𝗹𝗶𝗹𝗶𝘁𝗵 :: 𝟯
╰┈➤ ❝ continua ❞
Non so come dirlo senza piangere, ma da quel giorno in poi, da quel pranzo in poi, io e Ushijima non ci siamo più visti.
Sono passati... dieci giorni? Forse undici, forse nove, non lo so.
Va tutto bene, ok?
Va tutto bene.
Avevo ragione.
Non voleva altro che intrattenimento, da me, ma quando ho dimostrato di essere un po' più complicato del normale, si è spaventato ed è fuggito.
È la norma.
È successo così tante volte che neppure mi stupisce.
Va tutto bene.
Non torno a casa da una settimana, sono tre giorni in anticipo sulla tabella di marcia perché lavoro giorno e notte, bevo più caffeina che acqua e non mi lavo da quella che sembra un'era ma va tutto bene.
L'affronterò come l'ho sempre affrontata.
Non vuole più pranzare sul tetto? Va bene.
Non vuole più mandarmi messaggi? Va bene pure questo.
Va tutto bene.
Tutto bene.
Tutto...
Perché ci sto pensando?
Mi vengono i lacrimoni se ci penso, e sto lavorando ad una tavola importante. Non posso pensarci.
Ma perché piango se ci penso?
Perché mi sembra di aver fallito l'occasione migliore della mia vita, ecco perché. Perché per una volta la persona in questione non era stronza dall'inizio, ma dolce e premurosa, e perché ho preso la sbandata più grande che abbia mai avuto.
Dall'altra, però, che cos'altro potevo aspettarmi?
Ripeto, mangaka strano e avvocato di successo non sono un'accoppiata vincente.
Sono un duo che dici per ridere.
Ed eppure chi lo dice al mio cuore spezzato?
Maledetto me.
Dovevo proteggermi meglio, dovevo allontanarlo prima.
Ora che me ne faccio di questo dolore?
È che...
Non mi capisco. Non mi capisco, miseria, non ce la faccio.
Sono disastroso.
Sono un casino.
Sono davvero incomprensibile.
Ricomincio a disegnare per cancellare la sensazione sbagliata che c'è nel mio petto e, come il primo giorno in cui ho conosciuto quello stronzo perfetto che non mi esce dalla testa, è la matita nera che scorre come si sciogliesse sulla carta.
Non mi funziona di nuovo la tavoletta grafica.
Mi sono addormentato sul tavolo, ieri.
Ma va tutto bene, lo giuro.
Mi fa male la mano da quanto ho disegnato questi giorni, e ho il lato della mano macchiato di nera grafite, gli occhiali che hanno lasciato il segno sul naso e un po' di fame.
Ho mangiato ieri mattina, credo.
Non ho avuto appetito.
Sistemo i pantaloni, mi giro e ricomincio a colorare.
Vedi che ti succede quando ci provi, anche se solo un pochino? Ti scotti, stronzo, ti scotti e ti fai male.
Dovevi dire "no" prima.
A pranzo, ti sei fatto invitare.
Come se non sapessi come sarebbe andata a finire.
Non ha detto che gli piacevo? E allora perché ha mollato in quel modo? Forse non abbastanza, di sicuro non ero abbastanza.
Il cellulare squilla per la trecentesima volta nel giro degli ultimi due giorni.
Semi-Semi chiama continuamente.
Ha provato a venire qui l'altro ieri ma gli ho detto che non volevo attaccargli il raffreddore.
So che non è giusto che io dia priorità alle mie stupide riflessioni da disilluso piuttosto che al mio migliore amico, so che se mi comporto così non dovrei lamentarmi se pure lui si stancasse di me, ma non so cos'altro fare.
Ignoro la chiamata, ricomincio a disegnare.
Non sto piangendo.
No.
Giuro.
È che...
Il tè, mi manca il tè.
Mi mancano i messaggi.
So che erano stronzate, piccole cose carine che sembrano quotidiane, ma mi facevano sentire importante.
Mi manca l'odore della sua pelle e i suoi capelli e...
Il telefono suona di nuovo.
Non si può lavorare, in questo modo.
Strizzo gli occhi, guardo la tavola.
Devo...
Riempire l'angolino là in alto.
Prendo il temperino e do un paio di giri tutt'altro che promettenti per affilarne un po' la punta.
Non devo pensare che la persona migliore che abbia mai incontrato si è rivelata solo un ennesimo fallimento.
Non che mi sono preso in faccia un altro "no".
È che avrei... tanto voluto piacergli, essere abbastanza, essere qualcuno.
Ma ha ceduto.
Ha mollato.
Si è stancato persino lui.
Il primo giorno che sono salito a pranzo e non l'ho visto arrivare, è stato una stilettata fra le costole. Non volevo scendere a chiedergli dove fosse, né mandargli un messaggio se già conoscevo la motivazione dietro le sue parole, ma...
Cazzo, oltre che un fallito sono anche un codardo.
Il cellulare squilla una terza volta.
Suoneria diversa.
Non quella di Semi-Semi, non quella di Ushijima.
Un'altra.
Penso che preferirei appendermi a testa in giù dalle travi del tetto e rimanere a penzolare mentre i piccioni mi mangiano la faccia che rispondere.
Ok, forse un po' estremo.
Sono un mangaka gore, chiedo pietà.
Mi alzo dalla mia schifossisima postazione e vado verso il cellulare.
Il numero al centro non lo conosco.
Magari è di lavoro.
Non posso perderla, se è di lavoro.
La mia prima regola è sempre stata che la vita privata non si confonde con il lavoro e ok che ho trascurato questa regola quando ho scelto il mio migliore amico come editor ma di sicuro non voglio perdere un'occasione perché sono triste.
Prendo un grandissimo respiro e rispondo.
Tranne che la chiamata, non è di lavoro.
− Satori Tendō, non so quale cazzo sia il tuo problema, non so che cazzo tu abbia fatto, non me ne frega niente. Prova a riattaccare e vengo là e ti spacco il culo. Eita mi sta evitando da due giorni perché è preoccupato per te e io sono al limite della mia sopportazione. –
Cosa?
− Shirabu? –
− In persona. –
Penso che vorrei riattaccare, sto per farlo ma...
− So che stai pensando e ti ripeto che ti ammazzo. Fallo e ti ammazzo. –
Mi scende un brivido lungo la schiena.
Che è questo tono?
Come fa Semi-Semi a vivere con questa persona?
Perché non riesco a dire di no?
− Shirabu, non è un bel momento. –
− Grazie al cazzo che non è un bel momento, credi che non me ne sia accorto? Dimmi che cosa è successo. –
Dirgli...
− Perché dovrei dirlo a te? –
− Perché ti sto dicendo di farlo. –
Riderei, se non fosse terrorizzante e io un ammasso di spazzatura con le gambe.
− Preferirei non... −
− Senti, Tendō, a me non frega un cazzo di farmi gli affari tuoi, ma il mio ragazzo è preoccupato e voglio che questa cosa si risolva. –
Lecito, forse, lecito.
− Mi piace una persona e quella persona mi ha rifiutato. – sputo fuori alla fine.
− Ti ha rifiutato o l'hai rifiutata tu prima che lo facesse lei? –
Mi si fermano le parole.
− In che senso? –
− Semi-Semi dice che lo fai spesso. –
Alcune rotelline nel mio cervello iniziano a girare.
− Non è vero. –
− Raccontami cos'è successo e te lo dico io se è vero. –
− Non sei la bocca della verità, Shirabu. –
− Invece sì. –
È come sbattere la testa ripetutamente contro il muro, tirare fuori la storia del pranzo. Più che altro perché non posso nemmeno dire che sia un brutto ricordo, non lo è.
Racconto tutto, per filo e per segno, e mi rendo conto di star piangendo mentre ripesco fuori ogni dettaglio.
È che sembrava essersi divertito.
Perché...
Finisco che tutto quel che mi resta da fare è asciugarmi la faccia e singhiozzare nell'attesa che Shirabu si prenda gioco di me.
Invece resta zitto.
Poi la sua voce è più stupita che ilare.
− Tendō, sei un coglione di merda. –
− Grazie, stronzo, lo so. So che non avrei dovuto sperarci e... −
− No, non sto dicendo questo. Ora ascoltami bene. –
Mi lascio cadere contro la sedia su cui lavoro, lo schienale che si piega indietro e le gambe incrociate fra di loro.
− Vai. –
− Correggimi se sbaglio. L'avvocato super sexy ti invita a pranzo e la prima cosa che tu gli dici è che non sei convinto di voler andare perché non ti senti a tuo agio. Poi l'avvocato passa tutto il tempo a cercare di farti sentire a tuo agio e tu ci prendi un po' la mano, quando però ti dice che gli piaci tu ti fai prendere dal panico. –
− Più o meno, sì. –
Silenzio, poi ricomincia.
− Tu hai detto a quell'uomo che non volevi pranzare con lui e ti ha dovuto convincere. Ti ha detto che gli piaci e gli hai risposto che non volevi parlarne. Che cos'altro doveva fare? L'hai rifiutato, Tendō, l'hai palesemente rifiutato. –
Io...
− Non è vero, non l'avrei mai fatto. –
− E allora cos'hai fatto? Sai, quantomeno mi sarei aspettato che gli scrivessi di parlarne. Invece quando lui si è giustamente allontanato tu non l'hai contattato di striscio. –
− Non l'ho fatto perché... −
− Non me ne frega un cazzo di quanto schifo pensi di fare, Tendō, quell'uomo ha una cotta grossa come la cazzo di Tokyo per te e tu ce l'hai per lui. Perché devi fare così tanto casino? –
Perché devo fare così tanto casino?
Perché devo...
− Non ho fatto casino. –
− Certo che hai fatto casino! Ti sei scavato la fossa da solo, ti ci sei seppellito dentro e hai pure messo il cazzo di fiore sopra, idiota. –
Rido amaramente alla battuta.
− Non c'è un singolo motivo per cui potrei piacergli. –
− Su questo sono d'accordo, Tendō, non mi piaceresti nemmeno se fossi multimilionario, ma sai, le persone sono strane. E l'avvocato è il più strano di tutti. –
L'avvocato...
Ho fatto tutto da solo per davvero?
Sono così stronzo da aver fatto tutto da solo?
Non credo, non può essere...
Satori, ma perché non glielo chiedi? Perché non smetti di farti questi cazzo di problemi di merda, prendi un po' d'iniziativa e invece di scappare come fai di solito non glielo chiedi?
Che può fare, al massimo?
Dirti che non gl'interessi.
− Credo di dovergli parlare. –
− Devi prima parlare con Eita o... −
Chiudo il telefono in faccia a Shirabu.
Se già credo di fargli schifo, alla peggio mi dice che gli faccio schifo per davvero e ci metto una pietra sopra.
Perché devo sempre farmi del male?
Perché devo sempre sminuirmi?
Perché?
Alla fine è facile.
Basta chiedere.
Non ci vuole tanto, solo un paio di piani in ascensore.
Sono davvero rimasto qui a crogiolarmi nel dolore per dieci giorni invece di fare questa cosa così semplice? Sono davvero così violento con me stesso? Sono davvero così insicuro?
E tutto questo perché un paio di persone mi hanno trattato di merda nel passato.
Ma quelle persone non sono Ushijima.
Dio, che coglione di merda.
Mi vergogno all'idea che sia servito proprio Shirabu, per farmi aprire gli occhi, mi vergogno perché è uno stronzo con la lingua lunga, ma ha ragione, ha ragione.
Sono un coglione di merda.
Il più grande coglione di merda di tutti i coglioni di merda.
Sono un cretino.
Certo, che non ti scrive, se per una volta non gli scrivi tu. Certo che non ti cerca se non vai a cercarlo.
Grazie al cazzo.
Idiota di un Satori.
Mi decido per una doccia prima di marciare fuori dallo studio per decenza, e dire che la faccio alla velocità della luce è riduttivo.
Per il resto infilo un paio di pantaloni della tuta puliti che avevo lasciato qui e una maglietta a caso.
Non m'interessa se mi infilo nel suo mega ufficio vestito di merda.
Non m'interessa perché non mi posso permettere di dar interesse a qualcosa del genere quando sono stato così meschino nei suoi confronti.
Prendo il mio ascensore dei poveri fino al piano terra, chiamo con le mani che tremano quell'altro che usa per andare a lavorare.
Sta al tredicesimo piano, il suo ufficio.
Me l'ha detto una delle volte a pranzo sul tetto.
Sento le mie gambe che tremano, mentre aspetto che l'ascensore arrivi, e le mani anche. Sono così dubbioso, così dubbioso ma anche arrabbiato con me stesso.
Perché non gli ho dato una chance?
Magari non vuole averla, ma sono stato pessimo in ogni caso.
È stato così gentile con me che davvero non capisco come il mio cervello abbia pensato che fosse come le persone che sono venute prima di lui.
La campanella suona, entro, schiaccio tredici e mi metto al fondo vicino allo specchio.
Al decimo un ragazzo alto entra e mi squadra male, me e i miei tatuaggi e i capelli bagnati.
Scende all'undicesimo, dove ne entrano un altro paio che parlottano fra di loro su come sia infernale il lavoro di questi tempi.
Al dodicesimo sale un ragazzo alto e giovanile con la faccia sfinita e i capelli scuri che sembra star correndo da tutte le parti da giorni.
Scendono tutti al tredici.
Ok, l'ufficio è ancora più spettacolare di quanto credessi.
Credo che questo sia il suo piano e basta, perché oltre all'ingresso e alla postazione vuota del segretario c'è solo una porta d'acero, pareti di vetro oscurato e la città tutt'attorno.
"Ushijima Wakatoshi" campeggia al centro della targhetta.
Non sono mai stato qui.
Lui è stato più volte giù, io mai.
Miseria, mi tremano le ginocchia.
Il ragazzino coi capelli scuri corre verso la segreteria, s'infila dietro e molla la cartelletta sul tavolo, girandosi verso di noi.
− Sentite, il capo è di pessimo umore oggi, se siete qui per delle cazzate non verrò io a raccogliere i vostri cadaveri, ok? – ci avverte, squadrandoci uno ad uno.
Merda, sono tutti qui per Ushijima.
Cosa...
Cosa faccio un cazzo, Satori.
Fai quel che Ushijima si merita.
Fai quello che avresti dovuto fare dieci giorni fa.
Magari ti mangia, magari ti ammazza o ti butta fuori dalla finestra.
Ma quantomeno vede che c'hai provato.
Faccio un passo oltre la fila.
− Tu chi sei? – mi sento chiedere dal ragazzino che leggo chiamarsi "Goshiki" dalla targhetta sulla camicia.
Non mi fermo a rispondere.
− Non puoi entrare se non dico a Ushijima chi sei, mi fa secco! – urla, quando nota che non do segno di voler attendere un singolo istante.
Lo faccio?
Mi spiace per il povero Goshiki, ma lo faccio.
Prima che riesca a saltar fuori dalla scrivania, lanciarsi sul tappeto e fermarmi, la mia mano è sulla maniglia.
L'abbasso.
Apro la porta.
E quando entro, la richiudo alle mie spalle tagliando fuori tutto il resto.
Che cazzo sto facendo?
Ormai ci sei dentro.
Ormai ci sei dentro, Satori, ormai ci sei dentro.
Fallo e basta.
È più bello di come lo ricordassi, sempre più bello.
Ha i capelli scuri perfettamente ordinati, il completo nero più nuovo che gli abbia mai visto indosso, la cravatta perfettamente annodata.
Ha la testa china, una penna che costerà una fortuna in mano mentre scorre fra i fogli, le sopracciglia aggrottate e l'espressione afflitta.
− Se sei l'ennesima persona a chiedermi l'ennesima puttanata sull'ennesimo caso elementare, ti licenzio. Te e quell'incapace di Goshiki che non è in grado di gestire gli appuntamenti. – dice, con la sua meravigliosa, dolce, adorabile voce bassa che ora è più ferma di quanto l'abbia mai sentita.
Faccio un passo.
Non andava tutto bene, credo fosse palese a tutti, ma ora me ne rendo conto con ancora più forza.
Mi manca, Ushijima, mi manca.
Mi manca la sua faccia, la sua voce, i suoi modi. Mi manca pranzare, mi manca sorridere e sentirmi apprezzato.
Sono stato così impegnato ad autodistruggere l'unica cosa davvero valevole che mi sia successa negli ultimi anni dal punto di vista sentimentale da dimenticarmi di custodirla.
Non è come le cotte di prima, non è come le persone che trovavo attraenti e che mi spezzavano il cuore. Non è stronzi cercati a caso per il gusto di avere un cattivo ragazzo di fronte.
Ushijima è una bella persona.
È una di quelle che sei fortunato anche solo ad incontrare.
Faccio un altro passo, il cuore che mi salta in gola.
− Ho avuto una giornata del cazzo, ti prego, fa' in fretta. Devo finire di lavorare. – riprende, sempre incollato al foglio che ha fra le mani.
Deglutisco la saliva.
− Perché hai avuto una giornata del cazzo? –
Alza la testa di scatto.
È a metà fra la confusione, il sollievo, la rabbia e non so bene cosa.
Potrebbe dire qualcosa per ferirmi come credo di aver fatto io, ma lui non lo farebbe mai, mai. Lui non lo farebbe, perché lui è fatto così.
− Perché non riesco a togliermi dalla mente una persona che mi ha rifiutato. –
Sento le lacrime annidarsi nella rima inferiore dei miei occhi.
− Anche a me è successa la stessa cosa, ma credo che sia colpa mia. –
Sta zitto.
− Ho pensato che la persona che mi piaceva non fosse interessata davvero a me, che mi avrebbe mollato prima o poi e l'ho allontanata. – continuo.
Non dice una parola.
− Tu mi piaci, Ushijima, ma non un po'. Mi piaci così tanto che credo di starmi quasi innamorando di te, e non riesco a capire se tutto questo sia reale o se l'abbia vissuto solo io. –
La penna gli cade dalle mani.
− Io ti piaccio? –
− Come cazzo potresti non piacermi? –
Si alza.
− Mi hai detto che volevi parlarne più avanti ma non ne abbiamo più parlato. Perché non me l'hai detto quando eravamo a pranzo? –
− Perché sono un codardo di merda e credevo che se avessi davvero detto come stavano le cose per me mi sarei fatto male come in passato. –
Circumnaviga la scrivania.
− Perché avrei dovuto farti del male? –
− Perché non merito di essere amato, Wakatoshi. –
L'attimo dopo sono completamente staccato da terra, un paio di braccia mi stringono forte, il petto mi sembra esplodere.
Atterro seduto sulla scrivania, le mani di Ushijima che si appoggiano oltre le mie cosce e il busto che si piega verso di me.
− Il mio professore di diritto privato diceva una cosa molto saggia, sai? –
Eh?
Che c'entra?
− Cioè? –
− Se non hai niente di sensato da dire, sta' zitto. –
Ho immaginato di baciarlo una quantità di volte che non posso nemmeno contare. Ho immaginato di passare le dita fra i capelli scuri e sul collo e sul colletto della camicia, ancora e ancora.
Ho immaginato tante cose.
Nessuna di quelle immaginate si avvicina a quelle reali.
Sa un po' di disperazione, Ushijima, quando piega la testa verso la mia e mi bacia.
Sembra che abbia fame.
E cazzo se non ho fame anch'io.
Dopo un attimo d'incertezza iniziale, tutto viene spazzato via e improvvisamente mi rendo conto di quanto anch'io non avessi altro che bisogno di toccarlo.
Stringo le braccia dietro il suo collo, le gambe alla sua vita, mi spiaccico contro il suo corpo.
Bacia bene, più che altro in un modo che esplora e si mescola al mio, che cerca di capirmi e seguirmi e in ogni caso impostare un ritmo tutto suo.
Non è aggressivo né lento, è perfetto e basta.
− Avremmo dovuto fare questo, dopo pranzo. Era questo che non vedevo l'ora di fare. – mi dice, con la voce che gli trema nel petto contro di me, un po' incazzata e un po' impaziente.
Ho il fiatone, non rispondo.
− Non so chi sia il figlio di puttana che ti ha detto che non meriti di essere amato, Satori, ma è una stronzata. Tutti meritano di essere amati e io vorrei che tu scegliessi di essere amato da me nello specifico. –
Ingoio le lacrime che si radunano nei miei occhi.
− Mi... piacerebbe. –
Rimane in silenzio, poi annuisce.
Si sporge verso di me, mi supera con un braccio, chiude di botto la cartellina che c'era aperta dietro il mio culo.
− Queste sono le uniche pratiche importanti e le mettiamo... qui. – comunica mentre le appoggia sulla sedia da cui si è alzato un attimo fa.
Alzo un sopracciglio.
− E il resto della roba? –
− Non me ne frega un cazzo. –
Sorrido e sorride anche lui.
Poi ci stiamo baciando di nuovo, la sua faccia sulla mia che scende più in basso verso il collo, sulla spalla e verso le clavicole, sull'attaccatura della mandibola e sotto l'orecchio.
Mi genera tutta una serie di strani brividi che corrono lungo la schiena, che s'inerpicano contro la mia pelle.
Non vorrei gemere così presto, ma non mi trattengo quando sento la voce nascermi in gola.
Chiamo il suo nome.
Con un tono così sottile e lamentoso che lo vedo fermarsi.
− Satori, cazzo, Satori. –
Ha il viso contro la mia glottide, il suo odore è ovunque e le mani mi scavano nei fianchi.
Ripeto il suo nome.
− Vuoi farmi impazzire, Satori? –
Credo di essere ebbro di tutte le sensazioni che non vedevo l'ora di provare e che egualmente mi accorgo di non saper gestire, quando rispondo.
− Voglio che tu mi voglia, Wakatoshi. –
A questa, ride appena, prima di spalancare le mie gambe con le mani contro la scrivania.
− Vuoi vedere quanto ti voglio? –
Annuisco.
− Sono settimane, cazzo, settimane. Settimane che ti muoio dietro, e tu... −
Il suo corpo s'incastra contro il mio, strofina le labbra contro di me prima di ancorare le dita alla maglietta anonima che ho messo oggi e sfilarmela di dosso.
− Tu sei perfetto. –
Non credo di essermi mai sentito "perfetto" in tutta la mia vita.
"Giusto", se vogliamo puntare un po' più in basso, neppure.
Ma c'è qualcosa nel modo in cui Ushijima mi fissa, che dice che non c'è nulla che non vada in me, che tutto sia valido e apprezzato, e... eccitante.
Mi sento desiderato.
Desiderabile.
− Wakatoshi... −
Abbassa la testa sul mio petto, morde la pelle chiara.
− Satori. – risponde.
Si sposta dallo sterno ad uno dei capezzoli, lo circonda piano con le labbra e succhia delicatamente, prima di dedicarsi all'altro.
Di sesso ne ho fatto, nella mia vita, ma nessuno è mai stato come...
Scende con una mano sui miei pantaloni, stringe la coscia.
Potrei venire per il solo modo in cui affonda le dita nella mia carne.
Come se fosse sua. Come se la volesse, l'avesse sempre voluta, fosse qualcosa che desidera così ardentemente da impazzire.
"Mio", sembra dirmi, e io che non sono mai stato di nessuno, a lui mi concedo senza neppure l'ombra di un dubbio.
Sale dalle cosce magre all'attaccatura delle gambe, la mano non m'imbarazza quando preme forte conto la mia erezione, strappandomi un verso acuto dalle labbra.
Mi abbandonerei all'ebbrezza, se non sentissi qualcosa provenire da oltre la porta.
Cazzo.
Ma c'è altra gente, di là.
− Wakatoshi... − lo chiamo, cercando di trasformare un gemito arioso in un richiamo serio, anche se la cosa mi sembra difficile.
Alza lo sguardo pesante verso di me, la bocca a pochi millimetri dalla linea che connette il mio sterno all'ombelico e l'espressione completamente concentrata.
− Ci sono gli altri fuori. – mi lagno, indicando la porta.
Alza un sopracciglio.
− E la cosa ti piace o ti dà fastidio? –
Arrossisco alla prospettiva, scuoto la testa.
− Vorrei che fossimo solo noi due. Se ti va, ovviamente. –
− Solo noi due? –
Me lo chiede con la lingua che traccia una striscia umida sulla mia pancia.
Annuisco trattenendo il labbro inferiore fra i denti.
− Solo noi due, Wakatoshi. –
Sospira.
Poi, e mi pento della mia richiesta l'attimo in cui lo fa, si alza dal mio corpo e si allontana, sistemando un po' la camicia e credo i pantaloni.
Con la postura decisa, seria e matura che ha sempre, quella per cui mi strapperei le mutande di dosso ora come l'avrei fatto settimane fa, cammina verso la porta.
Mi sento importante, a rimanere steso sulla scrivania a guardargli la schiena.
Tutti vedranno la serietà, di lui, ma io ho il retroscena, è mio.
Mi fa sentire così...
Apre la porta di poco.
Sento a malapena la sua voce.
− Andate a casa. – è quel che dice, con il tono serio e basso.
Non comprendo le risposte, ma una credo che fosse di Goshiki.
− Non c'è problema se l'hai fatto entrare, ma ora vai a casa. – lo sento ripetere.
Mi sento un po' sollevato all'idea di non aver fatto licenziare il ragazzino, ma il tono di Ushijima mi fa davvero ridere.
Sembra a metà fra il paternalistico, l'irritato e il disperato.
− Goshiki, smetti di scusarti e vai a casa. –
Inizio a sentire una parlantina senza fine provenire dall'esterno dell'ufficio e persino io alzo gli occhi al cielo.
− Se non sparisci ti licenzio. –
Silenzio.
Passano pochi istanti prima che Ushijima si giri, chiuda la porta girando la chiave e sospiri verso di me sfilandosi di dosso la giacca del completo.
− Quel ragazzino è l'ansia fatta a persona. Mi fa paura. – borbotta, piegando la testa.
Si avvicina piano, io mi tiro su sui gomiti e gli sorrido.
− Domani gli mandi i fiori? –
− Al momento sono così felice che credo che domani darò un giorno libero a tutti. – mi risponde.
Adorabile? Adorabile.
Quando entra nel mio raggio d'azione mi sporgo per prendergli la cravatta fra le dita e tirarlo verso di me.
− Vuoi un motivo per essere felice davvero? –
Si sporge verso di me e mi bacia.
− Credo di averlo già, Satori. –
Non so se quel che succeda dopo sia me che gemo perché Ushijima ricomincia a toccarmi, me che arrossisco perché credo di avere una cotta destabilizzante o me che m'inarco sulla scrivania piena di pratiche.
Una delle cose che mi fa impazzire, perché ce ne sono diverse, è il modo in cui stringe, tocca e tasta. Possessivo, oserei dire, nonostante non ci sia nulla di possessivo in lui, e affamato.
Miseria.
Non credo di essere mai stato così eccitato in tutta la mia cazzo di vita.
Mi sporgo con le mani verso di lui.
− To... togliti la camicia. – mi lagno, stringendolo dal colletto verso di me.
È comodo avere la cravatta da tirare e lo trovo davvero sensuale con il completo addosso, ma ora come ora voglio toccare e toccare e toccare senza smettere mai.
Si avvicina, le labbra che aprono le mie e la lingua che cerca la mia.
Prende fiato staccandosi e mormora un "fallo tu" molto frettoloso, prima di ricominciare.
Mi scivolano le dita sulle asole, i bottoni sono tanti e faccio così fatica che inizio a credere che dovrei chiedergli di mettere camicie col velcro d'ora in poi, ma dopo una quantità imbarazzante di tempo, un po' di improperi qua e là e le mani di Ushijima che mi toccano ovunque, concludo la mia missione.
L'ho già detto, ma la sua pelle irradia calore.
È liscia, profuma di buono, è piacevole toccarla, lasciarci scivolare sopra i polpastrelli.
Rimango un po' inebetito a fissargli il petto e l'addome.
− Vorrei disegnarti di nuovo. – mi scappa dalle labbra, con un sospiro un po' arioso e sognante.
− Ora? –
Ridacchio.
− Non ora, 'Toshi, ma prima o poi sì. Sei così bello, miseria. –
Distoglie lo sguardo e gli si arrossa il ponte del naso.
− Grazie. – risponde con un filino di voce incerto.
− Ti mettono in imbarazzo i complimenti? –
Lascia scivolare la camicia sulle braccia, cade per terra con un rumore sordo di tessuto che si piega.
− No, no, mi piacciono. Se li dici tu mi piacciono. –
Piccolo Wakatoshi che s'intimidisce a sentire che è bello. Come se non fosse la verità più palese del globo, tra l'altro.
Lascio che le mie mani vaghino sul suo petto, sulle spalle e sulle braccia, mentre ricomincia a baciarmi.
Spalanco le gambe contro la sua vita, lo accolgo contro di me, sento premere il suo bacino sul mio.
Mi cade la testa indietro con un tonfo sordo.
− Cazzo! –
Già, cazzo.
Mi tiene su il capo con le dita affondate fra i miei capelli, mi bacia e lo rifà un'altra volta.
La mia gola si stringe, il suo nome esce a metà dalle mie labbra, le mie ginocchia spingono verso l'interno stritolandolo su di me.
− Mi piacciono questi versi che fai. – sussurra al mio orecchio, tastandomi la schiena.
Arrossisco e non rispondo.
− Credo di volerne sentire ancora qualcuno. – continua.
Tutti quelli che vuoi, miseria, tutti quelli che...
Infila le dita contro l'orlo dei pantaloni della mia tuta.
− Posso? –
− Ti prego. –
Li abbassa fino alle ginocchia, mi guarda, si lecca le labbra secche e l'istante dopo, immagine che rimarrà impressa a fuoco nella mia testa fino alla fine dei miei giorni, scende in ginocchio.
C'è qualcosa che mi fa sentire potente e bello, in Ushijima, l'avvocato grande e grosso, che s'inginocchia di fronte a me in questo posto dove può essere se stesso nel modo più intimidatorio possibile.
Mi fa stringere il cuore.
Non aveva senso che pensassi di non piacergli, cazzo, guardatelo.
Nel suo elemento e comunque più impegnato a dimostrare di volermi che a prendersi quel che vuole.
Incastra la testa fra le mie gambe, i pantaloni tolti a metà che si tendono fra le mie gambe aperte dietro il suo collo, mi tiene una coscia ferma mentre mordicchia appena l'interno morbido.
Inizio a tremare più forte.
Molto più forte.
Senza posa.
Aggrappo le mani al bordo della scrivania quando spostando il viso da una coscia all'altra sento il suo fiato battere in mezzo alle mie gambe.
Mi sembra al cento per cento di star facendo tutto per la prima volta.
Mi sorregge dal retro di un ginocchio mentre traccia una scia umida baciandomi l'interno coscia da cima a fondo, con calma.
− Ho sognato di fare questa così tante volte che neppure mi sembra vero. – mormora, scendendo sulla curva del mio culo e mordendo la carne tenera in quel punto.
Una mano delle mie salta verso i suoi capelli.
− Wakatoshi... −
− Va tutto bene, tutto bene. Piano, Satori, con calma. –
Il tono della sua voce sembra riuscire a carpire il mio battito cardiaco impazzito e distenderlo solo con il suono basso che vibra contro la mia pelle.
Poi, però, la calma appena acquisita, scompare.
Sento le sue mani salire fino alla mia vita, piegarla verso l'alto come se pesassi pochi grammi, aprirmi di più verso di lui e la sua faccia si avvicina... lì.
Non è una cosa che mi piace, di solito.
Ma quando Ushijima Wakatoshi, quell'Ushijima Wakatoshi tira fuori la lingua e lecca il punto dove spero voglia entrare fra qualche momento, allora mi piace.
Mi piace, cazzo se mi piace.
Credo di gemere così forte che se c'è qualche persona rimasta fuori mi avrà sentito di sicuro.
Non m'importa.
Le gambe si chiudono istintivamente contro la sua testa, le dita affondano sui suoi capelli, la testa cade indietro e la schiena s'inarca.
Cazzo.
Non so chi gliel'abbia insegnato, dove l'abbia imparato o cosa, ma ringrazio il cielo.
È...
La sua lingua è dentro di me.
Dentro di me, cazzo.
Poi non più, e mi sta mordendo la pelle, poi di nuovo e le mie ginocchia ricominciano a tremare.
Merda, merda.
− Satori. – mi sento chiamare, e i miei muscoli hanno un minuscolo spasmo quando sento la sua voce contro di me.
Rispondo ansimando.
− Prendi il lubrificante, Satori. –
Giro la faccia verso la scrivania.
Non vedo lubrificante, solo carte sulla politica di privacy del suo studio.
Mi sto facendo sbattere sulle pratiche della privacy?
Magico.
− Dov'è? –
− Primo cassetto a sinistra. –
Mi stendo meglio, e ho le braccia abbastanza lunghe per arrivarci.
Una domanda sorge spontanea.
− Quante volte hai fatto sesso in ufficio per tenere il lubrificante nel cassetto? – chiedo, senza l'intenzione di accusarlo ma solo per pura curiosità.
Non sono certo nessuno per giudicare le sue abitudini sessuali, viste le mie, e anche fossi un santo non sarebbero in ogni caso cazzi miei.
− Mai, in realtà. Poi ho incontrato te e ho iniziato a sperarci. – risponde, prendendo la bottiglietta dalle mie mani e aprendola senza scollarsi dalla posizione in cui è.
− Sapevi già che saremmo finiti in questa posizione, Wakatoshi? –
Lo vedo spremere un po' di liquido fra le dita, scaldarlo fra i polpastrelli e alzare lo sguardo sul mio.
− No, in realtà credevo non sarebbe mai successo. Ma nel caso fortuito ho pensato che sarebbe stato complesso spiegarti perché non possiamo senza. – risponde.
Vorrei chiedergli che cosa intenda, ma avvicina la mano a me e infila due dita dentro di me.
Le parole mi muoiono in gola.
Ha le dita lunghe, cazzo.
Come se non bastasse, si rimette a fare quel che stava facendo prima.
Lingua, dita e io che impazzisco credendo di essere finito nella trama di un film porno scadente perché la mia vita sembra perfetta.
Cazzo, cazzo, cazzo.
− Sei stretto. – commenta, aprendo un po' le dita fra di loro e spingendole ancora una volta in fondo, il palmo che affonda contro la pelle.
Gemo con i gomiti che tremano.
Non riesco più a reggermi, torno con la schiena stesa sulle pratiche della privacy.
Ushijima si stacca un istante, poi le dita sono tre.
Merda.
Sento le mie ginocchia spingere sulle sue spalle larghe, la mano di prima torna fra i suoi capelli, l'altra si tira su per tenermi fermo aggrappandomi alla scrivania.
Più a fondo, più a fondo, poi piega le falangi.
Non è più un gemito.
− Wakatoshi! –
Lo urlo, sul serio.
Ed eppure, smette l'istante dopo di premere nel punto dentro di me che vorrei premesse più di ogni altra cosa e assume un ritmo lento, straziante, aprendo le dita fra di loro.
Mi sta... preparando, e questo lo so.
Ma perché con così tanta... attenzione?
La lingua sale, sale e trova la mia erezione.
Mi prende in bocca quando mette dentro un... quarto dito?
Oh, merda.
Se avessi un momento per me stesso, avrei paura.
Ma non ce l'ho, e va benissimo così.
Mi si annoda qualcosa nello stomaco, le sensazioni delle sue labbra su di me e delle dita dentro si mescolano e non ci capisco più niente.
− A... ancora. – dice la mia voce, ingenua pazza che vuole distruggermi.
− Ancora? –
Le dita premono verso l'alto una seconda volta.
− Così, cazzo, co... −
La mia gola si stringe, le gambe s'irrigidiscono, la schiena sale.
Troppo.
È...
Incontro i suoi occhi e sono... cazzo, sono...
Non so cosa esploda prima, se il mio cuore o il mio orgasmo, ma mi annienta in un attimo.
Tutto quello che prima era rigido, fermo e saldo, diventa liquido, fluido e morbido nel giro di pochi secondi.
È Ushijima, cazzo, non è un sogno, non la mia mano nella doccia e la fervida immaginazione, non la noia di farlo con qualcuno che vorrei fosse lui.
È quello vero.
E lo sta facendo per me.
Non credo di poter sopportare tutto questo.
Mi rendo conto di quanto fossi teso quando la mia schiena scende sulla scrivania. Ero così inarcato da essermene quasi staccato, miseria.
La mano che mi reggeva ha le dita molli, quella fra i suoi capelli più che tirarli ora li accarezza, le gambe scendono piano sulle sue spalle, il corpo si ammorbidisce.
E Ushijima mi guarda, mi tira fuori dalla sua bocca piano, manda giù e si libera dalla stretta.
− Come va? – chiede, mettendosi in piedi e avvicinandosi a me.
C'è che sono morto, e che la parte migliore deve ancora iniziare.
− Qua... quattro dita è stata una mossa disonesta. – riesco a rantolare nel mio ronzio post-orgasmo di confusione e intorpidimento.
Sorride.
− Mi spiace, non potevo fare altro. –
Se fossi cosciente, registrerei queste parole come un altro segnale promettente, ma il mio cervello non immagazzina.
− Non ho detto che non mi sia piaciuto, però. Non scusarti per avermi fatto avere un orgasmo, mai più. – borbotto.
− Ok. –
Allungo un braccio molle per tirargli un piccolo buffetto sul naso.
− Bravo. –
Cerco di prendere coscienza del mio corpo. Le gambe? Deboli. La schiena? Fa male.
− 'Toshi? –
− Sì? –
Indico il divano di pelle di fronte alla vetrata che dà sulla città.
− Se ci trasferiamo sul divano è un problema? –
Guarda me, guarda il divano poi scuote la testa.
− Perché dovrebbe esserlo? –
− Che ne so, magari poi non si lava. Oppure il vetro è trasparente e tutta la città vedrà il mio culo. –
Ride piano.
− Se non viene pulito ne compro un altro. –
Alzo gli occhi al cielo.
− Che schifo, i ricchi. –
Aggiungerei la richiesta di tirarmi su perché non credo di poter camminare in questo stato, ma ci pensa da solo prendendomi in braccio e trasferendomi come se fossi una delicata creaturina sul divano.
Mi sfila i pantaloni, si siede, mi mette sul suo grembo.
Oh, ma così siamo vicinissimi.
− Vuoi continuare? Se vuoi possiamo... −
La mia mano sale sulla sua mandibola.
− Possiamo fare che ora mi scopi. Unica opzione disponibile. –
Inclina la testa.
− Sicuro? –
Annuisco.
− Sicuro. –
Sono ancora messo un po' uno schifo, ma voglio quel cazzo, lo voglio davvero e non lascerò che un po' di intorpidimento mi fermi.
Sorride mentre mi bacia.
− Sei fantastico, te l'ho mai detto? –
− Perché voglio che mi scopi? –
Ridacchia.
− Anche, ma anche per un sacco di altri motivi. –
Mi sento arrossire.
− Possiamo non litigare mai più, però? – aggiunge, qualche istante dopo.
Litigare?
Oh, intende...
− Mai più. Ho passato dieci giorni a piangere. – borbotto.
− Anche io. Pensavo che sarei morto da solo col gatto. – confessa.
Adorabile, adorabilissimo Wakatoshi.
Mi chino per baciarlo, e inizia dolce, ma finisce che ci rendiamo conto che io sono nudo e sopra di lui e ricominciamo a divorarci a vicenda.
Mi stringe forte la vita e fregandomene del fatto che i suoi pantaloni costino più di tutto il mio guardaroba, mi abbasso su di lui seguendo il movimento.
È eccitato, cazzo, è...
Mi sento mordere il labbro inferiore.
− Sei così bello, Satori. –
Così bello, eh?
Con gli anfibi ancora ai piedi e i calzini a righe tirati su fino a metà polpaccio perché di pulito avevo solo quelli, il corpo nudo con i tatuaggi a coprirlo nei loro tratti scuri e definiti.
Sono bello, sì.
Mi sento bello.
Stendo le braccia oltre le sue spalle, inarco un po' la schiena, le sue dita salgono lungo la mia spina dorsale mentre ricomincio a baciarlo.
Mi sto sciogliendo contro di lui di nuovo, quando il mio bacino scende.
Questa volta con più decisione.
E sento qualcosa.
Stacco un braccio, lo infilo fra noi e...
Finalmente mi decido a toccarlo.
Il problema è che la mia mano che scorre contro i contorni della sua erezione scorre un po' troppo.
Scorre, e non smette di scorrere per diversi, diversi centimetri.
Le informazioni iniziano ad addizionarsi nella mia mente.
"Non posso non usare il lubrificante".
"Devo usare quattro dita per forza".
Mi aiuto con le dita a slacciare la cintura, le mani che tremano, abbasso la zip, sfilo i boxer.
Merda.
La gola diventa un deserto.
Cerco di deglutire ma non c'è saliva sulla mia lingua.
− Wakatoshi, quando pensavi di dirmi che fare sesso con te mi avrebbe reso paraplegico? – è la cosa più intelligente che riesco a dire.
I miei occhi non si staccano.
− Che intendi? –
Che intendo?
Non dirò che ho visto pochi cazzi nella mia vita, perché sarebbe una bugia. Ne ho visti diversi, alcuni un po' meglio altri da vomitarci addosso all'istante, e credevo di avere un bel po' di esperienza dalla mia.
Avevo il sentore che l'avvocato se la cavasse, i modi e l'energia che emanava me lo facevano intendere.
Ma questo...
È davvero troppo grosso, cazzo.
− Credi davvero che... quella cosa possa entrare nel mio tenero corpicino ventunenne? –
Penso che afferri la questione.
E cerco di guardarlo in faccia per vederlo arrossire, solo per fallire e ricominciare a fissarlo in mezzo alle gambe.
− Se non vuoi... −
Mi lecco le labbra.
− Non ho detto che non voglio. –
− Oh, capisco. –
Penso che debba processare un attimo, e glielo lascio fare.
Io...
− Posso essere un po' aggressivo, con te? Non voglio che pensi che sia cattivo gratuitamente, solo che... −
− Quanto ti pare, ragazzone, vai. – confermo.
Fa passare un braccio dietro la mia schiena, la mano libera atterra sulla mia faccia e mi tira su lo sguardo dal mento con meno delicatezza di quanto mi sarei aspettato.
− La smetti di fissarmi il cazzo come se fossi in calore, Satori? –
Oh.
L'avvocato sa essere cattivo.
Se prima ero nei suoi confronti in un limbo a metà fra la cotta andante e l'innamoramento, ora atterro sul "ti amo" completo.
L'avvocato è dolce, premuroso, delicato e rispettoso, sa usare le dita, la lingua, ha un cazzo enorme e sa trattarmi male quando c'è bisogno?
L'uomo perfetto.
L'avevo detto settimane fa e lo ripeto.
Cerco di annuire ma la sua mano me lo impedisce.
Stringe le dita più in basso, incastrandole sotto le ossa della mandibola.
Vedo un'ombra passargli in viso.
− Se non ti piace dimmelo che smetto. – mormora per un secondo.
Quell'ombra scompare.
− Ora ti spiego come faccio a farcelo entrare. –
Vorrei parlare ma non riesco, fissato immobile dal suo sguardo.
Mi molla il viso e spalanca le mie cosce, alzandomi sopra di sé.
Si sporge oltre la mia spalla, guarda me e se stesso, si allinea con il mio corpo.
− Così, Satori. – mormora, prima di abbassarmi.
Lentamente, lo fa lentamente, per controllare e lo so che non mi faccia male.
Ma è...
I primi centimetri quello che mi fa effetto è il diametro, poi però arrivano tutti gli altri e io... mi sembra di essere letteralmente aperto in due.
Non è spiacevole, però.
È...
− Cazzo, cazzo, cazzo... −
Ho la voce ariosa.
La pressione inizia a diventare forte contro la mia pancia, mi sembra di vederlo sporgere contro l'addome.
− Waka... −
Le ginocchia diventano di gelatina.
Non credevo che qualcosa del genere potesse arrivare così in... fondo.
− ...toshi. –
Ho la bocca aperta, lo so, ma non esce nessun suono.
Le mie unghie stanno affondando così forte nelle sue braccia che temo rimarranno piccole mezzelune scure contro la sua carnagione.
Quando atterro contro il suo grembo, non so cosa succeda al mio corpo.
Se c'era qualche punto da toccare dentro di me, Wakatoshi lo sta toccando.
È come se fosse una scarica elettrica che mi scorre nelle vene.
Mi stringe con più delicatezza, abbandona un po' della cattiveria di prima, mi accarezza la zona sotto l'ombelico con calma, sorridendo.
− Bravo, Satori, bravo. –
Mi cade la fronte contro la sua spalla.
La mano da dolce, inizia a spremere contro di me.
L'altra fa la stessa cosa sulla schiena.
E poi, Ushijima si muove.
Se dovessi morire, dite a mia madre che le ho voluto bene anche se era una stronza, dite a Semi-Semi che Shirabu mi stava simpatico, pubblicate i miei fumetti anche se sono delle bozze.
− Wakatoshi! –
Prende una mano con la sua, la mette nello stesso punto di prima, sotto l'ombelico, preme la mia mano verso l'interno.
Si muove un'altra volta.
− Mi senti, Satori? –
Mi ruotano gli occhi nel retro della testa.
Entra, esce, un'altra volta.
− Rispondi, Satori, senti? –
Si... si sente.
Si sente.
− Lo sento, 'Toshi. –
Vorrei avere la forza di reggermi sulle cosce ma non riesco, non posso, sballottato da un paio di braccia che mi manipolano come fossi di pezza.
Non credo che quello che ho fatto prima, nella mia vita, fosse sesso.
Perché se lo fosse... questo cos'è?
− Lo sento, cazzo, lo... −
− Satori... −
La mano sulla schiena mi tira i capelli indietro, lascio cadere la testa con la schiena che s'inarca contro di lui.
− Satori, Satori, Satori. –
Di più, di più.
È così bello, cazzo, così bello sentire la sua voce che chiama me.
− Wakatoshi! –
Mi bacia al centro dello sterno, si sposta su un capezzolo e non è delicato ma aggressivo, quando morde.
Affonda i denti, forte.
− Sei perfetto, Satori. – mi ripete, e questa volta ci credo ancora di più, ancora di più.
− Io... −
Altro capezzolo, stessa cosa.
Entra ed esce da me con un ritmo lento ma profondo, così profondo.
Non riuscirò a fare sesso soddisfacente con nessun altro uomo, dopo, non è vero?
Ma chi vuole farlo, cazzo.
Io no.
Voglio che mi rovini per gli altri, perché non voglio essere di nessun altro, cazzo.
− Più forte, 'Toshi. – gli piango all'orecchio, le lacrime che sono spremute via da me quasi contro la mia stessa volontà.
Stringe la mia vita.
Mi tira su, mi abbassa, m'incontra a metà strada.
Nessuno, mai più nessuno che non sia lui.
− Sei stretto, Satori, cazzo, sei... −
Mi stringo ancora, sento il mio corpo che si stringe attorno a lui quando lo guardo dall'alto, la testa piena di lacrime e saliva e sudore sballottata da movimenti che non sono nemmeno più miei.
Mio, mio, mio, mio...
− Mio, tu sei... mio. – dice la mia voce con un suono un po' acuto e un po' secco.
Ha gli occhi più scuri, quando è eccitato.
Si scuriscono e sono belli, profondi e pacati come lui.
Annuisce.
− Tuo, Satori, tuo. –
Le cosce iniziano a diventare sempre più inerti, il calore si riaccende nella mia pancia nonostante sia venuto poco fa.
− Mio. –
− Tuo. –
Mio, Ushijima, mio.
Non me ne frega un cazzo se è un avvocato in giacca e cravatta e io un mangaka in anfibi e chocker di pelle.
Non me ne frega un cazzo se le persone che lo circondano sono perfette e sempre pulite e a posto.
Non me ne frega un cazzo se da fuori dovrei cambiare per piacergli.
La verità è che non sarebbe giusto nient'altro, cazzo, non sarebbe giusto.
Lui è mio così com'è.
Lui è mio.
E non voglio lasciarlo andare.
Ormai non più.
− Vienimi dentro, Wakatoshi. – lo prego, cercando di tirarmi su per riuscire quantomeno a baciarlo.
− Sì, sì, cazzo, cazzo... −
Gli trema la voce, quando si avvicina.
Rimane bassa ma meno controllata.
Chino il viso contro il suo, la fronte s'appoggia contro la sua.
− Mio, Wakatoshi. Mio. –
Le sue labbra si schiantano contro le mie, il ritmo si spezza e si fa interrotto e secco.
Il calore nella mia pancia esplode, il nodo si scioglie, le gambe scompaiono e tutto quel che sento è un'ondata di un piacere che non avevo mai provato catturarmi.
Non finisce per quelli che sembrano minuti, mentre Wakatoshi mi raggiunge stringendomi forte da lasciarmi segni sulla pelle chiara.
Mio.
Lui è...
− Non vorrei essere di nessun altro. – mormora.
Sorrido.
− Nemmeno io. –
Sono passati due mesi quando, al freddo gelido di Tokyo d'inverno, barcollo fuori dal mio solito locale superando le transenne.
Uno sponsor importante ha investito nel mio fumetto e sono uscito a bere con il team.
Ho dovuto offrire.
Che merda.
Però è stato divertente, più che altro è stato divertente vedere Semi-Semi ubriacarsi al secondo bicchiere di birra e iniziare a straparlare di Shirabu che non c'era.
L'unica è io quanto faccio festa, faccio festa sul serio.
Ho bevuto come un dannato, maledizione.
Sono ubriaco fradicio.
Riesco in maniera abbastanza decente a camminare quei quattro metri che mi servono.
Anni di sbronze mi hanno insegnato come gestire l'ubriachezza molesta.
Questo locale mi ha visto venire diverse volte, di solito il sabato sera, ubriacarmi con Semi-Semi e andare a ballare nella pista bruttissima dove mettono sempre musica orrenda.
Mi ha visto festeggiare la prima volta che qualcuno ha detto "sì" al ragazzino che disegna.
Mi ha visto piangere quando stronzo dopo stronzo venivo sempre lasciato da solo come l'idiota che credevo di essere.
Cerco il cellulare nella tasca, il freddo che mi ravviva un po' la faccia.
Ho i pantaloni di pelle infilati sotto gli anfibi nuovi che ho comprato che arrivano a metà coscia, e le tasche sono come cucite contro il culo così strette che non riesco a infilarci nemmeno le mani.
Merda.
Apro il cappotto per guardare meglio, sposto la camicia oversize e provo a cercare con lo sguardo dove cazzo l'ho messo.
Devo smettere di ubriacarmi.
Gliel'ho mandato l'indirizzo?
Non voglio che si preoccupi.
Mi scappa un anello dalla mano mentre cerco di infilarla nei pantaloni.
E come cazzo li tolgo?
Come cazzo li ho messi, ora che ci penso.
Mi piego un po', mi sporgo meglio verso la luce, stringo gli occhi.
− Satori, tu metti sempre il cellulare nella tasca sinistra. –
Non so cosa sia più imbarazzante, se il salto di due metri che faccio, l'urlo per niente virile o il fatto che la voce abbia ragione.
Devo aver confuso destra e sinistra.
Eh, succede, se ti scoli un bar.
Alzo lo sguardo, apro le mani come a dimostrarmi innocente.
− Sappi che se sei un malintenzionato c'è il mio ragazzo che sta venendo a prendermi ed è molto cattivo e molto ricco. Fa l'avvocato. – dico tutto d'un fiato.
− Davvero? –
− Sì. –
Faccio un po' di fatica a tenermi in piedi e strizzo gli occhi per schiarirmi un po' le idee.
− È anche molto alto. –
Lo sconosciuto sta zitto.
Mi metto sulle punte dei piedi, alzo la mano di una decina di centimetri sopra la mia testa.
− Così. –
− Wow, è davvero alto. –
Annuisco tutto convinto.
Aspetta, ma se è un malintenzionato per davvero?
Ci pensiamo dopo.
− Già, da non crederci. Gli ho rubato questa camicia perché stava bene con i pantaloni, guarda quanto mi sta larga! –
Prendo gli orli con le mani e li agito per enfatizzare le mie parole.
− Anche quella cravatta mi sembra familiare. – dice la voce.
Che bella voce, che è.
È molto bassa.
− Sì, è sua. Ha detto che potevo prendere quella che volevo, solo che ne aveva tipo un milione. Scegliere è stato... complesso. –
Vedo la figura avvicinarsi.
Si ferma a pochissimi centimetri da me, prende la cravatta fra le dita e la guarda meglio.
− Questa è quella con cui ti ho legato la scorsa settimana. Non lo so, forse no, non si vede molto bene con questa luce. – ragiona ad alta voce.
− Sì, è quella! – esclamo di riflesso.
L'attimo dopo sono tirato su di peso, un braccio dietro la schiena e uno nell'incavo delle ginocchia. Camminando più lontano dal punto in cui ero, la luce schiarisce la faccia dello sconosciuto e...
Ma quanto cazzo ho bevuto?
− 'Toshi! Sei tu, allora! –
Sorride e si china per baciarmi. Rimane ad impastarsi le labbra fra di loro.
− Gin? –
− Oh, una marea. –
Ride piano, i passi che uno dopo l'altro mi fanno sentire in un dondolio piacevole e pacifico.
Mi giro verso il suo petto, passo un braccio dietro il suo collo e strofino la faccia sulla giacca di pelle chiusa.
− Mi sei mancato, 'Toshi, tutta la sera. Perché non sei venuto? – mi lagno.
− Perché la regola era che sarebbero venuti solo i membri del team, l'hai deciso tu. –
Forse, non è che me lo ricordi molto.
− Perché l'ho deciso? –
− Perché hai detto che se no Semi si sarebbe messo a fare sesso con Shirabu davanti a tutti. –
Oh, ha senso.
− Giusto. –
Ushijima cammina dritto per qualche altro minuto, prima di svoltare verso una strada più illuminata. Non c'è molta gente in giro in questo quartiere, ma non gli importa che le poche che ci sono lo vedano portarmi in braccio.
− Dov'è la macchina? L'hai lasciata lontana? –
Inclina la testa.
− Non ho trovato parcheggio vicino, ci vorrà un po'. Ma ti porto, così non devi camminare. –
Chiudo forte gli occhi in un versetto soddisfatto.
− Non ti dico abbastanza quanto ti amo, Wakatoshi. Ti amo un sacco, lo sai? –
Sorride e si china per baciarmi di nuovo.
− Anche io ti amo, Satori. –
Mi batte sempre il cuore come la prima volta, quando sono con lui, cazzo.
Rimaniamo in silenzio qualche istante, i passi che mi rimbombano nella testa uno alla volta.
Poi mi ricordo di una cosa.
− Sai che un tizio che frequentavo un po' di tempo fa era al locale, oggi? –
Ushijima s'irrigidisce, poi si rilassa l'attimo dopo.
− Davvero? –
Mi batto il mento con l'indice.
− Già. Lo stronzo voleva sapere se avessi voglia di una scappatella. –
Sento Wakatoshi ridere appena, poi girarsi verso di me.
− E tu che gli hai detto? –
Alzo l'indice verso di lui, lo scuoto in un infantile e plateale "no".
− "Non se ne parla neanche. Io ho un ragazzo, sono un uomo impegnato. E poi hai il cazzo troppo piccolo." –
La risata accennata diventa più decisa nel suo petto.
− Satori! –
− A proposito di cazzi, ho messo una roba di pizzo che non ricordavo di aver comprato che farà felice il tuo. – borbotto, tirando su un piede e guardando la punta degli anfibi nuovi.
Di nuovo, Ushijima s'irrigidisce e rilassa.
− Festeggiamo anche stasera il tuo sponsor? –
Allungo una mano e gli pizzico la guancia fra le dita.
− No, stasera scopiamo e basta. –
Annuisce.
− Mi sembra lecito. –
Appoggio la testa contro il suo petto, l'aria fredda che mi fa bruciare appena la guancia, e lo sento stringermi più saldamente.
− Wakatoshi? –
− Dimmi. –
Non mi guarda, ma io guardo lui.
Che bello, che è.
Che bello.
Rimarrei tutta la vita a guardarlo.
− Sei l'amore della mia vita. –
Si ferma.
Si gira.
Mi dà l'impressione di voler dire che anche lui rimarrebbe tutta la vita a guardarmi.
Mi sento così bello, quando mi guarda.
Così...
Amato.
− E tu sei l'amore della mia. −
─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───
➸★✺ note :: cuori questa cosa è tipo mia figlia vi giuro non so che mi sia preso ma ho scritto VENTITRE MILA PAROLE in letteralmente quattro giorni io non mi capisco lo giuro credo di avere dei problemi. credo questo sia il motivo per cui nessuno mi chiede gli AU, perchè divento pazza
detto questo mi sono divertita come non mai a scriverla, vi amo se avete avuto voglia di leggerla sul serio
➸★✺ importante! :: lo scrivo perchè non si sa mai, non fate sesso con una persona che ha una vita sessuale attiva senza preservativo. perchè loro lo fanno? perchè sono una pazza depravata. voi non fatelo che le malattie sono una merda e non c'è nessuna melissa che vi scrive il finale felice poi
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