𝗺𝗶𝗹𝗸 𝗮𝗻𝗱 𝗰𝗼𝗼𝗸𝗶𝗲𝘀 :: 𝟭
⟿ ✿ ship :: KuroKen
⇉❃➶ !AU :: Dark Academia !AU - Demon !AU
➭ ✧❁ SMUT alert :: nella seconda parte
➥✱ song :: "Milk and Cookies", Melanie Martinez
⤜⇾ parole :: 25.448
➸★✺ disclaimer :: la storia è divisa in tre parti, trovate le successive subito dopo
➤♡❆ alert :: questa storia è molto particolare e non saprei nemmeno come descrivervela, ma credo che ci siano due cose che possano dare fastidio a qualcuno. la prima, è che c'è tanto tanto riferimento alla religione cristiana nel senso più blasfemo possibile, quindi se vi sentite offes*, per favore non leggete. la seconda è che kenma ha sedici anni, non diciotto o ventuno come al solito. se vi dà fastidio che sia minorenne e ci sia dello smut, anche qui, non leggete.
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
Sento le ginocchia appoggiarsi dolcemente contro il velluto.
Le cosce non bruciano più della fatica che avevo da piccolo nel ripetere questo gesto quotidiano, anzi si piegano e si flettono con facilità, il collo non tira quando lo piego per toccare il materasso morbido con la fronte, le braccia non tremano quando le tiro su per congiungere le mani.
Tengo gli occhi chiusi.
Apro le labbra quel che basta perché ne esca un solo, singolo filo di voce.
− Dies irae, dies illa solvet saeclum in favilla, teste David cum Sybilla. Quantus tremor est futurus, quando judex est venturus, cuncta stricte discussurus. –
Pregare è un atto così semplice, così puro e limpido, così... bianco.
Mi ha sempre fatto sentire bianco, la preghiera.
Ed eppure è contraddittorio, paradossalmente nero, il fatto che la preghiera che ripeto a me stesso tutte le notti, tutte le sere, non sia il "padre nostro" o il "credo" che mi hanno insegnato i miei genitori da piccolo.
− Tuba mirum spargens sonum per sepulchra regionum, coget omnes ante thronum. Mors stupebit et natura, cum resurget creatura, judicanti responsura. –
La mia preghiera preferita, è il "requiem". È una preghiera di morte, una per i morti, una d'addio e di potenza in qualcosa che nel mio mondo è etichettata come triste.
Non so a chi io dedichi questo "requiem", non so dove sia nato l'amore che provo per questo semplice cantilenare di parole.
A chi sto dicendo di andar via? Di chi sto celebrando la fine?
Di me stesso? Ma no, non sono morto, non desidero morire.
Forse è il fascino nero di qualcosa che mi fa sentire bianco, forse è la parte più recondita di me che a Dio non riesco a nascondere.
− Liber scriptus proferetur, in quo totum continetur, unde mundus judicetur. Judex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit, nil inultum remanebit. –
Bianco e candido nella purezza della notte, nero e scuro nella solennità di qualcosa di malvagio, dentro di me.
Prego da quando ne ho memoria, prego da quando me l'hanno insegnato. Prego per qualsiasi cosa, per qualsiasi problema, cerco ingenuamente di risolvere tutto con parole sante, sacre, importanti.
La prima volta che sono stato picchiato alle scuole medie, ho pregato coi lividi in faccia.
Là, mi sono innamorato del "requiem".
Perché volevo che morissero, e cantavo e speravo la loro morte, la loro rovina, il loro addio. Non è così, che Dio vuole che sia, ma se così m'ha fatto, che si prenda quel che con le sue mani ha dato al mondo.
− Quid sum miser tunc dicturus, quem patronum rogaturus, cum vix justus sit securus. Rex tremendae maiestatis, qui salvandos salvas gratis, salva me, fons pietatis. –
Non sono una persona che piace agli altri.
Non piaccio a nessuno, e ho dubbi sulla questione nella misura in cui riesco male a capirne il motivo. La suora del collegio dove vivo, vedendomi piangere, mi ha detto che il mio problema è lo stesso che aveva Lucifero, la bellezza.
Mi ha detto che sono così bello che dimentico i miei limiti, che gli altri se ne dimenticano quando interagiscono con me.
"Fai venir loro pensieri impuri, Kenma, perché la tua bellezza non può essere fermata, e loro di certo non provano a farlo."
Non so se mi sento... bello. Non sono bello nel modo in cui la società lo vorrebbe, non sono alto, non sono imponente, non sono muscoloso.
Sono femminile.
È questo, il problema.
È che suscito l'attrazione di chi da me, non dovrebbe essere attratto.
− Recordare Jesu pie, quod sum causa tuae viae, ne me perdas illa die. Quaerens me sedisti lassus, redemisti crucem passus; tantus labor non sit cassus. –
Lucifero mi spaventa, come paragone. Mi spaventa perché mi piace, e quella passione che provo nei suoi confronti so che non è corretta.
La Luce del Mattino, la creatura più bella di Dio, l'incarnazione del male.
Dovrei rifuggirlo.
Ma mi piace, tingere di nero il bianco che provo.
− Juste judex ultionis, donum fac remissionis ante diem rationis. Ingemisco tamquam reus, culpa rubet vultus meus: supplicanti parce, Deus. –
L'amore che Dio t'insegna, è un amore molto particolare e sicuramente non convenzionale. Si chiama agape, l'amore di Dio, ed è trascendentale e puro, ti eleva, ti salva.
C'è poi la philia, l'amore amichevole, l'amore familiare, l'amore ricambiato e semplice.
Ma Lucifero non ama con l'agape e non ama con la philia, Lucifero ama con l'eros, ed è quello che agli altri, spaventa di me.
O almeno, questo mi ha detto la suora.
Forse gli sto solo sul cazzo, agli altri, forse non c'entra niente, forse è una spiegazione poetica a qualcosa che in realtà è molto più semplice.
Motivo o meno, prego per loro un "requiem" ogni sera.
Perché li vorrei vedere bruciare all'inferno.
E non piace a Dio, questo, ma piace a me, e in certi momenti mi dico che va bene lo stesso.
− Qui Mariam absolvisti, et latronem exaudisti, mihi quoque spem dedisti. Preces meae non sunt dignae, sed tu, bonus, fac benigne, ne perenni cremer igne. –
Prima pregavo che mi desse qualcuno.
Prima di cantar morte a chi odiavo, pregavo che Dio mi mandasse un amico, un amore, qualcosa che mi facesse stare a posto con me stesso, che mi desse un senso, una mano.
È mai arrivato nessuno?
No.
Non è mai arrivato nessuno.
Premo più forte la fronte sul materasso, la mia voce si alza appena.
− Inter oves locum praesta, et ab haedis me sequestra, statuens in parte dextra. Confutatis maledictis, flammis acribus addictis, voca me cum benedictis. –
Mi hanno bruciato i capelli, oggi, con una scatoletta di fiammiferi in un angolo recondito del collegio. Sempre i soliti quattro pezzi di merda, mi hanno aspettato fuori dalla classe e mi hanno trascinato con loro.
Tenuto fermo per le spalle, schiacciato al muro, non riuscivo a muovermi.
Due cose mi hanno colpito.
La prima era lo sguardo nei loro occhi, pienamente, fortemente erotico, come se la cosa li eccitasse, come se facesse loro piacere osservare i miei occhi pieni di lacrime, la mia rabbia.
La seconda è che dimenandomi il rosario che porto in collo, schiacciato fra il muro e la mia schiena, mi stesse strozzando.
− Oro supplex et acclinis, cor contritum quasi cinis, gere curam mei finis. Lacrimosa dies illa, qua resurget ex favilla judicandus homo reus. Huic ergo parce, Deus. –
È forse una tua punizione, Dio? È una tua punizione perché non sono bianco come fingo di essere? È perché ho guardato quelle persone sorridendo, sperando che il pavimento le inghiottisse e che morissero?
È perché sto celebrando la loro morte da quattro anni ogni singolo giorno della mia vita?
Ma allora perché non hai punito anche loro, mi chiedo, perché?
Punisci me per l'oscurità in cui tu stesso mi hai gettato.
Se mi volessi bene davvero, Dio, forse non mi lasceresti indietro.
Gli ultimi saranno i primi, ma finché sono ultimi, lasciamo che lo siano.
Lucifero, l'angelo caduto per eccellenza, il male, la superbia, l'arroganza, la bellezza sconfinata e l'ego, si dice fosse invidioso dell'essere umano, della nuova creatura di Dio.
Erano fallaci, gli uomini, erano effimeri e volatili come l'aria, nulla avevano della perfezione degli angeli.
Ed eppure Dio li amava lo stesso, e preferiva loro al suo figlio più bello.
Sono Lucifero, io, che odio e sono invidioso delle persone che mi picchiano e fanno male, perché non capisco come Dio possa punire me e non loro per la rabbia che provo.
Ami loro e non ami me?
Porgerei l'altra guancia se me l'avessi accarezzata per farmi sentire che ci sei, ma non l'hai mai fatto, e per aiutare me stesso posso solo sguazzare nel nero che non dovrebbe toccare la mia anima.
− Pie Jesu Domine, dona eis requiem. Amen. –
Puzzo ancora di bruciato, sento ancora il calore spaventoso aprirsi sulla mia pelle, scottarla. Tu dov'eri? Tu mi strozzavi con la croce sul mio collo, invece di aiutarmi.
Ti ho pregato così tanto, così tanto, di darmi qualcuno.
Ti ho pregato di salvarmi, di rendermi diverso se fosse servito, di imbruttirmi o farmi scomparire pur di non dover campare un altro giorno odiato dal mondo per come mi hai creato.
Le lacrime scendono sul mio viso una dopo l'altra.
Come quando avevo sei anni, Dio, come quando avevo sei anni.
Come quella volta che mia madre portò a tutti i volantini scritti a mano per la mia festa di compleanno, un ottobre come un altro, promettendomi che mi sarei fatto degli amici.
Pregai quella sera con le poche parole che ti te conoscevo di darmi qualcuno.
Ma a quella festa non è venuto nessuno.
E io rimango bianco, Dio, ma solo.
Non mi alzo, rimango con la faccia sul letto della mia camera, a piangere come piango tutte le notti, tutti i giorni. Le cosce che tenevo tirate su per potermi inginocchiare nel modo più corretto possibile scendono verso i talloni, le ginocchia si aprono, le mani si stendono sul lenzuolo.
− Perché mi odi, Dio? – chiedo ad alta voce, cercando di fare piano, di non farmi sentire dai miei vicini di stanza.
Non risponde, perché dovrebbe?
Mai l'ha fatto, mai lo farà.
− Perché hai cercato di soffocarmi, oggi? Perché mi vuoi morto? Perché non uccidi loro? –
Mi fanno male, Dio, mi fanno soffrire, mi trattano come se non valessi niente. E allo stesso modo mi fissano come se volessero scoprirmi, svelarmi e avermi.
− Perché non mi hai mai dato niente, perché mi hai sempre lasciato da solo? –
Perché non ho avuto un angelo custode, quando tutto quel che mi sarebbe servito era di essere custodito?
− Tu... −
Mi bruciano gli occhi.
Mi tocco i capelli distrattamente, solo per sentire le punte delle mie ciocche chiare, che sembrano paglia.
Li dovrò tagliare un po', credo, rifarli come li portavo qualche anno fa, a caschetto.
− Tu mi odi perché non riesco ad essere bianco, ma è colpa tua se mi piace il nero. –
È colpa tua se i miei pensieri sono violenti, se sono malvagi.
È colpa tua se canto morte a chi è vivo.
È colpa tua se indugio in scenari scuri in cui rido chiudendo le mani attorno al collo di chi mi detesta, è colpa tua se ho l'impulso di fare del male, è colpa tua se penso di essere l'incarnazione di Lucifero, è colpa tua.
Chiudo la mano attorno al rosario che porto al collo, le dita sottili che s'incastrano fra le pietrine bianche.
Mi è rimasto il segno della trama sul collo, oggi.
Il segno che volevi che morissi.
Il segno che hai provato ad uccidermi.
− Tutto il male che sento, Dio, è solo colpa tua. –
Tiro su la collana oltre il mio capo, la getto dall'altra parte della stanza, incazzato come sono stato poche volte nella vita.
− Sai la fatica che ho fatto tutta la vita, cazzo? Tutta la vita a fare il bravo, tutta la vita a pregare e chiedere scusa e ad essere dimesso per cosa? Per farmi uccidere da te? Per farmi punire perché gli altri mi trattano male? –
Ho la voce rotta, spezzata dal pianto.
Le lacrime sul mio viso sembrano un torrente, un fiume, un ruscello senza fine.
− Ho pregato, ho pregato così tanto. Tu però non mi hai mai dato niente, Dio, niente. Nessuno. –
Se potessi ucciderei anche te.
Se potessi, canterei un "requiem" per la tua morte, se potessi lo farei, perché vorrei che bruciassi anche tu.
Tutto il mondo deve bruciare, per il male che mi ha fatto.
E sarò Lucifero nel dirlo, il Lucifero del Paradiso Perduto, ma regnerò all'Inferno, invece di servire in Paradiso, perché stare sotto di te mi ha solo distrutto, e non c'è speranza che possa salvare l'anima di un sedicenne che nessuno ama.
Io sono stato bianco, quantomeno ci ho provato.
Ci ho provato tanto.
Ma tu hai punito la prima macchia, il primo segnale, invece di salvarmi.
E allora la sai una cosa?
Vaffanculo, Dio, vaffanculo.
− Se non mi vuoi bianco allora diventerò nero, e ti odierò per il resto della mia vita, Dio. – sputo fra le lacrime ad alta voce, lasciando indietro il pensiero che qualcuno mi possa sentire.
E mi accascio sfinito sul letto l'attimo dopo, come se tutta l'energia nel mio corpo svanisse e di me non rimanesse altro che un mucchio di ossa sfinite, stanche ed inermi.
Basta con questa storia.
Basta con Dio.
Basta.
Se non mi ami tu, che sei buono e misericordioso, allora spero che lo faccia chi è dall'altra parte.
Spero che mi ami chi è cattivo.
Perché almeno sarebbe amore, ed è l'unica cosa di cui ho bisogno.
Mi congelo sul posto l'istante in cui sento una mano accarezzarmi la testa.
Mi...
Sei tu?
Sei tu, Dio? Sei venuto a riprendermi? A punirmi, a finirmi, a perdonarmi o a volermi bene? Sei...
− Tu sei bello come Lucifero, Kenma. – mi sento dire.
È una voce bassa, calda, maschile. Ha qualcosa di minaccioso e qualcosa di sensuale, qualcosa di...
Qualcosa di nero.
− Tu sei anche arrabbiato come Lucifero. Quanta rabbia, dentro di te che sei così piccolo. –
Singhiozzo forte.
Forse ho le allucinazioni.
Forse...
− Tu non sei fatto per stare con gli angeli di Dio. –
Lo so, questo, lo so.
− Tu sei fatto per stare con gli angeli caduti, come me. –
Tutta la mia schiena s'irrigidisce.
− Tu non sei bianco, non lo sei mai stato. Tu sei così nero che chiunque ti guardi lo diventa con te. –
Mi muore il respiro in gola quando sento la mano sulla mia testa avvicinarsi alla mia guancia, quando sento il calore di qualcuno avvicinarsi al mio corpo.
− E l'amore che cerchi non è l'amore di Dio, Kenma. È un amore molto più sporco di quello, perché tu sai di essere sporco, e vorresti smettere di fingere di non esserlo. –
Io sono...
Sporco?
No, io sono puro, sono pulito e limpido e bia...
− Tu sei caduto, Kenma. E se invece di rialzarti cercassi di capire quanto è bello cadere, quanto è bello sbagliare, ti sentiresti meglio. –
Mi sentirei meglio?
Ad indugiare nel peccato, mi sentirei meglio?
− Guarda quanta bellezza c'è, nell'essere gli odiati di Dio. – dice la voce, con un tono così calmo, così mellifluo e così allusivo che sento un brivido corrermi lungo la spina dorsale.
Alzo la testa piano.
Non so se ho paura, ma il cuore mi martella all'impazzata nel petto, sbatte e scalpita contro le mie costole.
Trattengo il respiro, mentre mi giro.
− Tu pregavi per l'angelo sbagliato, Kenma. Non ti serve un custode, ti serve un istigatore. –
Ha gli occhi dorati, l'angelo.
Ha gli occhi dorati e le spalle larghe, è alto, torreggia sopra di me in ginocchio. Ha un viso regale, altezzoso, le ciglia scure e folte, i capelli disordinati e neri, la pelle chiara.
È bello, l'angelo.
Ha le ali nere, sembra che grondino sangue contro il velluto del mio tappeto.
Le mie labbra si muovono da sole, nel raggiungere una parola che nella mia lingua identifica quello che vedo.
− Kuro. –
Sorride.
Annuisce.
− Sì, Kenma, sono io. –
Nero.
Lui è il nero.
Lui è quello che non dovrei volere, quello che non dovrei amare, quello che dovrei mandar via.
Ma...
Si avvicina ancora, aspetta che giri tutto il corpo verso di lui. Sono ancora in ginocchio, quando appoggia la mano sulla mia guancia e piega la mia testa verso l'alto.
− Non mi ha mandato Dio e non ho alcuna intenzione di salvarti dal peccato. −
Muove il pollice contro il mio labbro inferiore.
Ha gli occhi che hanno gli altri quando mi fanno del male, nel momento in cui mi guarda. Come se volesse scoprirmi.
Ma c'è una cattiveria più consapevole, in lui.
Non mi picchierà perché odia l'impurità che gli faccio pensare.
Lui mi accompagnerà nella mia caduta, e ne guarderà ogni istante.
− Vorrei vedertelo fare ancora e ancora. –
− Che cosa? –
Muove appena il mio labbro superiore, come se stesse studiando la mia bocca. La fissa, la fissa e la guarda.
− Peccare, Kenma. Voglio vederti peccare e far vedere al mondo quanto bello possa essere il fuoco dell'Inferno. –
Deglutisco la saliva, mi lecco velocemente le labbra di riflesso. Non è un movimento sensuale, le ho secche, ed eppure lo segue come se fosse uno spettacolo.
− E se io non... −
− Non sono qui per tentarti, sono qui perché mi hai chiamato tu. Tu vuoi peccare, e fingere che sia falso non ti porterà da nessuna parte. –
Io voglio...
L'ho detto.
Ho detto che sarei diventato nero.
Ho detto che odiavo Dio.
L'angelo ha ragione.
− Tu sei qui per essere mio, Kuro? – esce dalle mie labbra con un filino incerto di voce, qualche istante dopo.
Sei qui per essere quell'unica cosa solo ed esclusivamente di mia proprietà? Sei qui per non lasciarmi da solo? Sei qui per apprezzare anche la bruttezza della mia anima?
− Io sono già tuo, Kenma. Lucifero regna sugli angeli caduti, sei tu a regnare su di me. –
Regnare?
Maestosa, questa parola, così maestosa.
È un concetto grande però, uno minaccioso, uno spaventoso. Sarò in grado di farlo? Sarò in grado di fermarmi una volta che avrò iniziato?
− Mi vorrai per sempre senza lasciarmi andare mai? –
Annuisce.
− In tutto il male che vorrai fare. –
Sbatto le palpebre, cerco di guardarlo meglio nell'oscurità della stanza.
Bello, imponente, cattivo.
Kuro è la cosa più bella che abbia mai visto, e nulla dei pensieri che genera in me ha a che fare con l'agape, solo con l'eros.
Alzo le braccia verso di lui, che capisce cosa intendo e mi tira su. Lo stringo forte, appoggio la testa contro il suo petto, aspetto che si stenda sul materasso con me sopra e mi avviluppi con le mani e con le ali, che mi protegga.
− Puoi dire un "requiem" per me, Kuro? – gli chiedo, sottovoce.
Tasta il mio corpo con dolcezza pigra, con un po' di sensualità, forse.
− Di cosa vuoi celebrare la morte? –
Mi piego per stare più comodo.
Sento i muscoli sotto di me, il calore, il respiro sulla spalla e le dita sulle parti più nascoste del mio corpo.
− Del Kenma che ama Dio. –
Appoggia le labbra contro i miei capelli, il suo cuore batte contro il mio.
Chiudo gli occhi che ho smesso di piangere, e anzi sorrido.
Chissà se è un sogno.
Lo fosse, sarebbe un bel sogno.
− Come vuoi. –
E le parole rotolano nell'aria l'istante esatto in cui mi sento sopraffare dal sonno.
La mattina dopo, quando mi sveglio, non so neppure se tutto quello che ho vissuto sia reale o un'architettura complicata che la mia mente ha prodotto durante il sonno.
Sono solo, la luce del Sole entra dalle finestre ad arco nella mia camera del collegio e vicino a me, non c'è nessuno.
Ma di una cosa mi accorgo, che un po' mi fa sperare, per quanto forse sia solo un'illusione.
Ho caldo.
Non mi sono scoperto scalciando come faccio tutte le notti, non sono mezzo fuori e mezzo dentro al lenzuolo, e non ricordo di essermi svegliato mai, altra cosa che faccio sempre.
Nella timidezza che provo all'idea di quello che potrebbe essere successo, mi viene da sorridere.
Chissà se esiste davvero, un angelo cattivo che vuole portarmi sulla cattiva strada. Chissà se ho qualcuno, ora, chissà se qualcuno vuole me.
Sul fatto che mi piacciano gli altri maschi, non ho mai avuto molti dubbi. Le ragazze mi hanno sempre fatto un po' paura, non so bene per quale motivo, e non mi sono mai sentito attratto da loro.
Dall'altra l'idea di essere bello, la mia bellezza e il fatto che tutti me l'affibbiassero, ha fatto salire spropositatamente in alto i miei standard, ed è raro che trovi attraente qualcuno.
Mi correggo, qualcuno della mia età.
Sedici anni sono un'età infelice, per i maschi.
Sono idioti, sono scemi, dimostrano e devono dimostrare, sono nulla più di un ammasso di ormoni che fa di tutto per mettersi in mostra.
Sforando più avanti trovo ragazzi molto più belli.
Ma per quanto sappia l'effetto che faccio alle persone, non ho mai avuto l'occasione, il coraggio e la voglia di fare nulla con nessuno.
Sono timido, sono puro.
Forse dovrei dire "lo ero", ma non sono perfettamente certo neanch'io, di cosa sia successo.
Mi tiro su dal materasso con calma, una gamba alla volta.
Leggo la sveglia analogica e mi accorgo che l'ora non è particolarmente tarda, ho il tempo di fare con relativa calma.
Sono tendenzialmente pigro, nella vita, ho sempre trovato fastidioso l'orario così anticipato delle lezioni per poter unire la preghiera mattutina all'inizio della scuola, ma oggi mi sento stranamente più pimpante, più allegro.
Sarà il sogno.
Sarà la speranza di scoprire stasera cos'altro mi riserva la notte.
Ci metto un po' più del solito, al bagno, perché rimango a fissarmi di fronte allo specchio per minuti interi, prima di sollevare le forbici da cucito e tagliare tutte le punte bruciacchiate dei miei capelli.
Li ho sempre avuti lunghi, ma credo che a ragion veduta mi stiano meglio così, pari e regolari attorno al viso.
Metto l'asciugamano sul fondo del lavandino, osservo le ciocche cadere una alla volta, studio il mio riflesso allo specchio.
Non so come possano venire sul retro, ma credo che vadano bene.
Non che cambi molto, se la linea è ritta o un po' sbavata, ho timore e sensazione che questo gioco di bruciarmi i capelli potrebbe andare avanti ancora per un po' e che io debba ritagliarli un'altra volta.
Spero solo di non doverli avere corti.
Non mi piacciono i capelli corti su di me.
Forse se l'angelo cattivo esistesse davvero potrebbe aiutarmi su questo versante.
Forse potrebbe ucciderli, distruggerli, e i miei capelli rimarrebbero come sono.
Scaccio il pensiero scuotendo il capo, finisco di sistemarmi.
Quando torno in camera, mi trovo stranamente impegnato a ragionare su cosa indossare, come se dovessi presentarmi a qualcuno, come se dovessi farmi carino.
Che questa storia del peccare mi abbia messo voglia di farmi vedere?
Non ne ho idea, davvero, non ce l'ho.
Mi sfilo la maglietta delicatamente.
La schiena è per me un punto delicato, un punto debole. È dove ho sofferto tanto tempo il fanatismo religioso dei miei genitori, dove mia madre ha tagliato una croce con un coltello da cucina per benedirmi, secondo lei, un giorno che ero stato particolarmente disobbediente.
Quando guardo la cicatrice, non so se sia bella o orrenda, perché c'è qualcosa di delicatamente macabro, di elegante e spaventoso.
Corre su tutta la spina dorsale, il braccio lungo, e quello corto connette le scapole.
Bella benedizione, madre.
Ti ringrazio.
Si vede che non sono mai stato tanto tagliato per essere amato da Dio.
Non mi perdo in ragionamenti astrusi e non perdo il tempo che non ho, quando scelgo un maglione bianco e un paio di pantaloni beige, niente di appariscente, niente di impuro.
Vesto solo colori chiari.
Colori chiari e caldi, sulle tonalità del marrone, del caffelatte, del nocciola. Mi stanno bene e mi fanno sembrare un angioletto, diceva mia madre.
Devo piegare i pantaloni al fondo, non sono di statura troppo alta, e infilare un cardigan dello stesso colore dei pantaloni aperto sul corpo per non rischiare di sentire freddo.
So di essere bello, vestito bene.
So che mi guardano, che mi odiano di più perché suscito in loro maggiore desiderio, ma non m'importa. Ho la sensazione di essere al sicuro, oggi, e non so se sia reale, non so se sia corretta.
Mi tocco il petto di riflesso, e mi tremano le mani quando mi accorgo che il crocifisso non c'è.
Dove...
Ah, sì.
L'ho lanciato per terra, ieri sera, nel marasma di tutto quello che stava succedendo.
Ma... se non ce l'ho indosso, non vuol dire forse che tutto è successo davvero? Non vuol dire che...
Lascio perdere la questione quando il rumore delle persone che escono dalle loro stanze permea il muro e mi raggiunge.
Ridono.
Ridono e si divertono come ogni santa mattina, i miei compagni, perché loro si vogliono bene, loro si amano, loro sono bianchi e lucenti e felici, a differenza mia.
Non lo vado a riprendere, il rosario.
Non servirebbe a nulla.
Sarebbe solo un'altra presa per il culo.
Registro in modo meccanico il tempo che impiego a pescare i miei libri nella stanza ed infilarli uno alla volta nella borsa di tela con cui li porto in giro, quello che uso per cercare i miei enormi occhiali da vista e la mollettina che tengo a lato del viso per non far cadere i capelli in faccia, quello che ci metto a finire di prepararmi.
Esco che gli altri sono tutti già andati.
Non mi piacciono, e rischiare di arrivare tardi è nulla in confronto al disgusto che suscitano in me.
Il collegio è grande, è spazioso ed è un edificio classico gotico francese, nonostante io non sia in Francia. Ha le pareti di mattoni, gli archi a ogiva, la voglia di crescere fino al cielo e le vetrate di mille colori, i gargoyle in cima alle torrette e gli archi rampanti che sfociano nei giardini.
È una struttura preziosa, esclusiva, ma dentro mi sembra più marcia di una qualsiasi scuola pubblica.
È una scuola cattolica, privata, con ottimi insegnati, dove si prega e si impara, che produce buoni cristiani e buone persone, questo è quello che dicevano sul dépliant che mia madre ha portato a casa.
In realtà è un castello di bugie.
Perché Dio è uno stronzo, non ci sono buone persone, ed ogni cristiano è soltanto un altro illuso che segue l'amore che gli altri non potranno dargli mai.
I miei passi ticchettano sul pavimento in pietra.
Non essendoci nessuno, fanno l'eco nel vuoto, e mi accompagnano ogni istante.
Questo, è Kenma. Il ticchettare dei passi nella solitudine, il rumore che rimbomba, l'aria pulita ma scura di un giorno senza Sole, il rintoccare eventuale del campanile che m'invita a pregare la morte di qualcun altro, anche se non è quello che dovrei fare.
Ho una strana fretta, oggi, di arrivare a lezione.
Mi sembra che qualcosa o qualcuno mi stia aspettando.
Non c'è nessuno che mi aspetta.
Mai.
Nessuno che non sorrida all'idea che Kenma non c'è.
Mi scosto i capelli dal viso, pinzo la frangia con la molletta, sistemo meglio gli occhiali quando il corridoio si apre nello spazio dedicato alle aule, e faccio mente locale alla ricerca della mia.
Non siamo tanti studenti, saremo tre centinaia in totale per tre anni di liceo, cinque classi ciascuno, nulla di più, nulla di meno.
I grandi mi piacciono più dei miei coetanei, quelli dell'ultimo anno, intendo. Ce n'è qualcuno carino, qualcuno che sembra simpatico, qualcuno che mi fissa un po' troppo in mensa.
Del secondo anno non conosco quasi nessuno.
Del mio mi odiano tutti.
Mi sposto verso l'aula di scienze con calma, controllando che nessuno sia in giro, controllando bene di essere l'ultimo. Talvolta capita che mi aspettino prima dell'aula, prima della porta, che mi ordinino di andarmene, saltare lezione e prendermi la punizione dopo, ma oggi sembra di no.
M'infilo in classe in silenzio.
Il professore ancora non c'è.
A scuola non sono bravo, non sono scarso, sono nell'estrema mediocrità che all'uomo sembra tanto minacciosa, ma che invece ritengo essere abbastanza confortevole.
So che se mi applicassi sarei migliore, ma passo troppo tempo a navigare in me stesso per dar peso allo studio, per cui tengo quel che già ho.
Le risate che sentivo da fuori si spengono, quando mi avvicino al mio banco, e mutano in sussurri malefici, a cui però ormai neppure do più peso.
Sento una risatina femminile, una maschile, occhi che mi fissano.
Non sono il tipo da rispondere alle provocazioni, più un sognatore di vendetta cruenta, ma mi diverto qualche volta a stuzzicarli, per il puro gusto di avere ragione sul motivo per cui mi detestano così tanto.
Mi siedo piano, vicino alla finestra, spargo i libri sul banco, mi appoggio con la spalla sull'infisso e lascio che da quella parte i capelli ricadano in avanti.
Li guardo, uno alla volta.
Vorreste mangiarmi, lo vedo, lo so, lo sanno tutti.
Ma vi hanno detto che è sbagliato, che io sono sbagliato per voi, e non sapete come fare a mandar via quella sensazione, quel prurito, date la colpa a me.
Sorrido, mi lecco le labbra, fingendo una distrazione nel gesto che non esiste.
Ginocchia che si chiudono, è quel che vedo.
Ginocchia di adolescenti che si ecciterebbero per una folata di vento spremersi le une contro le altre in un tentativo di allontanarsi.
Me le daranno più forte, oggi, perché avranno più peccati da espiare su di me, ma c'è una soddisfazione nell'avere potere che non saprei neppure come descrivere.
Lascio perdere tirando avanti le mani e appoggiando il mento contro le braccia.
Almeno ho qualcosa da aspettare, oggi.
Posso aspettare di addormentarmi, e rivedere quell'angelo cattivo che parla di peccato, e sinceramente non vedo l'ora di farlo.
Non mi sentivo così bene con me stesso da un po', e c'è stato qualcosa di così forte, dentro di me, quando l'ho visto e mi ha toccato, che non credo dimenticherò mai quella sensazione.
Mi mordicchio l'interno della bocca, guardo la lancetta dei secondi arrancare in avanti, le voci smettere di sussurrare e ricominciare a ridere, forse di me, forse no, non ci faccio caso.
Non amo le lezioni, ma nessuno mi picchia quando faccio lezione, quindi sono accettabili, credo, ancora accettabili. Non seguo molto, diciamo pure che non seguo niente, ma sono un attimo di pace nel turbamento che è la mia vita.
Mi fisso le dita e le apro fra di loro, sono corte e sottili, ricordo quelle dell'angelo come molto più lunghe.
Aveva un bel viso, un bel corpo.
Ma le mani...
Quando ha messo la mano sul mio viso, quando ero in ginocchio e mi guardava dall'alto, ho sentito qualcosa accendersi dentro di me.
Belle mani.
Bellissime mani.
Lascerei far loro ben più di quanto non mi concederebbe la purezza che vanto di avere.
I ricordi sono fumosi, ma sono belli, e mi ritrovo ad immergermi in essi nell'attesa che la lezione inizi. Più grande di me, ben più grande nell'età e nella corporatura, mi guardava come se mi adorasse, come se mi conoscesse.
Nessuno mi aveva mai detto, prima di ieri sera, che non fossi puro.
Mi dicono spesso, quelli che mi picchiano, che mi odiano. Ma concludono con il "vai a frignare da Dio come fanno i leccaculo come te", riconoscendo il mio legame così intrinseco con la religione, riconoscendo la mia fede.
Kuro ha detto che sono completamente, definitivamente nero.
E che c'è il male dentro di me.
E che ho la bellezza di Lucifero, la sua rabbia.
Mi viene da sorridere, quando ci penso.
"Lucifero regna sugli angeli caduti, sei tu a regnare su di me."
Sarebbe divertente, regnare su di te, devo ammetterlo. Ti ordinerei di fare così tante cose, tutte sbagliate, tutte cattive, tutte minacciose e orribili. Ti ordinerei di volermi e ti ordinerei di toccarmi, di uccidere chi mi fa star male, di rovesciare questo schifo di scuola, di bruciare il mondo.
Ti ordinerei di uccidere Dio, anche se non so se potresti farlo.
Ti ordinerei di farlo sparire, perché non mi ama, non mi ha mai amato, e ora anch'io lo detesto come lui detesta me.
Credo anche che ti ordinerei di farmi cose che mi vergogno a dire ad alta voce.
Perché tu sì, Kuro, che fai a me l'effetto che penso di fare agli altri.
Mi fai venire pensieri impuri.
Tanti pensieri impuri.
Credo forse persino un po' troppi.
Cerco di riconnettermi alla realtà presente con un sospiro, mi tiro su e mi siedo meglio, sento la porta dell'aula chiudersi e immagino che il professore sia entrato, rivolgo lo sguardo alla cattedra.
Tranne che l'uomo di mezza età che fa quest'ora di solito non c'è, e quel che vedo è qualcosa che credevo fosse proprio e peculiare di un mondo esistente solo nella mia testa.
Che cosa?
Che chi fa qui?
Perché è qui?
Cosa sta facendo?
Io...
Rimango esterrefatto, immerso e travolto dalle mie emozioni.
Lui esiste, Kuro esiste, Kuro c'è, è reale. Non lo vedo solo io, lo vedono tutti, lui c'è, lui non svanisce, non è svanito.
È un angelo caduto per davvero, o è un professore?
Chi è?
Perché mi guarda, quando posa i libri sulla scrivania, perché non rivolge neppure un'occhiata veloce a nessun altro e fissa le iridi dorate su di me?
Perché il mio cuore batte così veloce?
Perché sono io, ora, a spremere fra loro le ginocchia?
Perché vorrei alzarmi e gettargli le braccia al collo, dire agli altri che è mio, tenermelo per me e solo per me?
Io...
− Sono il vostro nuovo professore di Scienze. –
La voce è la sua, è quella, è lei. Bassa, calda e melliflua, sensuale e ruvida, suadente. Non è allusiva come lo è stata ieri sera, non è il grido d'attrazione del male, ma è ugualmente piacevole, all'udito.
− Mi chiamo Kuroo Tetsurō. –
Kuro.
Non allungare il suono, non serve.
Kuro, tu sei Kuro.
− Rimarrò con voi fino alla fine del semestre. –
Labbra che si muovono, voce che dice, voce che parla, ma è rivolto completamente verso di me.
Mi sento al centro dell'attenzione e mi piace, cazzo, quanto mi piace.
Mi fissa come se volesse inchiodarmi sul posto, come se volesse infilarsi dentro di me passando dalle pupille.
Sorride.
Sorrido io.
E poi tutto si spezza.
− Che è successo all'altro professore? – interviene qualcuno che di noi due non fa parte, che è esterno, che odio con tutto il cuore per il solo motivo di averci interrotti.
Kuro pensa la stessa cosa, si vede, perché c'è violenza, in lui, quando si gira.
− È morto. –
La classe ride.
L'alunno che ha fatto la domanda, ride. Anche Kuro, anch'io, ridiamo tutti.
Ma non c'è niente da ridere, no, non c'è.
È la verità, non è vero?
È la verità.
Come l'hai ucciso? L'hai fatto soffrire, l'hai mandato dall'altra parte nel sonno? L'hai strangolato o pugnalato, o hai solo aspettato che succedesse come se fosse un gioco?
Riporto lo sguardo su di lui che lo riporta su di me.
− La prima cosa che vorrei fare con voi è cambiare i posti. La disposizione non mi piace. – dice, concedendosi di lasciar andare il mio sguardo per un istante.
Batte le dita sulla scrivania.
− Avete qualcosa in contrario? –
− In realtà i posti sono... −
Arbitrari? Sì, lo sono, uno si siede dove capita tutti i giorni, è così.
− E non potete fare un'eccezione per la mia lezione? Su, non mi sembra una richiesta improbabile, ragazzi. –
Riconosco la suadente tentazione del diavolo, in lui, quando vedo il modo in cui sorride. Non impone, non urla e non grida.
Insinua.
Suggerisce.
Prende senza farsi vedere, s'infila, s'infiltra.
− Insomma, credo che... sì, possiamo farlo. – risponde un altro, e Kuro sorride, e qualcuno sospira.
Al sospiro, mi accendo come un fiammifero.
Chi è stato?
Chi?
Mio, cazzo, mio. Il mio angelo, il mio, mio.
− Tu, vicino alla finestra, siediti qui. –
Cade il silenzio quando si rendono conto di chi Kuro stia chiamando, e quel qualcuno... quel qualcuno sono io.
Mi giro per guardarlo e lui guarda me.
− Scusi, non ho capito dove. – rispondo, perché ero troppo occupato a cercare qualcuno da detestare e non ho visto.
− Qui davanti. –
Indica con un gesto del capo il banco centrale, quello di fronte alla scrivania, quello... quello più vicino a lui.
− Per la tua compagna non è un problema spostarsi, no? – aggiunge, riferendosi alla ragazza seduta dove vuole che ci sia io.
Lei mi fissa, e vedo l'odio, vedo... vedo l'invidia.
E l'invidia mi piace, negli occhi degli altri, perché mi fa sentire importante.
− No, non è un problema. –
− Perfetto, allora spostati. –
Rude, così rude. Dove vuoi che scappi, Kuro? Che c'è, non vuoi perdermi di vista?
Silenzio tombale quando mi alzo, silenzio tombale quando mi sposto e trasferisco i miei libri sul legno di un banco sul quale non sono mai stato.
Kuro circumnaviga la sua scrivania, si appoggia, incrocia le braccia.
Alza una mano, indica due persone dietro.
− Voi due, fate a cambio. – dice.
Sta... facendo finta, per non destare sospetti, credo. Oppure si diverte a fare cose senza senso, potrebbe anche essere, potrebbe darsi.
Colpo con la parte bassa della schiena per staccarsi dalla cattedra, cammina verso di me.
− Anche voi due, fate a cambio. –
Un passo, un altro, appoggia l'osso del bacino sul mio banco.
Tengo gli occhi bassi, incollati al mio libro, anche se mi sembra che qualcosa di magnetico stia cercando di tirarmeli su.
− Voi due. –
La sua voce è sopra... sopra di me.
Io...
Tiro su lo sguardo.
Mi sta guardando anche lui.
Alza un angolo della bocca.
Si lecca le labbra.
Passa oltre.
− Anche voi due, poi avete finito. –
Mi sembra di star tremando.
Quante cose, vorrei fare, quante cose. Vorrei sporgere la mano, toccarti, stringerti fra le dita e controllare che tu esista, che tu sappia chi sono, che tu ti ricordi di me.
− Mi serve un referente di classe, avete un rappresentante? –
Uno di quelli dietro alza la mano.
Kuro storce il naso come se gli desse fastidio.
− Naah, tu no. –
− Perché? –
Ride, ridacchia, come se si stesse prendendo gioco di lui.
Fallo, Kuro, fallo. Lui era quello che mi teneva fermo, ieri, quello che mi ha stretto al muro mentre chiedevo loro di smettere.
− Secondo me non vai bene. – risponde, e vedo come la sua mascella si contragga appena, al pronunciarsi delle parole.
Lo sa?
Lui lo sa?
Come fa a saperlo?
Come...
− Chi altri si vuole proporre? Altrimenti scelgo io. –
Tre mani alzate, tre ragazze. Kuro le guarda, piega la testa, le osserva sciogliersi come neve al Sole di fronte ai suoi occhi.
− Voglio... − alza la mano verso di loro, le indica una alla volta.
Poi sorride, col solito sorriso, col solito alzarsi di un lato della bocca.
− Voglio te. –
Nessuna delle tre ragazze vede la bella mano di Kuro indicarla.
Lui...
Indica me.
− Come ti chiami? –
Piego il mento verso l'interno, sbatto le palpebre prima di guardarlo sopra di me, che mi guarda.
− Kenma Kozume. –
− Faresti questo per me, Kenma? –
Annuisco appena.
− Perché io e non loro? –
− Perché ho deciso che lo fai tu. –
Sorrido, ed è davvero raro che lo faccia.
− Va bene, allora. –
− Perfetto. –
C'è borbottio, nella classe, ma è un borbottio confuso, come confuso sono io. Sembra che nessuno stia capendo, sembra che la situazione non sia comprensibile, ma dall'altra, non so quanto me ne importi.
Lui è qui, il resto, che importa?
− Dove siete arrivati, Kenma? –
− Ai fenomeni geologici. –
Kuro ride.
− Tutti avevano detto a Dio che le montagne con dentro la lava fossero un'idea di merda, ma non è mai stato particolarmente propenso ai consigli. – scherza.
Di nuovo tutti ridono, come se fosse una battuta.
Lo è?
− Vediamo se mi ricordo qualcosa. – aggiunge.
Se ti ricordi qualcosa di quello che hai studiato?
O se ti ricordi qualcosa di quello che hai visto?
Cammina avanti e indietro nel corridoio centrale formato dai banchi.
− I terremoti li avete fatti? –
Qualcuno apre bocca, ma non risponde, non lo fa.
Kuro sta chiedendo a me.
− Sì. –
Li abbiamo fatti la settimana scorsa. Hanno pensato che fossero divertenti, i terremoti, tutti gli altri, così si sono attaccati al mio banco e hanno cominciato a scuoterlo forte, sempre più forte. Mi sono caduti tutti i libri, ho dovuto raccoglierli almeno una decina di volte.
− Allora mi sa proprio che vi devo parlare dei vulcani. Non avete idea di quanto lunga sia stata quella discussione, davvero, se ci penso mi viene ancora da ridere. Sette giorni, eh? Sette giorni solo quelli che abbiamo litigato. –
Si sta riferendo alla genesi?
Perché tutti ridono e nessuno sente che c'è qualcosa di strano, in quest'uomo che parlando di Dio dice "noi"?
Si gira da me al fondo della classe, per parlare a tutti.
Nell'attimo esatto in cui il suo sguardo lascia il mio, sento una mano avvicinarsi da dietro, prendere i miei capelli.
Li tira in basso.
Fa male.
Fa...
− Oggi ti ammazziamo, Kenma. Oggi ti ammazziamo per davvero, cazzo. – mi sento dire da dietro, con un tono sussurrato che giusto io posso sentire.
Deglutisco la saliva.
− Che cosa ho fatto? – provo a ribattere.
− Sei peggio del solito, oggi, fai più schifo del solito. Oggi ti ammazziamo. –
Mi guardo le mani dall'alto.
Non tremano, ora, non di paura, non di terrore.
Sono...
− Professore? –
Kuro si gira alla velocità della luce.
− Kenma. –
− Il mio compagno mi minaccia e non riesco a seguire. –
Perde il sorriso.
La sua bocca si appiattisce in una linea, prima di tornar su un'altra volta, ma meno convinta, meno elegante.
− C'è un posto dove ti sentiresti più a tuo agio con la lezione, Kenma? Vuoi spostarti di nuovo? –
Scuoto la testa, i capelli ballano col gesto.
− Vuoi spostare il tuo banco vicino alla cattedra? –
Sorrido, annuisco.
− Mi piacerebbe, sì. Grazie, professore. –
− Non c'è problema, Kenma. –
Mi alzo, trascino il banco con me.
Fa un rumore fastidioso, troppo forte, come se squarciasse qualcosa.
Mi siedo con soddisfazione, a fianco della cattedra, un attimo dopo, solo per poter girare il capo e guardare Kuro un'altra volta.
Ha la mano appoggiata sul lato del banco dello stronzo che era dietro di me.
Non dice niente, lo guarda, e quello trema.
Chissà cosa sta guardando, chissà cosa gli ha fatto vedere.
In un attimo, la tensione finisce, la sua voce torna normale e torna melliflua a raccontare dei vulcani, che a quanto pare Dio aveva pensato meglio, ma alla fine sono usciti un po' una roba improbabile.
E passano i secondi, i minuti, che nulla di quel che dice si sedimenta nella mia testa, già piena di un mare di pensieri che non so se mai avessero prima attraversato la mia mente.
Alto, così alto che potresti schiacciarmi, distruggermi e farmi a pezzi.
Di una bellezza così innegabile e così sfrontata, Kuro. Tutti ti guardano, maschi, femmine, chiunque, ed eppure sono soddisfatto nel dire che non possono averti, non possono e non potranno mai.
Perché tu sei mio, Kuro.
Hai detto che sei mio.
Se ti aspetti che ritragga la mano, se ti aspetti che indietreggi, hai scelto il sedicenne sbagliato.
Trovo una gioia un po' rabbiosa nell'osservare come qualche ragazza lo guardi.
È bello, vero? È così bello, lui, così bello. Sprizza cattiveria e sprizza tentazione da tutti i pori, e la vostra fede è troppo giovane per respingerlo.
Ma non è il vostro peccato, non lo è, non lo sarà.
È il mio.
Quindi sì, mi arrabbio, nel vedere questo patetico tentativo di furto, perché non so come possano pensare, come possano anche solo immaginare nelle loro teste di prendere qualcosa che appartiene a me.
Ma mi rende felice, perché mai nella vita mi sono sentito invidiato, e l'invidia altrui ti appoggia su un piedistallo, sopra, più in su.
Si gira a guardarmi di tanto in tanto.
Il suo sguardo cambia, quando guarda me.
Sembra distante e distaccato con gli altri, ma nei miei confronti c'è un'intimità diversa.
Un professore, eh?
La volevi sbagliata, questa cosa, impura e malsana, pericolosa. Avresti potuto fingere di essere un altro studente, o visitarmi quando nessuno l'avrebbe saputo, ma no, tu hai voluto fare questo, per vedermi sbagliare.
Ha detto che voleva vedermi peccare, ma non credevo intendesse in modo così palese.
Chissà cosa direbbero gli altri, mi chiedo, chissà.
Chissà cosa direbbero se sapessero che ieri eri addosso a me, accanto a me, che parlavi a me di notte, in camera mia, in un luogo così privato.
Nessuno mi farà più del male.
No, Kuro, nessuno.
Perché ci sei tu, e tu mi proteggi, e tu mi dai la vendetta che cerco.
Come ho potuto pensare che il mio ruolo fosse nelle schiere di Dio?
No, non lo è.
Il mio è nel punto più basso dell'Inferno, nel male, nella caduta, nella rabbia, nella violenza.
Non è forse così?
Ad un certo punto, torna a sedersi sulla cattedra, vicino a me. Guarda di tanto in tanto la mia gamba che balla oltre il banco, le mie mani che sfogliano la carta, il mio viso.
Sembra che voglia mangiarmi, dal tipo di sguardo che mi riserva.
Divorarmi, inghiottirmi, farmi scomparire.
Mi fa sentire piccolo, minuto ed indifeso, e l'attimo successivo grande, forte e importante, perché in quel modo guarda solo me.
A che cosa stai pensando, Kuro?
A come uccidere chi mi odia?
A come salvarmi da me stesso?
A come toccarmi quando ne avrai l'occasione?
Parla di una cosa e ne pensa un'altra, si vede, ma non ho la minima idea di cosa sia nascosto nella sua mente, ed immaginarlo mi intriga, ma mi confonde.
L'ora non passa lentamente, Kuro ha talento per questa cosa, o forse è solo più coinvolgente perché racconta qualcosa che in prima persona ha vissuto.
L'ora rintocca piano che lui sta ancora parlando, ed è quando sento quel rumore, che mi sembra di venir catapultato giù da una rupe.
E adesso?
È finita, e adesso?
Adesso...
− Professore, non abbiamo fatto la preghiera del mattino. – dice qualcuno dietro di me.
Ah.
È vero.
Non me n'ero accorto.
Non ci avevo pensato.
Kuro sorride, piega la testa.
− Dio non vi odierà se saltate una preghiera. –
− Ne è sicuro? –
− È probabile che vi odi già per molto meno. –
Devo trattenerla, la risata, ma se ne sente un inizio.
Sono l'unico che ha riso.
Stupidi stronzi, non hanno la minima idea di cosa lui stia parlando.
− Avete lezione qui alla prossima ora? –
− No, nell'aula a fianco. –
− Allora andate, che state qui a fare? –
E ora al contrario, ridono gli altri ma non rido io.
No, no, non me ne voglio andare. Voglio stare qui, qui con te.
E se di là il professore non ci fossero e mi picchiassero? E se mi tirassero i capelli durante una qualsiasi spiegazione? E se...
Mi tiro su dal mio banco con i bordi delle labbra tirati verso il basso.
Non mi piace.
Non voglio.
Fai qualcosa, fai qualcosa per cambiare questo, io...
Non faccio in tempo a farne neppure uno, di passi, che una mano si stringe attorno al mio polso.
Bella mano, dita lunghe, contatto delicato.
− Dite al professore della prossima ora che Kenma è qui con me. Devo solo parlargli un attimo, poi lo faccio tornare in classe. –
Qualcuno di quelli che ancora non è uscito, storce il naso.
− E perché dovrebbe parlare con Kenma? È qui da un'ora. – è quel che si sente, anche se probabilmente voleva essere un commento privato.
Kuro sorride.
− Vorrei solo capire a che punto del programma siete, per sapere che cosa fare. –
Sospiro di comprensione, sospiro di fastidio.
Non mi ha lasciato andare, in tutto questo.
Tiene ancora il mio polso con la mano.
Mi sembra che piccole scariche elettriche partano dalle sue dita sulle mie, salgano come rampicanti sul mio corpo.
Ancora, ancora, ancora.
Il mio cervello grida "ancora".
Sali, con quella mano. Stringi le mie braccia, i miei fianchi, il mio viso. Mettila dove non è appropriato che sia, dove non dovrei volerla, dove amerei che fosse.
− Va bene. – risponde poi qualcuno.
Iniziano a defluire.
Ad uscire, guardandomi male, lontano da me.
Uno per uno, uno per uno.
Finché non arriva l'ultimo, e Kuro lo guarda, e gli sorride.
− Chiudi la porta. –
− Va bene, professore. –
La porta si chiude.
E il mondo di fuori, rimane fuori.
Kuro mi lascia andare, e quando lo fa è più istintivo che volontario, il versetto di lamentela che esce dalle mie labbra.
Lo sente, ma non dice nulla, si siede alla cattedra e batte due volte sulla superficie di fronte a lui.
Vuole che...
− Siediti qui, davanti a me, Kenma. –
− Ma se qualcuno... −
− Se qualcuno apre e ci vede lo uccido. –
Brivido sulla schiena.
Lo faresti?
Lo faresti per me?
Lo faresti per proteggermi?
Ci metto un attimo, a raggiungere la cattedra e spingermi su. Sono di lato, che il suo corpo nel centro non mi permette di scivolare, a meno che...
− Apri le gambe. –
Osceno.
Non è osceno?
Apro le gambe.
Prende una coscia con la mano e mi fa strisciare sulla scrivania finché non gli sono esattamente di fronte, le ginocchia spalancate per far posto anche a lui, il respiro mozzato.
Mi... mi guarda.
E sento il sangue fluirmi in viso e farlo diventare rosso.
− Ciao, Kenma. –
− Ciao, Kuro. –
Siamo da soli.
Siamo... da soli.
Sale con le dita su di me, le chiude sui miei fianchi.
Si... si toccano quasi.
− Ti ricordi di me, vero? – chiede, anche se immagino sia una domanda retorica.
Annuisco senza parlare.
− Sei felice di vedermi? –
M'intimidisco a rispondere, e di nuovo, non faccio altro che annuire.
− No, Kenma, con le parole. Voglio che tu me lo dica con le parole. –
Deglutisco, sbatto le palpebre.
− Sono... sono felice di vederti. –
Stacca la schiena dalla sedia, si avvicina a me.
− Quanto? –
− Ta... tanto. –
Sorride con metà della bocca, mi prende una guancia.
− Anch'io sono felice di vederti, Kenma. –
Abbasso lo sguardo e mi fisso le cosce dall'alto.
− Di vedere solo me, vero? –
− Eh? –
− Sei solo felice di vedere me, o anche gli altri? –
Ride appena, si sporge di più.
− Non me ne frega un cazzo degli altri. –
Il mio cuore salta un battito, il mio corpo trema e la timidezza scompare per un istante, quando catapulto le mie braccia dietro il suo collo e stringo forte.
Rimane un attimo interdetto, ma ricambia l'abbraccio appena si rende conto di cosa io stia facendo.
Ride.
− Ti comporti proprio come se fossi un gattino indifeso, tu. –
− Mi piace, dimmelo ancora. –
− Che sei un gattino? –
Faccio "sì" con la testa.
Mi piace, mi sembra affettuoso.
Sei affettuoso con me, non è vero?
Muove le mani sulla mia schiena, cerca l'orlo del cardigan e ci s'infila sotto, mani nude su pelle nuda.
− Ti guardo da così tanto tempo, Kenma. – mormora.
− In che senso? –
− Rincorro la tua anima dalla prima volta che l'ho vista. –
La mia anima?
La mia...
Tu vuoi me, solo me, sempre me. Tu hai rincorso me, tu hai guardato me, tu...
− Dovevi solo togliere il rosario. Quello sarebbe bastato, per vedermi, ma tu non lo toglievi mai, neanche per fare la doccia. – mormora, percorrendo i limiti della mia cicatrice sulla schiena.
− Credevo che Dio mi amasse. – è l'unica giustificazione che ho.
− Lo credevo anch'io, prima che mi pugnalasse le ali e mi buttasse giù dal Paradiso. –
Sporgo le mani, tasto la sua schiena.
Ieri le ho viste, ma ora...
− Non le ho nella mia forma umana, la prossima volta che siamo da soli te le faccio vedere. –
− Oh, ok. –
Mi lascia andare e mi riprende l'attimo dopo, mani sul viso, mi tira giù verso di sé.
− Tu sei bello, così bello, Kenma. –
− Lo pensi davvero? –
Sorride, il suo naso si avvicina al mio.
Mi fissa le labbra, le guarda, le squadra.
− Sai, quando vivevo con Dio, prima della guerra, lui diceva che esistono due tipi di bellezza. La sua preferita, era la bellezza di Gabriele. –
Ho la sensazione che non sia la mia, la bellezza di Gabriele.
− La mia preferita, era la bellezza di Lucifero. E tu ce l'hai, quella bellezza, e Kenma, hai anche tutto il resto. –
Io...
− Ti ricordo Lucifero? –
− Tu sei tale e quale a lui. –
Tale e quale a Lucifero? Ma io non sono forte, non sono minaccioso, non sono il figlio più amato, io...
Mi fa sentire potente, troppo potente, sentirglielo dire.
E mi fa sentire rabbioso, violento, passionale, molto più di quello che penso di essere stato per tutta la vita.
− Mi daresti un bacio, Kuro? –
Sorride.
− Un bacio? Dio cosa direbbe? –
− Non m'importa di quello che dice Dio. –
Si china verso di me, il suo respiro si mescola al mio.
− Hai mai baciato qualcuno, Kenma? –
Scuoto la testa.
− Vuoi che t'insegni come si fa? –
Mi diventano rosse le guance, quando rispondo.
− Voglio che m'insegni come piace a te. –
− Sei proprio un gattino obbediente, tu. –
Si sporge, sento i miei occhi chiudersi.
E quando arrivano sulle mie, le sue labbra sono morbide e sono delicate. Si muovono contro le mie, le aprono lentamente, è come se cercasse di sentire che sapore ho.
È... piacevole.
È...
L'attimo dopo, le sue mani scendono dalle mie guance alle mie cosce, mi tira su di sé, in avanti, seduto sul suo grembo. Diventa più movimentato, non so cosa stia succedendo, fa caldo, ho caldo ovunque, ora mi divora, ora scompaio, però è bello, è così bello, e...
Mi tocca il sedere.
Mi spinge verso il basso.
E io mi stacco con un gemito.
Oh, merda.
− Non c'è niente da insegnare, gattino, è come se fossi nato per farlo. –
Guardo il soffitto, ho la testa gettata indietro, prima di tirarla su e riportarla dov'era.
− Ancora, Kuro, ancora. –
− Quanto vuo... −
Non so che cosa mi dica di aprire le labbra e non ho idea di cosa io stia facendo, ma quando sento la sua lingua intrecciarsi con la mia, il calore nella mia pancia scende fra le gambe.
È come se...
Come se gli piacesse il mio sapore.
Come se fosse il più buono del mondo.
Come se fossi importante, per lui.
Io...
Ancora, ancora, ancora.
Voglio che tu mi tocchi e mi faccia bruciare, che mi faccia diventare baluardo di una fede che non esiste più.
Voglio...
Si stacca col fiatone.
− Non hai la minima idea delle cose che ho intenzione di farti, Kenma. –
− Ti prego, ti... −
Sentiamo bussare alla porta.
Nessuno apre, ma il rumore è netto.
− Il professore di arte chiede se ha finito con Kenma. – dice qualcuno da fuori.
Kuro perde il sorriso, contrae la mascella.
− Col cazzo che... −
− Stiamo facendo i gruppi per il lavoro, se manca lui non possiamo fare il progetto. –
Sospira, sospiro io.
− Arriva subito. – è quel che risponde, prima di baciarmi un'altra volta e aiutarmi a scendere da lui.
− Io non ci voglio andare, di là, Kuro. –
− Non ci vuoi andare? –
Prendo la manica della sua camicia con la mano, la tiro in basso.
− Voglio stare qui con te. –
− Oh, lo vorrei anch'io. –
Io...
Fammi salire di nuovo su di te, abbracciami ancora, baciami, per favore, ti prego, io...
− Vieni a pranzo nella mia stanza. – dice, poi.
Nella sua stanza?
− Dormitorio del terzo anno, al quarto piano c'è la mia stanza. T'infili e vieni là. –
− Mi picchiano quando esco dall'aula, non so se ci arrivo. – rispondo.
Furia dell'inferno, quella che imperversa sui suoi occhi dorati.
− Allora ti vengo a prendere. –
− Così va bene. –
Mi spinge verso la porta, lo vedo sistemarsi i pantaloni. I pantaloni, Kuro? Eri per caso... un po' trasportato da me?
− Se succede qualcosa devi chiamarmi subito, Kenma. – aggiunge quando appoggio la mano sulla porta chiusa.
− E come lo faccio? –
− Col mio vero nome. –
Il vero nome di un demone è il sigillo della sua evocazione, o credo di aver letto qualcosa del genere da qualche parte. Ma può dirmelo? Non brucerò nel chiamarlo?
Sono un semplice umano, in fondo, io...
− Sitri. –
Vediamo che succede.
− Sitri. – ripeto.
Non succede niente.
Non succede...
Io li posso dire, i nomi dei demoni, dei caduti, del male. Io posso, perché sono come Lucifero, sono come lui, sono forte.
Mi giro, sorridendo fra me e me.
− Ci vediamo dopo, Kuro. –
− Non vedo l'ora. −
╰┈➤ ❝ continua ❞
ok volevo solo dire un paio di cosine
1) vi è piaciuto??? è stranissimo, è una storia strana e fra tutte quelle che ho scritto mi sa che è una di quelle che più si avvicina al concetto di "morally grey", che credo stia bene col personaggio di kenma. ecco, i personaggi sono particolari, diciamo che di solito cerco di renderli più aderenti possibile all'opera originale e per quanto abbia provato ad attenermi alla descrizione solita che ne faccio c'è molto di legato alla trama qui, quindi vorrei sapere se li avete trovati strani, ecco, o fuori contesto.
2) il "paradiso perduto" di cui parlo è Paradise Lost di John Milton, credo una delle mie opere preferite. è un poema epico che riprende la cacciata di lucifero e re-interpreta il suo personaggio in una visione che mi piace davvero, davvero tanto. è un po' pesante, ma se avete il tempo o la voglia di impegnarvi con una lettura ve lo consiglio davvero, credo che sia uno dei miei più grandi amori letterari.
3) non sono un'esperta di demonologia e credo questo lo sappiamo tutt*, però volevo fare un appunto per chi magari se ne intende un pochino e si chiede il perchè delle mie scelte. ho scelto di allineare kuroo con sitri e non con asmodeo (che è, per chi non lo sapesse, il demone legato alla lussuria per eccellenza) perchè sitri mi sembra più calzante con la trama. sitri è spesso legato alla nudità, ed è spesso descritto in modo molto ironico e/o scherzoso, ma nella sua descrizione credo che il concetto fondante non sia tanto lo spogliarsi quando lo svelarsi, quindi parliamo di disvelamento e di scoperta di se stessi, che è un po' quel che credo kenma faccia.
ecco, non so bene nemmeno io cosa dire di questa storia o di questo AU o di questo contesto perchè mi sembra strano, ma strano forte, ed eppure mi piace tanto. credo che sia un po' il periodo esami, mi fa sempre diventare un po' più stramba. spero in ogni caso che abbiate voglia di leggere il continuo, vi mando un super bacio, have a nice day babies,
mel <3
p.s. curiosità su mel :: se vi chiedete quanto strana una storia possa essere, leggete il titolo. se è una canzone di melanie martinez, allora la storia è strana, ed è tendenzialmente eticamente controversa. così con strawberry shortcake dove yams diventa meno passivo e più stronzo (e lo è, perchè diamine, lo è) o high school sweethearts che sfiora qualche tematica un po' meno convenzionale. questa credo che sia la più strana di tutte, ma ecco, mi sembrava carino dirvelo :D
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top