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➭ ✧❁ SMUT alert :: tutta la terza parte

➥✱ song :: "Lilith", Halsey

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➸★✺ disclaimer :: la storia è divisa in tre parti, trovate le successive subito dopo

➤♡❆ comfort fic for :: _meliann_

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

La matita corre sulla carta come se la grafite ci si sciogliesse sopra.

Il nero si accumula, si intensifica e scurisce, diventa morbido e macchia, sfuma, sbava con il movimento della mia mano, il rumore del colore che si spande che giunge alle mie orecchie come una melodia.

Premo più forte.

Più scuro, lo voglio più scuro.

I dettagli iniziano a formarsi sotto il tratto nervoso e preciso della mia mano, mi mordo l'interno della bocca fastidiosamente, il sole che filtra dalle finestre che mi fa capire che ho passato un'intera notte a disegnare una volta ancora.

Più scuro.

Sposto la testa, gli occhiali che ballano sul ponte del naso dritto, la montatura che scivola, guardo le cose da un altro punto di vista.

Mi piace.

Mi piace, cazzo, mi piace.

Ho passato tutta la notte, tutta la stupida notte su questo maledetto quadratino ma dopo averlo rifatto una, due, tre, quattro e forse cinque o sei o sette volte, se Dio vuole, se qualcuno nel grande cielo delle divinità me l'ha mandata, è venuto.

Ho fatto.

Ho finito.

Ora...

Essere un mangaka è un bel lavoro.

Ne sono convinto.

Sono insonne, con una felpa rubata ad una delle persone con cui sono stato e di cui non ricordo nemmeno la faccia, i noodles istantanei mezzi mangiucchiati sul piano di lavoro, i capelli arruffati e sicuramente non esattamente pulito, ma è un bel lavoro.

E nulla fa il fatto che abbia finito ora il lavoro che devo consegnare fra tre o quattro ore, no?

E che debba ricominciare a lavorare dopo qualche ora di meritato sonno oggi stesso, vero?

Cazzo.

Fare il mangaka è un lavoro da psicopatici.

Miseria.

Miseria, cazzo.

Ed eppure, senza annegare nel fallimento che nella vita mi ha portato nel mio minuscolo studio a litigare con le matite perché ieri sera la tavoletta grafica aveva qualche stupido problema informatico ed ero troppo in ritardo per darci peso, riguardo il quadratino colorato.

È perfetto.

Quel miscuglio di violenza ed eleganza che cerco.

Meraviglioso.

Bravo, Satori, bravo. Ce l'hai fatta.

Lascio il foglio sul tavolo e tiro le braccia indietro stiracchiandole piano, una sequela di rumori poco promettenti che cade come una cascata dalla mia schiena.

Ho ventun anni, miseria ladra, non settantacinque.

Dovrei uscire, forse, camminare, mangiare della verdura.

'Fanculo, ma che ho fatto di male? Tanto crepo lo stesso, meglio farlo felice.

Raccolgo l'ultimo grammo di energia che possiedo in corpo e mi alzo, le gambe che chiedono, piangono, pregano pietà, mentre raggiungo la stampante dall'altro capo del tavolo.

Manca solo questa tavola.

Ci ho lavorato su tre giorni.

Maledetto perfezionismo procrastinatore, cazzo. Sono così perfezionista da essere pigro, ha senso? Se le cose non mi vengono non le inizio, e quando le inizio diventano l'unica cosa importante.

Non credo sia sano.

Ripeto, 'fanculo.

Alzo lo sportello dello scanner, sistemo la tavola come se fosse mia figlia, chiudo e premo il tasto per scannerizzarla.

Vedo aprirsi la cartella sul pc, mi lancio sulla sedia e con un paio di click rinomino il file, lo aggiungo agli altri, li scorro per verificare che siano tutti e...

Li invio.

Faccio un WeTransfer velocissimo, li raggruppo e li invio al mio editor senza pensarci due volte. Mando una mail senza oggetto, dove nel corpo di testo appare solo la mia firma "Satori Tendō :D" e nient'altro.

Finito.

Per ora ho finito.

Guardo l'ora.

Sono le otto e mezza del mattino, miseriaccia ladra, e se voglio che il capitolo sia online per il prossimo lunedì devo iniziare a lavorare oggi stesso.

Maledetto me e la mia vena artistica incomprensibile, mi dico, maledetti tutti e due.

Arranco giù dalla sedia, la schiena che piange e implora pietà, mi trascino fino al futon che non dovrebbe essere il mio letto ma tristemente lo è, mi butto sul materasso e chiudo gli occhi.

Ce l'ho, una casa, ma qualcuno qui ha tempo per tornarci? No, non io, non in queste condizioni. Spero che non vada a fuoco mentre latito dal mio appartamento o la padrona di casa mi fucila.

− Siri, metti una sveglia per le undici e mezza. – urlo ad alta voce, sperando che il cellulare la recepisca.

Mi addormento prima di sentire la risposta.

Mi addormento come un sasso.

La sveglia, per la cronaca, non l'avevo messa. Avevo il cellulare scarico.

Mi sveglio non so quanto tempo dopo che mi sembra di essere sceso nelle profondità degli inferi ed essere stato risputato fuori subito dopo, gli occhi che pesano e gli arti intorpiditi dal sonno.

Qualcuno sta...

Qualcuno sta bussando.

Miseria, miseria.

Devo mettere a posto, non posso far entrare qualcuno qui dentro, non con questo casino, sembrerò un senzatetto che sopravvive a cibo preconfezionato, non l'artista emergente che il mio sponsor descrive, come faccio a...

− Satori, sono io. –

Ah, menomale.

Apro la porta al mio editor con il miglior sorriso che posso, ma lui strizza comunque il naso prima di sbuffare, farmi da parte ed entrare.

− Questo posto sembra una discarica, hai fatto nottata di nuovo? Sei un disastro. –

− Lo so, Semi-Semi, lo so. – ribatto, non potendo nascondere l'unica verità disponibile.

Semi Eita è il mio editor. Il mio migliore amico, il mio editor, la prima persona che abbia creduto nello strano ragazzino coi capelli rossi che disegnava fumetti a quindici anni.

Anche il mio babysitter, devo ammettere mio malgrado.

Diciamo che viene qui più spesso di quanto dovrebbe per...

Ripescarmi dal mio lerciume?

− Fatti una doccia, senzatetto. – borbotta, lanciandomi una busta che mi ricorda tanto una di quelle che ho a casa.

− Sei stato a casa mia? –

− E dove avrei dovuto prendere i tuoi vestiti, se no? Ho portato Shirabu e ha detto che questo cambio ti sarebbe piaciuto, io mi sono fidato. –

Apro di poco il cartone scuro.

Lo richiudo.

Ci pensiamo dopo, ok? Pensiamoci dopo.

− Come sta? –

− Che? –

− La mia casetta, Semi-Semi, il mio dolce letto, il mio divano, la mia televisione, la mia cu... −

Lo vedo prendere il cestino della spazzatura, alzarlo fra le mani e iniziare a perlustrare lo studio buttandoci dentro fogli di carta appallottolata, bicchieri di caffè di Starbucks assortiti e scatole di ramen.

− Impolverata. –

− Oh, menomale. –

Non torno a casa da...

Martedì. Oggi è lunedì, per la cronaca, lunedì mattina.

È una vita bella, quella del mangaka, mi dico. Bella e piena di stimoli, non da psicopatici misantropi che vivono di lavoro, no no.

− Satori, puzzi come un cadavere. Ti vuoi andare a lavare? – mi sento ripetere da un Semi con le sopracciglia aggrottate mentre cerca di capire se la cosa che ha davanti sia da buttare o meno.

− Non è vero! Non mi faccio la doccia da... −

− Da almeno tre giorni, lercio. –

Forse quattro...?

Ok, la vita del mangaka è fatta così, fidatevi. Ci sono parti positive, lo giuro.

− Le tavole? – chiedo, ignorando completamente la questione.

− Arrivate, guardate, inviate all'agenzia. Erano perfette, Satori, questo te lo concedo, e la storia è davvero meravigliosa. Se non ti conoscessi penserei che sei una persona di talento. –

Sorrido fra me e me.

Perfette, eh?

Sì, questa è la vita del mangaka.

Fa schifo, ma nello schifo è anche davvero, davvero soddisfacente.

− Sei un santo, Semi-Semi. –

− Lo so. Quando diventi famoso mi compri uno yacht, sappilo. –

Gli faccio la linguaccia.

− Schifoso materialista, non ti basta la mia amicizia? –

Si gira, mi guarda negli occhi con pura disillusione nello sguardo.

− Se non ti vai a mettere sotto una cazzo di doccia, l'amicizia diventerà elemosina. –

Sbuffo.

− Antipatico. –

Il mio studio...

Era un appartamento.

Quando ne ho cercato uno, questo edificio era brutto, noioso e completamente dismesso, fatto di piccoli cunicoli e minuscoli appartamentini.

L'hanno ristrutturato, negli ultimi due anni che ho lavorato qui, ma dal mio studio al terzo piano, non mi ha mai cacciato nessuno.

M'imbuco nel bagno delle dimensioni di una scatoletta di tonno levandomi i vestiti di dosso e cacciandoli nel sacco della spazzatura che uso come cesto dei panni sporchi da lavare a casa.

Non ho l'acqua calda, non la pago qui, per cui l'improperio che mi esce dalle labbra quando il getto gelido come fosse uscito direttamente da un ghiacciaio mi colpisce la pelle, è piuttosto eloquente.

Di sicuro mi sveglierà, mi dico, cercando di non mettermi a piangere cercando riparo addosso al calorifero.

Faccio in fretta, prima di entrare completamente in ipotermia, mi strofino a fondo i capelli rossi con lo shampoo che ho portato qui l'ultima volta, mi lavo il corpo con lo stesso che nessuno qui ha i soldi per usare due saponi diversi, cerco di tirare via ogni goccia di sudore.

Ogni volta che mi spoglio mi stupisco di vedere quanti tatuaggi ho.

A mia discolpa sono un mangaka, e nessun mangaka è rispettabile, se non ha i suoi stessi disegni sul corpo, no?

Lo smalto sulle unghie è nero e mezzo mangiucchiato, mi riprometto che al prossimo momento di pausa lo rimetterò, e finisco di lavarmi lasciando cadere su di me l'ultimo, doloroso, pungente getto d'acqua gelida.

Esco sbattendo la testa contro la parte alta della doccia.

Cazzo.

Sto per urlare a Semi che si è dimenticato lo spazzolino quando lo vedo al fondo della busta e, nudo, spremo un po' di dentifricio sulle setole e inizio a lavarmi i denti appoggiato al lavandino.

Ho uno specchio piccolissimo e troppo basso per vedermi, per cui mi accontento di contare fino a sessanta due volte spazzolandomi la bocca e risciacquarmela velocemente senza perdere tempo a contemplare me stesso.

Infilo solo le mutande, prima di uscire, che lo spazio è troppo piccolo e io troppo alto, ma non voglio mettere a disagio Semi uscendo completamente nudo.

Non che non m'abbia mai visto, siamo amici da tanto, ma sta col suo nuovo ragazzo da poco e non vorrei che ci fossero incomprensioni di qualsiasi genere.

− Sembri un'altra persona. – mi sento dire, mentre lo vedo aprire i vetri e lasciar defluire un po' d'aria nell'ambiente chiuso.

− Sono solo io, Semi-Semi, solo con meno sudore addosso. – borbotto, appoggiando la busta sulla sedia da lavoro di fronte a me.

Ok, ora è arrivato il momento di affrontarlo.

Shirabu, il nuovo ragazzo di Semi, è uno stronzo.

Mi è simpatico, il mio amico è innamorato come non mai, ma è uno stronzo.

Che cos'è questa roba?

− Perché il tuo ragazzo vuole farmi vestire da troia? – chiedo, mentre tiro fuori un crop top di rete trasparente che credo di aver messo due volte in vita mia e lo squadro fra le mani.

− Forse perché così troverai finalmente qualcuno e smetterò di passare così tanto tempo con te? –

Tiro l'aria dentro la bocca in un plateale e scenico gesto d'offesa.

− Sceglieresti lui al mio posto? – chiedo, sbattendo le ciglia.

− Idiota. –

Ridacchio.

− Forse. –

Il prossimo pezzo che esce dalla magica busta delle meraviglie sono un paio di pantaloni cargo borchiati e pieni di catene, neri e lunghi fino alle caviglie.

− Ha stile, però. – commento, infilandoli una gamba alla volta.

Anche questi, belli, lo ammetto, ma non proprio la prima cosa che metterei in vista di un simpatico giorno di lavoro, ecco.

Pinzo fuori con le dita i calzini e noto anche una manciata di gioielli.

− Ha pensato proprio a tutto, eh? – commento, stizzito.

Perché non un paio di pantaloni e una felpa, miseria? Vestirsi bene e vestirsi comodi non vanno d'accordo, garantisco, e quel che devo fare oggi è letteralmente stare col culo sulla sedia a fare i template dei prossimi capitoli.

Mi concedo di mettere solo le due croci ai lobi delle orecchie e mando a fare in culo il chocker e i bracciali. Non sono in vena, direi davvero di no.

Semi chiude il sacco della spazzatura sbuffando, gli avambracci scoperti dalla camicia arrotolata, poi si asciuga la fronte con il braccio.

− C'è anche il pranzo, è lì. –

Noto una scatolina ben impacchettata sull'angolo del tavolo.

− Ti faccio una statua, Semi-Semi. –

− Sì, ma prima lo yacht. –

Rido.

Mi ha attaccato il cellulare in carica, noto, quando vedo lo schermo accendersi comunicando un pacifico "12:39" davanti ad uno sfondo disegnato da me.

Mi sento meno in colpa, ad avere fame, se è ora di pranzo.

Mangio ad orari talmente ridicoli, di solito, che è davvero un sollievo.

− Rimani a mangiare con me? – chiedo, speranzoso.

Non amo mangiare da solo, non so, mi mette tristezza, anche se lo faccio la maggior parte delle volte.

− Ho appuntamento con la ragazza degli sfondi alle due, devo scappare. –

− Nemmeno un momentino? –

Mette le mani sui fianchi, mi guarda con quella vena paternalistica che lo contraddistingue.

− Domani ti porto a mangiare gli onigiri, ok? –

Posso commerciare un pranzo con il ristorante di onigiri più buono della città? Certo che posso, cazzo.

− Andata. Ma paghi tu. –

− Satori... −

− Ok, facciamo a metà, va bene. Uno ci prova. –

Scuote la testa fingendo di essere sconcertato, mentre ripesca la sua borsa con le cose di lavoro e tira su il sacco della spazzatura da portare fuori.

− Scrivimi, più tardi, fammi sapere che sei vivo. – si raccomanda.

Sta per uscire, quando si gira un'ultima volta.

− È arrivata la gente al piano di sopra, tra l'altro, fa' il bravo. –

Chiude la porta con un tonfo e rimango di nuovo da solo nella mia stanza, con il pranzo ancora impacchettato sul grembo.

La gente al piano di sopra?

I tizi dell'ufficio nell'attico?

Hanno ristrutturato l'edificio per loro, era scontato che sarebbero arrivati. Ero convinto fossero già qui tutti a lavorare, a dirla tutta, ma il mio spirito d'osservazione, quando non si rivolge a scene e disegni, è piuttosto scarso.

Non che m'importi qualcosa, in realtà.

Stacco le bacchette attaccare con lo scotch di carta alla scatola, faccio per aprire il pranzo quando una folata di vento fresco m'investe il viso.

È una bella giornata, fuori.

Forse...

Mi tiro su in piedi in un attimo, vado verso i miei anfibi, li infilo e esco dallo studio con il pranzo sottobraccio.

Il cortile sul tetto è di tutti, c'è scritto sul contratto d'affitto, e non vedo il sole da così tanto tempo che sarebbe un'occasione sprecata, no?

Supero la moquette lercia del mio piano per chiamare l'ascensore.

L'edificio ne ha due, di ascensori, uno ristrutturato e pulito che ferma dal decimo piano al tredicesimo e all'ingresso, e quello dei comuni mortali, più piccolo e brutto, che copre gli altri piani e il tetto.

Prendo quello dei poveri, per salire, aspettando nella luce elettrica che le porte si chiudano e questa macchina infernale cominci la sua ascesa.

Conto i piani con le ombre di cemento che passano fra le fessure semiaperte delle porte, al quattordicesimo sento un "ding" annunciarmi che sono arrivato.

L'ascensore dei ricchi è proprio qui, e lo vedo tutto pulito e lustro al fianco del mio.

Complimenti, mi dico. Sono davvero pettinati, questi fantomatici lavoratori d'ufficio.

Salgo i quattro scalini che mi separano dal tetto, apro la porta, e quando mi ritrovo in un bagno di sole, finalmente mi lascio andare.

Profuma, l'aria di fuori, anche se è inquinata, perché è fresca, libera e chiara. Il sole mi scotta quasi la pelle, il vento mi corre fra i capelli, mi sembra di rinascere in un istante.

Ottima idea, Satori.

Ottima idea.

Chiudo gli occhi qualche istante, muovo qualche passo, mi cullo nella sensazione di calore e tepore della luce che m'invade.

Ah, ne avevo bisogno.

È il mio maledetto stomaco, a risvegliarmi dalla mia trance.

Oh già, ma io ho fame.

E che fame.

Scorgo la mia panchina al fondo dello spiazzo, quella dove mangio nelle giornate come questa, stringo di più il mio pranzo, lascio scattare indietro i muscoli del collo prima d'incamminarmi.

Ho le gambe lunghe, perché sono alto, nonostante la mia figura non sia imponente.

Ci metto un attimo.

M'arrampico sulla panca come un animale, che non so quale sia il mio problema ma di sedermi come una persona civile non sono palesemente in grado, appoggio di nuovo la scatola sulle mie gambe, prendo le bacchette e...

Non so chi abbia cucinato questo cibo.

Dubito Semi perché non è che sia tanto bravo.

Ma sa di paradiso.

No, davvero, sa di paradiso.

Forse la mia povera bocca abituata a microonde e noodles mollicci, forse i chili di salsa di soia che di solito metto su tutto e coprono ogni sapore, ma questo sa di paradiso.

Tiro dentro la bocca un chicco di riso dietro l'altro, poi un pezzetto di maiale impanato e qualche verdura bollita, mastico con purissima soddisfazione, mando giù e ricomincio.

È divertente, fare il mangaka, perché ti prende come una religione in certi momenti e ti concentri così tanto da avere un solo pensiero per la testa, ma anche rilassarsi ha i suoi vantaggi, devo ammettere.

La panatura del maiale mi scrocchia sul palato.

Che meraviglia.

Il sole mi inumidisce la pelle con raggi ancora flebili, nonostante l'ora.

Che relax.

L'aria sa di cibo, di vento, la mia pelle è morbida e umida, i capelli sono puliti nonostante non siano pettinati, i vestiti sul mio corpo sono leggeri e morbidi, non incrostati nel sudore.

Che bello, certe volte, mollare.

Dovrei farlo più spesso.

Forse stasera vado a casa, forse mi guardo una replica di American Horror Story sul divano e dormo su un letto vero, forse...

Mi rendo conto che sto ghignando di pura gioia alla prospettiva di fare una lavatrice. Potrei lavare tutti i miei vestiti, farmi un'altra doccia e cambiare le lenzuola e mettermi tutto pulito e profumato nel letto, addormentarmi così.

Sarebbe il paradiso.

Oppure potrei anche chiamare quel tizio carino della discoteca che non mette in fila due parole di senso compiuto e ha un palese problema di gestione della rabbia per ricordami com'è essere giovane.

Naah, di sesso occasionale non ho bisogno.

Non che voglia una relazione, in realtà la cosa mi lascia indifferente, ma il sesso occasionale è sempre un dramma, un problema più grosso del normale.

Basta sesso occasionale, almeno per un po'.

− Scusami, ti dispiace se mi siedo qui? –

Sobbalzo, spaventato, per poco non butto per terra tutto il mio pranzo, per un pelo non urlo, mi giro per vedere chi ha parlato e...

Forse il sesso occasionale non è una cattiva idea.

Forse...

Zitto, Satori, sta' zitto, ma che ti viene in mente?

Beh, cos'altro dovrebbe venirmi in mente?

Altissimo, elegantissimo, perfettissimo e bellissimo, quello che sarà un metro e novanta o forse più di uomo in giacca e cravatta con la sua scatola del pranzo, i capelli scuri, gli occhi seri e la voce così... profonda, cazzo.

Che ci fa qui?

Chi è?

Perché sembra uscito da una rivista patinata ed eppure è sul tetto del postaccio dove lavoro, con il pranzo in mano a chiedere a me di spostarmi?

Oh, di certo il sesso occasionale non mi farebbe schifo, se me lo chiedesse qualcuno del genere.

Credo che direi un grosso, grasso, convinto...

− Se ti do fastidio vado nell'altra panchina, è che qui c'è più sole. – riprende, con la stessa voce che sembra essere fatta di cioccolato fuso.

Sbatto le palpebre.

Mi sono incantato, vero?

Oh, merda.

− No, no, siediti pure. – borbotto di fretta, cercando di non impappinami nelle parole. Mi sposto di lato per fargli posto, distolgo lo sguardo tentando quanto posso di nascondere il rossore nella mia faccia.

Mi ha beccato a fissarlo, lo so.

Chissà cosa ha pensato.

È che è illegale, cazzo, è davvero illegale.

Riprendo a mangiare concentrandomi platealmente sul mio cibo.

Ha le spalle larghe, quando si siede al mio fianco una sfiora appena la mia, lo vedo aprire il suo pranzo, tirare fuori le bacchette da un comparto apposito – non attaccate con lo scotch come lo erano le mie -, sfilarsi la giacca del completo e tirare su i polsini della camicia.

Ha le vene delle braccia che s'intravedono.

Muscoli, questo vuol dire muscoli, più sono spessi, più le vene sono visibili in superficie.

− Lavori qui? – mi sento chiedere, e di nuovo non posso fare a meno di sobbalzare.

Cazzo, devo smettere di fissarlo.

Mando giù il boccone nella gola secca, incollo gli occhi dritto davanti a me e annuisco.

− Sì, tu? –

− Anche io. Siamo arrivati oggi. –

Oh, dev'essere dell'ufficio nuovo e pulito degli ultimi piani, potevo arrivarci da solo.

Raccolgo un po' di coraggio e mentre gioco con le bacchette in mezzo al riso, senza riuscire davvero a guardarlo in faccia, gli rivolgo un'altra volta la parola.

− Come mai a mangiare sul tetto? –

− I miei dipendenti non mi hanno invitato a pranzo. –

Due cose.

Uno, perché? Io morirei per andare a pranzo con questo tipo, anche se fosse l'uomo più antipatico del mondo. Cioè, parliamone, potrei... guardarlo.

Secondo punto, ha detto "dipendenti"? Vuole per caso dire che è il capo? Questa è una fantasia sessuale, per forza, ho visto più di un porno avere questa trama.

− Stronzi. – borbotto fra i denti, sorridendo fra me e me mentre prendo un pezzetto di maiale fra le bacchette e lo avvicino alle labbra.

− Già, hanno anche lasciato il post-it del posto in cui sarebbero andati sulla mia scrivania. Forse volevano rinfacciarmelo, eppure mi sembra di essere un buon capo. – borbotta, con il tono stranamente mogio.

A questa, quasi mi strozzo col cibo.

Tossisco un paio di volte che lo vedo correre con lo sguardo al mio viso come fosse preoccupato.

Mi riprendo con un grande fiato.

− Non ti è venuto in mente che forse quello era un invito? – dico, con la voce un po' graffiata dalla tosse.

Vedo la sua fronte rilassarsi in pura realizzazione.

− Ah. –

Non nascondo una risatina.

Adorabile.

Riprende a mangiare in completo silenzio, come se stesse meditando fra sé e sé, io lo imito cercando di non ricominciare a ridere.

Procediamo in questo modo per un paio di minuti e quando vedo il riso iniziare a diradarsi mostrando il fondo della scatola, mi viene questa smania di prolungare il momento.

Se i suoi colleghi l'avevano invitato per davvero allora forse non lo vedrò mai più, no?

E allora tanto vale benedire i miei occhi ancora qualche istante.

− Che cosa fate, in quell'ufficio enorme? – è la prima cosa che mi viene in mente.

− Studio legale. –

Studio legale, eh?

− E tu... −

− Sono un avvocato. –

Uh, adoro gli uomini di potere. E qualcosa mi dice che grande, grosso e adorabile si sposerebbero perfettamente con l'immagine di avvocato squalo che fa piangere i testimoni in aula e si sistema il completo prima di uscire platealmente fra le persone.

− Tu invece? Lavori nell'agenzia del settimo piano? – mi chiede, tranquillamente.

L'agenzia del settimo pia... quella di moda?

− Pensi che faccia il modello? –

− Non lo fai? –

Io...

Ok, forse ci potrebbe stare con l'idea moderna di bellezza androgina e con le forme lunghe e magre, ma io...

− Non sono così bello, no, figurati. – borbotto, fissandomi le punte dei piedi mentre sento le mie guance farsi del colore del sole.

Voleva prendermi in giro?

O forse, essendo un uomo d'ufficio, pensa che sia qualcosa di frivolo che si addice al mio modo di presentarmi.

Magari i vestiti un po' alternativi.

− Oh, perdonami. Non volevo metterti a disagio. – ribatte, affondando le bacchette nel pranzo e tirandone su l'ennesimo pezzo di carne.

Mastica con calma e appoggia le bacchette di traverso.

Cazzo, io ho rallentato il mio pranzo, ma il suo, lui, l'ha finito.

− Non mi hai messo a disagio. – sputo fuori, pur di dire qualcosa, forse con un tono di voce troppo alto e frettoloso, da farlo girare verso di me un po' interdetto.

Poi...

Sorride.

Mi guarda e sorride.

− Menomale, allora. –

Dicevo che mi piaceva la luce del sole, no? Questa, è la luce del sole.

Lo vedo mettere via il pranzo e il mio cervello corre nel tentativo di trovare qualche altro argomento in fretta, frettissima, ma invece di rimettersi la giacca e andarsene, l'uomo prende qualcosa che aveva appoggiato per terra, mi guarda e inclina la testa.

− Vuoi un po' di tè? –

È un thermos.

− Non ho il... bicchiere. –

− Ne prendo sempre uno di scorta, e io posso berlo dal tappo. – dice, tendendomi un bicchiere di plastica.

Se voglio il tè, dice. In realtà non bevo mai il tè, bevo solo la Monster e troppo spesso perché il mio corpo mi voglia bene, ma ecco, se vuole bere il tè, berrò il tè.

Raduno il riso che rimane nel mio pranzo in due bocconi, li mando giù quasi senza masticare e pochi attimi dopo sono lì, con la mano tesa e il bicchiere in bella vista.

Versa un po' di liquido scuro.

− È tè nero, è un po' forte. Non ci metto lo zucchero. – mi avverte.

Una patina di vapore si raduna sul bordo e lo avvicino alle labbra soffiando piano.

− Posso berlo o mi ustiono la lingua? –

Non risponde, ne versa un po' per se stesso e avvicina le labbra.

Lo osservo prendere un minuscolo sorso, saggiarlo sul palato e girarsi verso di me.

− Bevibile. –

− Perfetto. –

In effetti, senza zucchero, fa schifo. Credo se ne accorga anche lui dall'espressione che faccio.

− Troppo amaro? –

− Un po'. –

Il retrogusto non è cattivo, però, e decido di lanciarmi in un altro sorso.

Vengo distolto dal mio intento quando il bell'avvocato vicino a me ricomincia a guardarmi negli occhi, come mi volesse chiedere qualcosa, e sono costretto, ora, a reggere il contatto.

Ha gli occhi di un verde scurissimo, che sembra quasi castano, ma si nota il loro vero colore quando la luce li colpisce.

È bello, miseria quant'è bello.

− È il tuo colore naturale? – chiede, riferendosi, credo, ai miei capelli.

Annuisco.

− È un bel colore. Non avevo mai visto qualcuno con i capelli come i tuoi. –

− Grazie. –

Mi piace la sua voce, sia perché ha qualcosa di davvero sensuale, nei toni bassi che assume, sia perché è melodiosa e pacata.

− Che cosa sono i tuoi tatuaggi? –

Di norma non amo le domande su di me, sono piuttosto evasivo, riservato, e le persone invadenti non mi piacciono.

Ma quest'uomo non è invadente.

È curioso, come se gl'interessasse davvero.

− Sono i personaggi del mio primo fumetto. Guarda, questa è la protagonista. – indico la vignetta disegnata in un sottile tratto nero sull'interno del mio avambraccio.

Stringe gli occhi e si avvicina, lo guarda con attenzione.

− Sei davvero bravo. –

A questa arrossisco di nuovo.

− Quindi sei il mangaka del terzo piano, mi spiace di non averlo capito prima. Avevo letto sulla planimetria che c'eri anche tu ma non ci avevo pensato. – dice, annuendo e scorrendo con lo sguardo su altri disegni.

− Beccato. –

Sorride appena, piega la testa per guardare ancora.

− Mi piace molto il tuo stile, che cos'è? –

− Steampunk gore. –

Annuisce, ma ho l'impressione che non abbia idea di cosa io stia parlando.

Prende un sorso di tè, se ne versa un altro po' e lo vedo allentare il nodo della cravatta, stendere le gambe di fronte a sé e rilassarsi un po' più di prima.

È bello, sì, davvero bello.

− I miei non mi facevano leggere i fumetti quando ero ragazzino, ma mi sono sempre piaciuti. – commenta, sorridendo come ad un ricordo piacevole.

Ruoto gli occhi platealmente.

− Che noia. –

− In effetti, non credo di essere molto divertente, no. –

Non lo dice come se cercasse un complimento, che lo cercherebbe a fare da me, dopotutto? Lo dice come se fosse qualcosa di cui è consapevole e basta.

Ed eppure nonostante non abbia idea di chi sia, devo lottare l'istinto di contraddirlo.

− Come ti chiami? – mi scappa dalle labbra, mentre cerco di ingoiare questo schifo di tè amarissimo senza offenderlo.

− Ushijima Wakatoshi. Tu? –

Deglutisco la saliva.

C'è qualcosa nel modo in cui l'ha detto che aveva un sentore appiccicoso e persino sensuale, non so per quale motivo. Forse che il suo nome è lungo e lo costringe a muovere parecchio le labbra per pronunciarlo, credo.

− Tendō Satori. –

Sorride di nuovo, ma questa volta non guarda me, guarda dritto di fronte a sé.

− Mi piace il nome "Satori", suona bene. –

Anche a me piace, mi piace come lo dice lui.

Finisco il mio bicchiere e mi perdo nel silenzio a fissare la stessa cosa che sta fissando anche lui, il resto della città di Tokyo che pranza sotto il sole timido d'autunno.

Il silenzio non è fastidioso, però, è confortevole.

− Se domani non dovessero invitarmi a pranzo ti troverò qui a mangiare? –

In realtà senza pranzo fatto, di solito la casa prevede ramen in microonde, o digiuno fino alle quattro e delivery di sushi da morirci sopra, ma...

− Certo. – convengo, con una plateale menzogna.

− Sono felice. –

Ha le gambe lunghe, lunghissime, più lunghe delle mie, ed è ovunque così... massiccio. Sembra un atleta, da come è ben piazzato.

Mentre osservo i tratti del suo viso mi viene quasi da ridere.

Perché ho detto di sì? Perché ho mentito?

Lui è... un avvocato. Di successo, immagino, con una faccia che sembra essere stata disegnata da qualche artista ben più capace di me, le spalle larghe e la statura di un giocatore di pallavolo, la voce calda, bassa e sensuale, i modi educati e gentili.

Cosa ho pensato di fare?

Sono solo un ragazzino vestito bene per sbaglio, che non riesce a consegnare un singolo lavoro in tempo e cura se stesso meno di quanto curerebbe una pianta morta, miseria.

Ed eppure sorrido, mentre il sole ci invade, perché anche se è una speranza vana averle, le cose belle mi mettono di buon umore e lui è bello, bello davvero.

Forse il mio animo artistico, forse l'occhio per i soggetti e gli sfondi, ma rimango quasi rapito a guardarlo, lui e le sue ciglia folte e la pelle distesa.

Bello davvero.

È stato una bella esperienza.

Credo che racconterò ridendo questa cosa, fra qualche mese, quella volta che "ho visto un avvocato ricco e bello sul tetto del mio posto di lavoro", davanti ad una birra o qualcosa del genere.

Mi stiracchio le gambe lunghe sulla panca, raccolgo le mie cose e mi alzo.

Ushijima non dà cenno di volersi muovere, forse vuole rimanere qui a rilassarsi qualche istante ancora.

Agito la mano vicino a lui, sorrido, indietreggio.

− Ciao, Ushijima. – dico, facendo dietrofront, i miei passi che risuonano sul tetto e la testa che si gira piano, i capelli umidicci che svolazzano.

Non mi giro.

Non lo faccio perché che senso avrebbe?

Se l'avessi fatto, l'avrei visto guardarmi andare via. E forse avrei capito prima un sacco di cose.

Ma è andata così, e così doveva andare.

Da questo punto ad almeno due settimane più avanti io e Ushijima... so che dovrei dire che non ci siamo più visti per creare suspence e per fare fede al fatto che fossi convinto che piuttosto di passare altro tempo con me si sarebbe sparato ma...

Abbiamo pranzato insieme tutti i giorni.

Anche la domenica.

Non credevo gli fosse necessario venire a lavorare nel weekend, ma dice che preferisce lavorare il sabato e la domenica, paradossalmente, perché non c'è nessuno in ufficio e può rilassarsi davvero.

Quindi...

Ok, sono un clown. Io ero convinto al cento per cento che non fossimo compatibili, e continuo ad essere convinto che se quest'uomo non è impegnato il mondo ha qualcosa che non va perché è maledettamente perfetto, ma ho voglia di... piacergli?

Non credo di aver mai fatto la doccia così spesso.

Tutti i giorni.

Mi vesto bene anche se devo lavorare. Mi cambio prima di andare a pranzo, mi rimetto la tuta quando rientro in studio.

Torno a casa tutti i giorni per... cucinarmi il pranzo. Niente take away cinese in fondo alla via, solo pranzi preparati per essere mangiati sul tetto.

Sono un clown.

Sono davvero un clown.

E comunque non è che ho una cotta per l'avvocato, è solo che...

No, dai, non scherziamo. Ho una cotta per l'avvocato.

Ho pensato che fosse bellissimo la prima volta che l'ho visto, ma l'idea si è insinuata nella mia testa quando il giorno dopo è venuto su con le tazze di ceramica, il tè alla pesca già zuccherato e un pasticcino alla panna che diceva di aver preso dal frigorifero comune.

Perfetto, Ushijima è l'uomo perfetto.

Immagino che sia fidanzatissimo, perché se non lo fosse sarebbe la più grande cosa senza senso del mondo, davvero.

Per la cronaca, ho dato buca agli onigiri di Semi-Semi per l'avvocato.

Ho provato quindici varietà di tè diverse in quindici giorni, e per quanto sia piacevolmente stupito di quanto ne sia conoscitore sono anche scioccato all'idea che al mondo esistano più di due tè diversi.

Io credevo che esistesse quello verde e quello nero, miseria.

E invece esiste il tè rosso, quello bianco, quello giallo e altre millemila varietà diverse.

Chi l'avrebbe mai detto.

Poi ho fatto anche un'altra cosa, una disonesta e che non avrei dovuto fare per rispetto ma che mi è sembrata un'idea geniale sul momento.

Ho scritto "Ushijima Wakatoshi" sulla barra di ricerca di Google.

Quante cose, ho trovato, quante cose.

Prima di tutto, ha ventinove anni. Otto anni più di me, una distanza perfetta per me che amo gli uomini più grandi, cazzo.

Si è laureato alla scuola di Legge con un anno di anticipo e il massimo dei voti, ha due lauree magistrali, fa il penalista e ho fatto più docce io in questo mese di quante cause abbia perso lui in tutta la sua carriera, è abbastanza conosciuto da fare notizia sui giornali di gossip più beceri e...

Senza maglietta fa sbavare.

C'è una sua foto al mare che non so da dove sia spuntata fuori.

Lasciatevelo dire, avevo la mascella a terra e i pantaloni più stretti di prima dopo aver visto quella foto.

Ed eppure mi è sembrata una cosa scorretta, quando ci ho pensato meglio su, perché del profilo minaccioso, ricco e di successo dell'uomo che ho visto online, il vero Ushijima, quello che mi porta il tè e mi parla con la sua voce pacata, ha davvero poco.

Non è la persona piena di sé che vive nuotando nei soldi e ti guarda dall'alto in basso.

È un tipo... semplice.

Serio, onesto, adorabile nel suo modo di fare davvero ingenuo.

Non sembra cattivo, non mi è mai sembrato una sola volta cattivo da che l'ho visto.

Di motivi per schifarmi ne avrebbe avuti così tanti, dai tatuaggi che a quanto pare i suoi genitori trovavano volgari ma che lui apprezza, ai capelli scarlatti tirati su e rasati ai lati del capo, agli orecchini e lo stile tutto tranne che sobrio di vestire.

Ed eppure quel che Ushijima Wakatoshi fa, la persona che descrivono su internet come senza scrupoli e troppo seria per essere avvicinabile, è chiedere, incuriosirsi e darti attenzione.

Per cui sì, ho una cotta per l'avvocato. Una mega cotta, gigantesca, grande che Semi-Semi ha riso venti minuti quando gliel'ho raccontata, e per quanto dia per scontato che non ci sarà occasione per me di realizzarla per davvero, direi che al momento ci sono piuttosto infilato in mezzo.

È che siamo diversi, ok?

Che siamo diversi e che potrebbe spezzarmi un braccio con un solo movimento del polso, che ho problemi con le figure paterne per cui il mio tipo d'uomo è grosso e più vecchio di me, che è bello e che è tremendamente dolce.

Come potrei non avere una cotta?

Mi sembra tutto quello che ho sempre cercato in un uomo perfettamente impacchettato in un involucro più che allettante.

Non dirò che ho pensato a lui l'ultima volta che ero nella doccia, e anche quelle prima, perché sarebbe volgare ma...

Diciamo che il tizio decente che mi sono portato a casa lo scorso sabato per togliermi di mezzo un prurito fastidioso potrei averlo chiamato "Wakatoshi" mentre avevo un orgasmo.

Me ne vergogno?

No.

Dovrei, ma no.

E comunque, ora, due settimane dopo, per la cronaca, sono punto e a capo.

Con cosa? Con il lavoro, amici, con il lavoro.

È domenica, e sono di nuovo con l'acqua alla gola.

È che devo consegnare i prossimi capitoli domani mattina e potrei aver sprecato un sacco di tempo ad imparare a cucinare qualcosa di presentabile e a disegnare qualcuno per cui ho una certa cotta e in ogni caso, eliminando il fattore "motivazione", rimane che sono in ritardo.

Sono incastrato con una tavola d'azione, ora, e miseria ladra se non è difficile disegnare il mio bel protagonista che combatte.

Cazzo.

Non guardo l'orologio, so di star lavorando ininterrottamente da ieri sera, mentre appallottolo l'ennesimo foglio sbagliato e lo lancio dall'altra parte della stanza.

Volevo fare uno sketch veloce della posa, scannerizzarlo e sistemarlo in digitale, ma niente sembra adatto e sono nervoso, molto nervoso e anche molto incazzato.

Nella mia testa, esistono a grandi linee due setting completamente differenti.

Uno è quello standard, Satori Tendō che sorride come uno psicopatico, fa battute di dubbio gusto, sceglie solo partner improbabili e si veste come un adolescente scappato di casa che è andato a vivere in un cimitero vittoriano.

L'altro, a mio dire molto più spaventoso, è Satori Tendō che fa quell'unica cosa che gli viene bene.

Quando disegno, sono una persona seria.

Voglio il massimo, pretendo da me stesso il massimo, sono attento ai dettagli, concentrato e tremendamente minuzioso, e non riuscire a far uscire qualcosa dalla mia testa come vorrei che fosse non solo mi fa incazzare, ma mi causa vere e proprie crisi di nervi.

Allungo il braccio verso la Monster Ultra Red aperta sul tavolo.

È la quinta che bevo e sì, so che mi verrà un attacco di cuore a trent'anni, grazie per l'interessamento ma non mi pare di averlo chiesto a nessuno.

Prendo un sorso, mi lecco le labbra, litigo con la tastiera per cambiare immagine.

Tutti i riferimenti sono uno schifo, oggi.

Il mio stomaco brontola in sottofondo, ma lo ignoro, mentre cambio posizione sul piano di lavoro e ricomincio a disegnare, le linee che prendono un senso, il disegno che si forma, l'immagine che pian piano scivola via dalla mia mente.

Solo che qualche minuto dopo la guardo.

E non somiglia per niente all'idea che mi ero fatto.

Altro foglio sprecato.

Cazzo.

Infilo la cima della matita fra i denti, mordo forte, incrocio le gambe e appoggio la fronte contro il tavolo, la voce che esce fra le labbra chiuse in un verso di pura frustrazione.

Miseria.

Il mio culo non lascerà questa sedia finché la vignetta non sarà adatta, e questo è uno di quei disegni che prende la pagina intera, ci metterò una vita di questo passo.

Mi infastidisce, non riuscire a fare le cose.

Mi manda fuori di...

Qualcuno bussa alla porta.

Chi osa venire a disturbare il mio preziosissimo lavoro? Chi? Quale essere infame si permette di interrompere il processo creativo di una mente geniale?

La tentazione è quella di alzarmi e cacciare una simpatica bestemmia, ma mi trattengo.

− È aperto, ma sei tu, Semi-Semi, giuro che ti apro in due come una mela. – borbotto, senza alzare lo sguardo e rimanendo fisso sul tavolo.

Peccato che non era Semi-Semi.

Lui la domenica ha una vita, e di meglio da fare, tipo stare con il suo ragazzo e fare cose diverse che non siano piangere dietro un lavoro per cui si è in ritardo.

E nell'ufficio grande e grosso pieno di sola aria, nel weekend, c'è una sola altra persona che trovi "rilassante" lavorare.

− Non sono Semi-Semi. Non so chi sia, non farmi del male. – è quello che sento provenire da una voce melliflua e dolce che mi genera tutta una serie di effetti corporei immediati.

Alzo la testa di scatto.

Tendō in versione persona normale fa capolino nel mio cervello.

Sono in pigiama, non per scherzo, davvero, in pigiama. Mi sono lavato ieri sera, prima di darmi a questa tavola, ma sono comunque in pigiama.

Ho i calzini di Monsters & Co. tirati sopra l'elastico dei pantaloni, la felpa di due o tre taglie più grande del dovuto, gli occhiali enormi e rotondi in faccia, occhiaie scure come la mia anima e i capelli un casino.

Lo studio è pieno di cartacce sparse ovunque, sembro strafatto di qualche eccitante da quanta caffeina ho bevuto e sono seduto come una scimmia.

E invece Ushijima è con il suo solito completo, il sorriso e i capelli perfetti, l'espressione elegante e i vestiti che da soli comprerebbero questo posto.

La parte razionale di me dice che devo sotterrarmi e pregare il cielo che si dimentichi di cosa ha visto qui dentro mentre gli dico che sono malato per coprire la mia condizione pietosa.

Ma in questo momento sono un artista, non una persona normale, e quella parte, che so già si accumulerà in sole insicurezze più avanti, viene completamente schiacciata quando le mie pupille atterrano sul soggetto perfetto.

− Ushijima, tu... sei un dono del cielo. – dico, guardandolo dritto in faccia.

Le spalle larghe, la postura altezzosa, la statura marmorea.

È perfetto.

La sua faccia, però, la sua faccia seria e matura arrossisce, quando finisco di parlare.

− Io sono... un dono? –

− Sei un dono meraviglioso. Vieni qui. –

Ha le guance rosse, quando fa un passo nel mio studio.

− Io... scusami se sono venuto. Non ti ho visto di sopra e ho aspettato quaranta minuti e poi ho pensato che magari stessi male e sono venuto a vedere. Non volevo intromettermi. – si giustifica, nonostante non gliene abbia chiesto il motivo.

La parte razionale di me esplode, a sentire con quale dolcezza parli, ma ripeto che non è quella a vincere.

− Ti va di farmi un favore? – dico invece, fissandolo spudoratamente.

Dovrei vergognarmi di come sono, al momento, ma l'unica cosa che attraversa la mia mente è che Ushijima è perfetto, perfetto.

− Certo, con piacere. –

Sorrido, mi alzo, mi pianto di fronte a lui.

− Ti va di toglierti la camicia? –

A questo, vedo chiaramente la sua faccia avvampare. Uomo senza scrupoli, eh? A me sembra un cucciolo di taglia extra large, questo quasi trentenne avvocato che diventa tutto rosso.

− Per fare... cosa? –

Prendo una copia della mia ultima tavola completa dal tavolo. C'è il mio protagonista, lì, pieno di sangue e ferite e cose schifose che mi piacciono tanto, ma s'intravede piuttosto bene la forma del corpo.

− Mi serve un'immagine da prendere ad esempio per la tavola che sto facendo e internet è una merda per questo e tu sei perfetto per lo scopo. Ti giuro che saranno due secondi e poi basta, davvero. – dico, mostrandogli le linee nette del personaggio che intendo affibbiargli.

− Pensi che gli somigli? – chiede ingenuamente.

Devo mordermi la lingua per evitare di rispondergli come vorrei.

Quel che direi è... "certo che gli somigli, Ushijima, sei un figo spaziale da cui mi farei aprire in due, proprio come lui", ma ripiego sul altro.

− Sei alto. –

− Oh, capisco. Se pensi che possa darti una mano, allora... −

− Sarebbe la cosa più carina che qualcuno abbia mai fatto per me. –

Un nuovo tipo di convinzione gli coglie il volto, quando gli dico queste parole, e non so bene per quale motivo, annuisce molto più deciso di prima.

− Ok. –

Se fossi solo un briciolino più cosciente, mi renderei conto che sto per vedere Ushijima Wakatoshi senza maglietta. Senza maglietta.

Lui, la sua pelle abbronzata e i suoi incredibili muscoli che potrebbero strozzarmi.

Sfila la giacca del completo, la appoggia sul retro di una sedia libera, allenta il nodo della cravatta e la sfila.

Alza gli occhi verso di me che lo fisso quasi senza sbattere le palpebre.

Ha il ponte del naso un po' rosso.

− Scusa, è che sono timido. –

Timido?

Timido di che, vorrei urlare, di che? Sto per lavare il pavimento con la bava, e tu sei timido?

Ma ad ognuno le proprie insicurezze, direi.

− Fai con comodo. –

Dovrei smettere di guardarlo?

Mi concentro nel fissare il tavolo mentre sento le sue dita scorrere i bottoni e slacciare le asole una ad una, giusto per non metterlo a disagio.

In ogni caso il modo in cui rimetto lo sguardo su di lui non credo sia tanto meno inquietante di quello di prima, quando lo vedo sfilare la camicia e appoggiarla con la giacca.

− Cazzo. – è quello che coscientemente dico.

Già, Satori, cazzo.

Ci sono muscoli in quel torso che non credevo neppure esistessero. E di quella forma, di quel colore, con le ombre perfette e l'abbronzatura dorata.

Le braccia? Vogliamo parlare delle braccia?

Sto seriamente pensando di chiedergli di stritolarmi contro il suo petto nudo quando mi ricordo perché sono qui.

Ok, concentriamoci.

− C'è qualcosa che non va? – commenta, con lo sguardo un po' imbarazzato.

− No, no, assolutamente. È che sei... davvero molto alto. –

Merda, ora penserà di me che sono uno psicopatico.

Caccio le preoccupazioni scuotendo la testa, prendo il blocco dal piano di lavoro in mano, infilo la matita fra le labbra e faccio per avvicinarmi.

− Capisco. – conviene.

S'irrigidisce quando mi vede camminare verso di lui.

Rallento.

− Ti dà fastidio se ti tocco? Vorrei spiegarti che posa mi serve. Se non vuoi non è un problema, ovviamente. –

È davvero tenero, miseria, arrossisce come se non fosse bello com'è. Credo sia molto ingenuo, Ushijima, per non capire che la visuale non è qualcosa di cui essere insicuri.

− Va bene. –

Appoggio il blocco sotto il braccio, la matita fra i denti e alzo le mani.

La sua pelle è calda, solida contro le mie dita. Sento i muscoli rilassati, morbidi sotto i polpastrelli mentre li muovo contro il suo corpo e credo che se non ci fosse l'idea del disegno da fare, sarei già morto sul colpo.

Prendo una spalla fra le mani, la giro mettendo in tensione tutti i muscoli intercostali, sistemo il braccio rilassato in basso, il mento appena verso l'alto e il petto rilassato, in un miscuglio di tensioni e morbidezze.

Non dice niente, guarda le mie mani muoversi su di sé e basta, un po' rosso sul ponte del naso ma non molto di più.

− Hai delle belle mani. – dice ad una certa, osservandole.

In effetti sembrano lunghe, le dita, lunghissime e bianche, contro la sua carnagione più scura.

Sorrido e ringrazio sottovoce.

Perdo un paio di minuti a sistemare la lampada elettrica perché lo illumini come desidero, mi siedo sul tavolo a gambe incrociate e lo guardo.

Che... meraviglia.

Questo era quello che cercavo.

Questa l'eleganza minacciosa e violenta del corpo che avevo in mente.

Senza sangue, qui, solo con i muscoli in bella vista e lo sguardo serio quanto intimidito di quegli occhi che sembrano seguirmi.

Non credo di aver mai fatto un bozzetto così velocemente, ma il disegno nasce spontaneo dall'immagine, in tutti i suoi dettagli.

Mi mancava... coinvolgimento, credo. Quel guizzo d'arte che proviene dall'ispirazione che ti cattura, intendo. E se c'è un'ispirazione che mi cattura, quella è il corpo mezzo nudo di un avvocato troppo bello per essere vero.

Finisco il bozzetto che quasi quasi mi dico di rifarlo daccapo, solo per poterlo osservare ancora, ed è quando l'animo da artista in me si ritrova soddisfatto e appagato che, finalmente, mi rendo conto di cosa ho fatto, dove sono, e chi ho denudato qui esattamente di fronte a me.

Oh, merda.

Io...

− Hai finito? – mi sento chiedere, ma il tono non è scocciato, solo curioso.

− Ho finito. – confermo, cercando di guardare ovunque tranne che nella sua direzione.

Se lo guardo potrei sprofondare dalla vergogna.

− Posso vedere? –

Può vedere?

Certo che può vedere, insomma, dopo avermi aiutato mi sembra scontato che possa.

Annuisco per non dire altro.

Che ho fatto, miserabile, che ho fatto?

Già si sarà trattenuto dal vomitare alla vista di come sono in realtà, non sofisticato e androgino ma trasandato e casinista, poi mi sono anche messo a fare pretese strane chiedendogli di spogliarsi, cazzo.

Lui che era venuto solo a vedere come stessi.

Maledetto Satori.

Già avevi meno tre possibilità prima, ora ne hai meno mille.

Sporgo il bozzetto verso di lui che, come se si sentisse finalmente a suo agio, si avvicina senza rivestirsi.

La sua pelle irradia calore, e ha un odore così buono che lo sento quando si appoggia al mio fianco per spiare dal mio foglio.

− Sembro bello, da come mi hai disegnato. – commenta, senza il minimo grammo di arroganza ma solo litri e litri di ingenuità.

− Ushijima, tu sei bello. – mi viene istintivo rispondere.

Penserà che sono matto? Sì, ovviamente.

Ma dire a qualcuno che è di bell'aspetto non equivale a flirtare e in questo caso non dirlo sarebbe un'inutile menzogna.

Sorride, lo vedo con la coda dell'occhio.

− Grazie, anche tu sei bello. –

Tiro su un poco convinto angolo della bocca.

− Non devi dirlo per forza, puoi accettare il complimento anche senza ricambiarlo, lo sai? – mormoro, meno convinto di prima.

È ingenuo e troppo educato, quest'uomo. Così carino, per carità, ma così non farà altro che alimentare emozioni che non posso permettermi di far esplodere.

− E se volessi ricambiarlo? –

Ha il tono di voce basso e incerto come il mio.

E se volesse... ricambiarlo.

Ma no, insomma, in quale mondo parallelo il talentuoso Ushijima Wakatoshi ricambierebbe un complimento del genere?

− Sono in uno stato pietoso e lo so anch'io, ma grazie per averci provato. –

Di risposta a questo, quello stesso uomo che non credo di aver mai visto fare nulla più di un sorriso timido, ride.

Ride appena, ma basta per sentire il suono rimbombare nella sua cassa toracica e nella voce calda.

Mi giro verso di lui con gli occhi spalancati.

− Sei un casino, è vero, ma sei carino lo stesso. – ammette, piegando la testa.

Io sono "carino".

Io sono "carino"?

Alza una mano e incastra una ciocca di capelli dietro il mio orecchio.

Improvvisamente mi rendo conto di quanto mi sia vicino e di quanto io stia trattenendo il fiato.

− Ho il pigiama. –

− È un bel pigiama. –

Mi metterei a piangere, o a urlare o magari anche a ridere, se non avessi così paura di fare qualcosa di troppo eccessivo e rovinare il momento.

Rimarrei così per sempre, mi dico.

Per sempre.

− I calzini... −

− Sono strani, ma fanno ridere. –

I miei calzini fanno ridere.

Io davvero, non ci credo.

In confronto a lui, che è perfetto qualsiasi cosa faccia, mi sembra davvero di essere uscito dritto dritto da una discarica di periferia.

Ed eppure dice che non è così.

Maledetto cuore, se batti così forte esploderai.

Prendo fiato con la bocca, la tensione che aumenta e si sente nell'aria, prima che anche lui respiri e decida, dopo un attimo che sembra infinito, di allontanarsi.

Merda.

Potrei aver deciso in questo istante a cosa penserò stasera nella doccia.

Allunga un braccio verso la camicia, la tira su e la sistema sugli avambracci.

È bello mentre si spoglia ma è bello anche quando si riveste, e mi nascono tutta una serie di immagini in mente che riguardano un avvocato molto serio, me su un letto, e il suddetto avvocato che si riveste con me mezzo nudo fra le lenzuola.

Caccio il pensiero prima che la cosa diventi eccessivamente imbarazzante.

− Scusa per il pranzo, se mi concentro su qualcosa non riesco a staccare. – borbotto, distogliendo lo sguardo.

Se lo guardassi, troverei un sorriso sul suo volto.

− Non c'è problema. Se vuoi andiamo a mangiare ora, se hai ancora fame. –

− Non sono tornato a casa ieri, non ho niente. Ordinerò qualcosa d'asporto. –

Finisce di abbottonare la camicia e alza il colletto per rimettere la cravatta.

− Se vuoi facciamo metà. –

Dovrei dire di no per non sottoporre il mio cuore già pressoché a brandelli ad eccessiva stimolazione, ma le parole non escono e la mia testa annuisce da sola.

− Perfetto. –

Sto imboccando un sentiero pericoloso, me lo sento.

Tiro avanti le gambe e sistemo i calzini sotto i pantaloni, stiracchio le braccia e poso il blocco sul tavolo prima di scendere.

Ushijima si sta annodando la cravatta, e tutte gli utilizzi fantasiosi di quel costosissimo e penzolante lembo di tessuto mi passano per la testa nel secondo in cui lo guardo, ma li scaccio cercando le mie scarpe.

− Tendō? –

− Dimmi. –

Vedo gli anfibi, mi avvicino, ne tiro fuori uno e lo infilo sopra i calzini osceni che lui ha osato trovare carini.

− Posso chiederti il numero? Così la prossima volta invece di scendere ti chiamo e non ti disturbo. –

Sento il calore accendersi sulla mia faccia.

Merda, la mia cotta sta davvero diventando mastodontica.

− Certo. Sul post-it rosa contro il PC. –

− Oh, perfetto. –

Infilo l'altra scarpa mentre guardo con la coda dell'occhio la figura imponente di quell'uomo così bello tirare fuori un cellulare di ultima generazione e mettere i numeri in fila.

Quando mi tiro su e metto le chiavi nella tasca posteriore del pigiama, l'unica cosa che penso è un po' triste, ma realistica.

Spero solo di non uscire da tutto questo con il cuore spezzato.


╰┈➤ ❝ continua

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