stai...

Mi stai usando.

Stai usando la creatura più pura che esista per qualcosa come il tuo piacere sessuale.

Sei malvagio, Kuro.

O forse lo sono più io, che mi sto sciogliendo per il modo violento in cui mi tratti.

− Cazzo, Kenma, sei perfetto. –

Cerco di prendere aria, ma mi sballotta così velocemente che non so nemmeno se ci sono riuscito.

Ho chiesto misericordia, a Dio.

A te chiedo perseveranza.

Non ti fermare.

Non farlo.

Non indugiare neppure per un istante.

− Merda, cazzo, cazzo, ca... −

Volgare, così volgare.

− Prendilo tutto, Kenma, su, da bravo. –

Il tono della sua voce trema, il mio cuore sta per esplodere.

Ma quando sento lo strattone verso il basso, quando mi spinge verso se stesso, il riflesso è quello di distendere la gola come riesco, mandar giù la sensazione di fastidio e appoggiare la mia fronte contro la pelle della sua pancia.

Non riesco a respirare.

Non credo di volerlo fare.

− Così, cazzo, così, così, co... −

Uno, due, tre, quattro colpi del suo bacino che sale verso le mie labbra.

Al quinto mi guarda come se mi stesse facendo una domanda. Domanda alla quale rispondo sì con lo sguardo puntato dal basso verso di lui, prima di sentirlo sciogliersi su di me.

Kuro viene, fra le mie labbra.

Viene dentro di me che mando giù, viene per me, per merito mio.

Chiama il mio nome con un gemito che sarebbe dovuto essere più silenzioso ma non si controlla, aspetta di finire dentro la mia gola, sente la pulsazione del mio sangue stringerlo dall'interno.

− Kenma... −

Kuro.

Kuro, oh, Kuro.

Grazie.

Grazie di...

Mi lascia andare che la saliva è radunata sul mio mento, assieme a quel che rimane del suo orgasmo, e mi cola in un filo umido sul mento.

Grazie di avermi tolto Dio.

E grazie di avermi dato qualcosa che potessi pregare nel modo più sbagliato possibile.

− Sei così bello, Kenma. –

Adorazione mentre guarda il dorso della mia mano asciugarmi le labbra, la mia glottide scendere ed adattarsi all'aria che ora posso respirare di nuovo.

Ho la frangia che è scesa sul viso per la foga dei suoi movimenti, ma sento i suoi polpastrelli prenderne le ciocche sottili ed incastrarle dietro l'orecchio con delicatezza.

Le mie ginocchia premono forte per terra, il bacino trema nel tentativo di ricevere un po' di frizione.

Kuro lo vede, sorride.

− Vuoi che ti faccia star bene, Kenma? –

Voglio...

Mi sembra che ci sia qualcosa bloccato dentro di me, come se fossi io stesso una gabbia dorata e qualcuno mi avesse rinchiuso dentro una creatura che cerca di scappare.

Liberala, quella creatura, Kuro.

Liberami.

Tu...

Infila le mani sotto le mie braccia, le stringe sul mio petto e mi tira su se stesso.

Una delle cose più frequenti che facciamo, è rimanere seduti in questa posizione. C'è qualcosa di affettuoso e lascivo nello star seduto sul suo grembo, qualcosa che mi fa sentire a posto e sbagliato nello stesso istante.

− Cosa vuoi che ti faccia, gattino? –

Ha il viso vicino al mio, le punte dei nostri nasi quasi si toccano.

− Voglio che tu... −

Cosa voglio?

Voglio che mi faccia star bene?

Ma quanto bene, e come?

Io...

Prendo una delle sue mani con entrambe le mie, scorro i polpastrelli sulla trama delle nocche, sul palmo e sulle dita.

Poi l'appoggio sulla mia pancia, la tengo ferma, la spingo verso l'interno.

− Voglio che mi rovini qui dentro, Kuro. –

− Lo vuoi? –

Annuisco, spostando appena il mento su e giù.

− Chiedi e ti sarà dato. –

Rido appena, prima che mi adagi delicatamente sul letto, spalle sul materasso e capelli sparsi come una corona d'oro attorno al mio viso.

− Ora ti spoglio, va bene? –

− Va bene, Kuro, spogliami. –

Tira via il maglione, poi slaccia uno alla volta i bottoni della mia camicia.

Il mio corpo fa un forte contrasto col mio viso, ho sempre pensato. Il mio viso è innocente, è delicato e intonso, il mio corpo...

Non passi una vita ad essere maltrattato da chiunque incontri la tua strada e rimani completamente immune, no.

Quando sento il tessuto scivolarmi via dalle braccia e mi lascio cadere un'altra volta sul letto, so che si vede quel che mi è successo.

Secondo anno delle scuole elementari, ho litigato con un compagno di scuola per un giocattolo che volevo e lui non aveva alcuna intenzione di condividere.

"Che cos'è che hai fatto, Kenma?" mi aveva chiesto mia madre, vedendomi tornare con i capelli arruffati e un paio di graffi infantili sul viso.

"Abbiamo litigato."

"Che dice Dio sui conflitti, Kenma, che dice?"

"Non mi ricordo che dice Dio, mamma."

Avevo sette anni, forse otto o forse sei, quando mi ha detto che non mi sarei mai più dimenticato di Dio e ha messo il suo crocifisso d'argento vicino al camino.

Kuro passa le dita sui bordi di quella che più che essere un'ustione è un marchio, mi sento tremare.

Slaccia la cintura in silenzio, la lascia scivolare via.

Mi piacciono le cinture, perché dividono l'intimità dal mondo esterno. Ma anche perché sono qualcosa di così versatile e così particolare, come oggetto in sé.

Credo tre anni, forse quattro, quelli che ho passato a pensare che fosse davvero un oggetto di molteplici usi.

Poteva usarlo per legarmi alla testata del letto e ordinarmi di chiedere perdono al Signore senza farmi mangiare, mia madre, o per frustarmi mentre pregavo la sera.

Poteva stringermela al collo quando arrivavo in ritardo a messa, schiantarmi la fibbia sulla carne se non le piaceva quel che avevo detto.

Ci sono tanti segni e tante cicatrici, sulla parte bassa della mia schiena e sui miei fianchi, di questo.

Lunghe linee rosate che s'inerpicano sulla superficie liscia.

C'è la croce, intagliata sulla mia schiena.

C'è la linea frastagliata del coltello sul mio sterno.

"Tira fuori il tuo peccato, Kenma, tiralo fuori. Lo tiro fuori io, fammi fare, stai fermo, smetti di dimenarti, smetti di...".

Non so quale fosse il problema di mia madre.

Fanatica, di sicuro, ma cos'altro?

Kuro lascia scivolare i pantaloni oltre le mie caviglie, assieme alle mutande, ma invece di toglierle, tira su le calze bianche che ho messo stamattina.

Arriverebbero sotto al ginocchio, se fossi di statura normale, ma lo superano e si stringono appena sull'inizio delle cosce.

Apre le dita, sistema l'orlo, sale e stringe le mie cosce, il mio culo, i fianchi, la vita.

Il problema di mia madre, Kuro, era che amava Dio più di quanto non amasse me.

Ma tu non lo faresti mai, non è vero?

− Perfetto, sei... perfetto. – sussurra a mezza voce, come se non l'avesse detto un istante fa quando ero io in ginocchio su di lui.

Istintivamente chiudo le ginocchia tirandole un po' su verso di me, il mio viso si scalda.

− Non è... −

− Lo è. È vero. –

La mia bellezza, ho sempre pensato che fosse una bellezza coperta.

Senza i vestiti, sono orribile. Sono... sono pieno di cicatrici, di tagli, di croci marchiate a fuoco e simboli del dolore che Dio mi ha dato, sono... brutto.

Prende le mie gambe con le mani, le apre per potersi infilare nel mezzo, si china sopra di me.

− Non c'è niente di più bello di qualcuno che ha sofferto, Kenma. –

Si avvicina al mio sterno.

Quella cicatrice è profonda, è lunga e orrenda.

Voleva aprirmi la cassa toracica.

Non so come io abbia fatto a sopravvivere.

− La malinconia, è la forma di bellezza di Lucifero, Kenma. La malinconia, la vendetta, la tentazione. –

Appoggia le labbra sulla carne rovinata, la mia schiena s'inarca di riflesso verso l'alto.

− Il dolore, su di te, è meraviglioso. –

− È bello anche su di te, Kuro. –

È bello anche nel sangue che cola dai suoi fianchi sulla mia pelle chiara, nelle tue ali spezzate che pendono nell'aria su di me.

È bello nel tuo essere stato ripudiato come me, da chi ti ha messo al mondo.

Sfiora delicatamente i bordi della mia figura, affonda con le dita sulle cosce, le spalanca con più intenzione.

Tremo ad ogni movimento, m'inarco e reagisco nella sensibilità di qualcosa di nuovo.

− Sei così abituato a prendere colpi che sembri quasi spaventato, ora. –

Credo che sia... vero.

Sì, lo è.

È come se il mio corpo fosse teso in attesa del dolore, che però non arriva.

Distende e massaggia i miei muscoli con le dita, tenta di rilassarli.

− Nessuno ti colpirà mai più, ora che ci sono io. –

Delicato e sensuale, il contatto che sale fra le mie gambe.

− Tutti ti adoreranno come meriti. –

Lecca le sue stesse dita, le lascia salire ancora più in su, tocca un punto di me che prima non aveva mai toccato nessuno.

− Fatti adorare, Kenma. –

Affondo i denti sul labbro inferiore, inarco la schiena e gemo quando entra piano, pianissimo con un dito dentro di me.

− Cazzo! –

− Ssh, con calma, rilassati, rilassati. –

− Non farmi... non farmi ma... −

− Non ti farei mai male, Kenma, mai. Rilassati, rilassati. –

Ho il respiro che alza e abbassa ritmicamente il mio petto, il diaframma che si dilata e costringe così velocemente da farmi male.

Ma quello, quello non è spiacevole.

Lui dentro di me, non è spiacevole.

Cerco di aprire gli occhi, lasciar defluire il nervosismo e tornare steso.

− Così, bravo, Kenma, bravo. –

Nervoso, che questa cosa non l'ho fatta mai, eccitato per lo stesso motivo, cerco di dare un verso al mio respiro.

Il palmo della mano di Kuro tocca il mio corpo quando entra completamente.

È... strano, credo.

Non fa male, però.

− Com'è? –

− Va bene, credo. –

Sorride, piega la testa.

− Posso metterne dentro un altro? –

Può?

Apro di più le cosce e allo stesso modo distolgo lo sguardo per non doverlo guardare negli occhi.

− Sì. –

Ride, ma solo per un attimo, prima che lo senta di nuovo inumidire le dita fra le labbra e rimetterle su di me.

Brucia un po' di più, m'irrigidisco di nuovo, ma mi tiene fermo con una mano che preme la mia vita giù contro il materasso, e tutto quel che posso fare è chiudere le labbra ed emettere un piccolo verso di lamentela.

− Sei così stretto, Kenma. –

− È una cosa negativa? –

Trovo il coraggio di guardarlo, anche se di sbieco per non farmi beccare.

Sta sorridendo.

− Non lo è affatto. Sembra che tu voglia tenermi là dentro a tutti i costi, invece. –

Sento le mie guance scaldarsi, il movimento di Kuro farsi più profondo e tradursi in un dentro fuori gentile, delicato.

− Va bene? –

− Va bene, va bene, va... −

− Ti fa male? –

Scuoto la testa.

E Kuro sente solo quel che vuole sentire, capisce solo quel che aveva bisogno di capire. Sembra improvvisamente un'altra persona quando pianta il mio bacino in basso spingendomi con tutto il suo peso e trasforma la gentilezza in foga.

− Ora? –

Non fa male, è solo...

Piega le dita.

Lo sento piegare le dita dentro di me.

E se il primo millisecondo non comprendo cosa stia facendo, quello subito dopo sono inarcato e con la testa gettata indietro che gemo più forte di quanto dovrei.

− Kuro! –

− Ora ti piace, eh? –

Non mi dà un attimo di tregua.

− Kuro, fai piano, Kuro, Kuro, Ku... −

Non mi chiede se può metterlo, il terzo dito, lo fa e basta. Sento la sua saliva colarmi fra le gambe e il rumore osceno del bagnato fra il mio corpo e le sue dita, completamente inebetito da quelle che sembrano scariche elettriche.

− Come pensava che saresti stato altro? –

Non capisco quel che sta dicendo, accetto soltanto tutto quello che mi sta offrendo con le gambe che si spalancano e le labbra divaricate in un urlo silenzioso.

− Dio non ha proprio mai capito un cazzo di te, Kenma. –

Mi tira il collo, stirato com'è perché la schiena si sollevi dal letto.

− Dio t'ha fatto troia e ha preteso che fossi diverso, povero illuso. –

Sento un "ancora" uscire da me, e le dita di Kuro rientrare con più violenza.

− Fa' vedere a Dio quello che sei, su. –

Stringo forte le mani sulle lenzuola, cerco qualcosa a cui aggrapparmi, ma la verità è che non sento nulla che non sia questa inarrestabile onda di puro piacere che mi corre dentro.

Liberami.

Liberami dalla mia gabbia, tirami fuori, distruggi le sbarre e lasciami scappare.

− Prega, Kenma. –

Non ho la voce, non ho la forza, ma la trovo e la ricerco per Kuro.

Pianto gli occhi sui suoi anche nella posizione scomoda in cui sono. Ha fame, Kuro, ha fame di me e ha fame dell'errore che commetto.

Desiderami, adorami di più.

Rovinerei tutto quel che sono, per te.

− Mio Dio, ti amo con tutto il cuore sopra ogni cosa, perché sei bene infinito e nostra eterna felicità. –

Sorride, toglie le dita da me, solleva il mio corpo con le mani, lo tira verso di sé.

Ho il viso umido, inumidito, e credo siano lacrime, le mie.

− E per amor tuo amo il prossimo come me stesso, e perdono le offese ricevute. –

Mi ribalta sopra se stesso, si sente dov'ero steso io fino ad un attimo fa.

Non ho controllo sul mio corpo nonostante stia sopra, e lascio che mi apra le cosce e appoggi le mie ginocchia ai lati della sua vita.

Si allinea con me.

Lo guardo e piango di gioia, di eccitazione e di sforzo.

− Signore, che io ti ami sempre più. –

Spezza la mia prigione, Kuro.

E Kuro lo fa.

Con il rumore della sua voce che s'incastra in qualcosa di volgare e gutturale e il suono della mia più alta e più lamentosa.

Fino in fondo, dentro di me.

Così in fondo che giurerei non ci sia nient'altro, non il mio cuore o il mio corpo.

Solo Kuro.

Solo lui.

Nessun altro.

− Guardati, Kenma. –

Mi tremano forte le cosce, la schiena si stira quando mi giro verso la finestra colpita di taglio dalla luce dell'abat-jour.

Si vede il riflesso.

E quel che si vede è il corpo di Kuro, le sue ali adagiate attorno a noi, il sangue che bagna me e bagna lui, la forma minuta del mio corpo.

Si vedono le sue mani, chiuse sui miei fianchi.

E si vede la croce intagliata sulla mia schiena, che conduce e accompagna lo sguardo verso il punto dove non si capisce chi di noi due sia chi, fusi assieme come siamo.

− Dio non ti perdonerà questo, Kenma, non te lo perdonerà mai. –

Deglutisco la saliva, faccio leva sulle ginocchia, mi alzo e abbasso su di lui e getto indietro la testa quando lo sento toccare il punto giusto dentro di me.

− Tira Dio fuori da me, Kuro. –

Sorride, pianta una mano sulla mia pancia e mi spinge indietro.

Sembra che io stia per spezzarmi.

Potrebbe spezzarmi.

− Strappami a Dio, ti prego. –

Alza il bacino sotto di me facendo leva sulle gambe, la sua pelle sbatte contro la mia.

− Diventa Dio, Kuro, diventa Dio per me. –

Stringe la mascella, ma questa volta non prova a trattenersi, non ci prova neanche. Stringe dove le cicatrici della violenza mi hanno reso brutto, prende dove la sofferenza mi ha rovinato, e tocca mentre sale sempre più a fondo dentro di me.

− Cazzo, cazzo... −

− Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte. –

Non c'è più alcun dubbio, ora, su chi io stia pregando.

E quanto piace a Kuro essere il mio Dio, quanto piace a me pregare qualcuno che si dedica solo a me.

Mi unisco ai suoi movimenti, seguo il suo ritmo, mi abbasso quando lui si alza.

− Ti offro le azioni della giornata: fa' che siano tutte secondo la tua santa volontà per la maggior tua gloria. –

Stringe così forte che credo potrebbe squarciarmi la pelle, ma il dolore non è la violenza fanatica di qualcuno che mi sacrifica per amore di un altro, è la passione inarrestabile dell'adorazione per me.

Adorami come adoro te, Kuro.

Sii così forte, dentro di me, che nessun altro tenti di infilarsi in un posto che ti appartiene.

Apro la bocca per continuare la preghiera, ma le parole ne escono diverse.

− Non preservarmi dal peccato e dammi ogni male. –

− Porca puttana, Kenma, porca... −

Appoggio per bene le mani aperte sul suo petto, sento il cuore che martella contro le mie dita, inarco la schiena e spingo il bacino indietro.

− La tua grazia sia sempre con me e con nessun altro. –

Apro di più le cosce, le spalanco. Se dovessi rompere ogni singolo tendine che le rende tali, per poter accogliere te, lo farei.

Perché è questo il posto di Dio, dentro me stesso.

E questa è la mia chiamata, la mia soltanto.

Mi piego, sfioro le labbra con le sue, ma a lui non basta. Mi spinge verso se stesso, mi apre la bocca con la sua, incastra e intreccia la lingua con la mia.

Qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, voglio di te.

Dammi la tua grazia, mio Dio.

Redimimi dal bene che pensavo di voler fare, dammi la verità, dammi quello che sono.

Apri i miei occhi, apri tutto di me, prendi quel che ti appartiene.

Lo fermo salendo con la mano sotto al suo mento, mi stacco e appoggio la fronte contro la sua.

− Amen. –

I suoi occhi seguono i miei.

Denti stretti, sudore della fatica, forza sopita sotto un corpo così imponente che potrebbe coprire completamente il mio.

I muscoli di Kuro si muovono coordinati sotto di me, per me.

− Amen, Kuro. –

− Ti adoro, Kenma. –

Mani che salgono sulle mie scapole, che percorrono il Dio che mia madre mi ha dato col dolore, che percorrono la benedizione del sangue che mi ha reso come sono.

− Amen, cazzo. –

Mordo il suo labbro fra i denti, delicatamente, le mie lacrime finiscono sul suo viso.

Ho i capelli un casino, sento il sudore colarmi dalle tempie, la pelle tirare, far male per la violenza con cui la tratta e la maneggia.

"Vuoi scoparmi così tanto che non riesci a guardarti allo specchio. Ma mi detesti perché sai che con tutto quello che posso avere, di certo non mi accontenterei di qualcuno come te."

Non mi accontenterei di nessuno, mai di nessuno.

Perché se posso avere Dio, io, che cosa me ne faccio del resto?

Feccia inutile.

Scomparirete nel Giorno del Giudizio.

E bruceranno le vostre anime, perché il mio Dio ha deciso così, e il mio Dio è forse Kuro in quest'istante, ma non sarò forse io stesso quando sarà lui a cadere a pezzi per me?

Lui è il mio Dio.

Io sono il suo.

Nessun altro.

Stringo più forte la mano sul suo mento, pianto gli occhi sui suoi.

− Amen, Sitri. –

Il calore esplode in lui, e con lui esplode in me.

Prima che tutto diventi fuoco, lo vedo sorridermi in completa adorazione.

Sorride, viene dentro di me, io vengo fra noi.

E in quell'istante, non si rivolge a nessun altro all'infuori di me.

Perché non c'è nessuno, all'infuori di me.

Mi bacia.

Mi guarda.

E dice l'unica cosa innegabile.

− Ave, Satana. –

╰┈➤ ❝ continua

again, com'era? se possibile questo è ancora più STRANO e ancora più BLASFEMISSIMO quindi niente vorrei solo sapere come vi sembra non so a me piace un casino ma magari sono io (?)

più che altro ho il grande timore che sia un po' noiosa, perchè di fatto è molto "estetica" e tende ad appoggiarsi più sull'atmosfera che su un susseguirsi di eventi e niente, essendo diversa da tante cose che ho scritto mi rende un po' insicura :D

(per il prossimo ho tirato fuori la mia vecchia copia commentata dell'apocalisse di giovanni quindi andiamo fortissimi ou)

(ah e comunque ora sono top number one della preghiera eh)

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