Capitolo 9.
Il garrire intenso delle rondini riempiva il cielo di striduli acuti, richiami dolci di animali sempre in movimento. Ali leggere, mezze lune perfette ricordavano cieli notturni di una luna crescente. Sbattevano silenziose nell'immensità dell'aria, imprimendo il loro manto scuro con i profumi della campagna. Si divertivano a rincorrersi, a giocare nelle correnti ascensionali senza mai stancarsi. Ogni tanto sparivano nella bassa vegetazione di campi non ancora arati, per nascondersi da occhi vispi di gente curiosa e subito dopo tornare in volo con la grazia di minuscoli aeroplani di carta. Altre, invece, si sbrigavano a catturare vermi, zanzare e altri tipi di insetti per sfamare i loro piccoli all'interno di nidi costruiti tra una trave e l'altra di tetti spioventi, interni di case abbandonate o addirittura capannoni pieni di fieno, usato per accogliere bestiame di agricoltori sempre con le mani nell'orto.
Respirare l'aria estiva, di un paese sperduto tra le colline, significava assaporare per un secondo la sensazione di libertà. Lo sapeva bene Christian quando si affrettava, tra le strade ghiaiose fuori le mura della città, per raggiungere Matilde prima che il sole iniziasse il suo lento declino dietro l'orizzonte fatto di montagne acuminate. Nuvole scherzose diventavano vestiti, abbellimenti di un tramonto vanitoso, colmo di sfumature aranciate e bluastre.
Il vento frizzante di un tardo pomeriggio scompigliava una nube folta di piume corvine, simile all'inchiostro liquido di uno scrittore naufrago in mezzo a un oceano cristallino. Ciocche aggraziate venivano spostate dai movimenti sinuosi di un'aria pesante, soporifera, rendendo il paesaggio circostante una distesa di fuoco e fiamme. Il caldo non voleva andarsene, anche se camminare sotto l'ombra di ciliegi, alberi di fichi e rampicanti di rara bellezza, davano al giovane una parvenza di dolce sollievo dai violenti raggi del sole.
I suoi passi erano veloci; la terra sotto di sé, arida e secca, alzava polvere rossiccia entrando nelle punte scollate delle scarpe. Guardò per alcuni istanti la libertà di rondini impavide, di un universo infinito dove poter immergere le iridi, del medesimo colore dell'imbrunire, tra strati di atmosfera rarefatta. Un leggero sorriso si disegnò sul suo volto, avrebbe donato la vita al diavolo per avere una millesima parte di un privilegio impossibile da realizzare. La capacità di andarsene ovunque, senza limitazioni e doveri morali. Era l'unico modo per salvare la sua anima e rendere pura la fragilità di Matilde.
I suoi pensieri cominciarono, però, a essere invadenti; lo riportarono con prepotenza a immergersi nelle parole maligne, criptiche, di Marie Sophie. Non comprendeva cosa si celasse dietro quella storia malata, riempita di menzogne popolari e antichi riti pagani. Doveva informarsi, forse avrebbe dedicato una giornata interamente a leggere libri in biblioteca, cercare con assidua costanza cosa si nascondesse dietro a tonnellate di polvere, anche negli angoli più reconditi di scaffali stracolmi di tomi e antologie.
"Un passo falso e perdi la partita." Non riusciva a dimenticare parole così intense rimaste impresse nel suo cervello, diventando quasi un'ossessione. Non doveva perdere, non se lo sarebbe mai perdonato. Qualsiasi cosa Marie Sophie avesse fatto la notte della sagra non doveva avverarsi: non c'era nulla di vero, niente gli avrebbe fatto cambiare idea. Lei era solo una vipera incantatrice, sua madre glielo diceva sempre di stare lontano da persone del genere, ma Christian si fidava troppo. Era ancora rimasto bambino, mentre si perdeva tra i boschi a giocare ad acchiapparella con l'unica persona alla quale avrebbe affidato la sua anima, la sua vera esistenza. Solo lei era capace di placare i suoi pensieri, le sue ansie più oscure, ma non si rendeva conto che più il tempo passava più iniziava a diventare un tormento.
Correva per provare a mantenere la calma, il fiato sempre più veloce, il cuore in continua palpitazione, sentiva lo sterno collidere con l'epidermide biancastra sotto il sottile strato della camicia di lino. Dentro la sua testa, milioni di sussurri cominciarono a riempirgli i timpani fino all'esasperazione. Ridevano, comandavano di svolgere atti impuri, si prendevano gioco della sua ingenuità, delle sue debolezze, ma allo stesso tempo un odore metallico di un liquido caldo e carmineo si impossessò delle sue narici fino a prevaricare all'interno della materia grigia. Il sangue sgorgava dalle sue mani, il viso tumefatto, fischi acuti di un'acufene persistente, il mondo si distorceva sotto ai suoi occhi. Campi rossi scarlatti, cielo grigio come la cenere di un vecchio rogo, qualcosa di sinistro lo stava divorando dall'interno.
Si fermò di colpo spaventato dall'improvviso attacco di panico, sprofondò i palmi delle mani tra riccioli ribelli, premevano forte contro le ossa craniche da sentirle scricchiolare, spaccarsi sotto lo strato sottile di pelle.
«Esci dalla mia testa, esci dalla mia maledetta testa!» urlò rauco a qualcuno di inconsistente, contorcendosi da un dolore sordo e pulsante. La sua schiena si incurvò in avanti, all'interno dei vestiti quasi trasparenti si potevano contare le curve morbide di una colonna vertebrale perfetta. Colline invalicabili, da sfiorare solo con un tocco leggero di morbidi polpastrelli. Aveva la sensazione di stare impazzendo, di perdere il completo controllo di se stesso. La paura prese il sopravvento; i rumori esterni erano ovattati e la sua esistenza stava cadendo verso un buco nero dove avrebbe intravisto solo oscurità, distruzione eterna.
Fin quando, qualcosa in sottofondo non lo ridestò dalla sua viscerale alienazione. Si immobilizzò per ascoltare mugugni melodici, canto sommesso di una triste voce danzare tra soffi leggeri di un'eco portatore di nuova curiosità. Gli occhi del ragazzo rimasero a guardare la ghiaia e la terra arida, costernata di minuscole formiche camminare in fila indiana per tornare al loro nido fatto di cunicoli, gallerie sotterranee prive di luce. Rimase ammaliato da sospiri armonici, canzone sussurrata per un evento speciale.
Il giovane dai lineamenti affilati riuscì con difficoltà a calmare il suo sgomento. Si ricompose come si fanno con gli oggetti caduti a terra, per poi essere risistemati con la colla e rimessi al loro posto per vivere qualche altro anno, prima di finire tra frammenti di memoria dimenticati. Issò la schiena e guardò davanti a sé l'imponente muratura rossastra, diventata ormai sua seconda dimora dove poter riposare le sue stanche membra simili a porcellana. Il cortile era pregno della sua infanzia, di risate giocose di bambini alle prese nell'arrampicarsi sul noce, nello stendersi tra le spighe del grano e osservare tutte le forme più strane delle nuvole, zucchero filato di un mondo fatato rimasto intrappolato in un'immaginazione effimera.
Era rimasto colpito dal fatto di non ricordare come ci fosse arrivato. Sapeva a memoria la strada e non si rese neanche conto di quali cunicoli avesse imboccato, qualsiasi cosa lui facesse lo riportava sempre da Matilde. Era lei il suo centro gravitazionale, magnetismo autonomo usato per trasgredire le leggi stesse della fisica.
Si mise a cercarla con lo sguardo tra una finestra e l'altra. Non ricevendo alcun segno della sua presenza, gridò il suo nome per farsi sentire oltre il vetro. Le parole vennero trasportate in mezzo alla brezza del tardo pomeriggio, gli uccelli di rimando pigolavano tra un ramo e l'altro del noce. Nessuno rispose, ma la cantilena sommessa si fece sempre più vicina. Spostò lo sguardo verso sinistra, dove Alberto teneva un piccolo pollaio insieme ad alcuni conigli. Venivano allevati per poi essere mangiati da bocche fameliche, rabbiose di carne fresca, fino a riempire stomaci di ferro e fegati malati di alcool.
Ammaliato da mormorii soavi, si incamminò verso la recinzione e tra fili di ferro, staccionate distrutte dall'edera, notò la giovane accarezzare piume morbide di un marroncino tendente al rame di una gallina accovacciata in un nido di paglia. La bestia era assuefatta dalla voce delicata, vibrante, all'interno delle corde vocali, mentre la solita espressione vuota, lontana, studiava con attenzione ogni movimento dell'animale. Poteva sembrare all'inizio una scena bizzarra, a tratti divertente, ma nulla era come appariva. Matilde non faceva mai azioni insensate, dietro ai suoi gesti si nascondeva sempre qualcosa di macabro, inaspettato.
«Matilde, che stai facendo?» domandò il ragazzo rimasto a guardare da dietro le quinte, spettatore curioso di una tragedia greca.
Smise di cantare non appena sentì la voce del suo amico entrargli nei timpani. Il silenzio riempì l'atmosfera di una tensione lasciva al male, di movimenti rituali che non avrebbe mai voluto assistere. Non gli rivolse un minimo sguardo, doveva portare a termine ciò che aveva iniziato, ma le parole gli scivolarono dalle labbra come saliva superflua, liquidi in eccesso da sputare fuori, prima di affogare nel suo stesso muco.
«Questa gallina è troppo vecchia, non riesce più a fare le uova» pronunciò fredda, lisciando il manto pieno di sfumature tendenti al bianco fino al rosso rame. Era molto legata a ogni animale da lei accudito. Fin da bambina, amava canticchiare nuove melodie a esseri indifesi pronti per il macello. Si occupava spesso di farli restare tranquilli prima di essere uccisi dalle mani grosse e callose del padre, di veder svanire il loro luccichio negli occhi piccoli e scuri. Era la loro allevatrice prima della dipartita, una giovane divertitasi a prendere i panni di una morte pigra, a tratti sadica. «Mio padre mi ha dato il compito di ucciderla,» continuò, cercando di mantenere il controllo di ogni emozione; annullarle nell'attimo stesso in cui si presentavano all'interno delle sue sclere, arrossando fiumi e affluenti di capillari intrecciati «di solito mi limito solo a donarle qualche istante di tranquillità, ma stamattina mi sono fatta scappare una volpe e per punizione mi ha incaricato questo fardello.» Prese con delicatezza la bestia sonnolenta tra le sue braccia, bloccandole le ali tra le scapole e la curvatura del braccio in modo da non divincolarsi una volta afferrata la testa. Stava espiando una pena che non le apparteneva, dopotutto era solo una scusa per non far scoprire l'esistenza di un essere umano interrotto dalle ingiustizie della vita. Il suo corpo penzolante, rimasto per alcuni secondi appeso a un ramo di una vecchia quercia, ancora le attanagliava i ricordi e smembrava sogni rendendoli un ammasso informe di figure distorte, corrotte. Soprattutto non riusciva a dimenticarsi delle sue perlacee lacrime, mischiate all'icore intenso dei suoi capelli arruffati, simili a fiamme di un incendio ingestibile, divampato in una foresta e decimato l'intera selvaggina.
«Se lo vedo, gli cavo gli occhi con le mie mani, non può farti fare una cosa del genere.» rispose rude Christian, cercando di nascondere la rabbia ribollire nelle vene «Dammela, lo faccio io» concluse, aprendo il recinto per intrufolarsi all'interno del pollaio. Le distanze tra lui e la figura minuta davanti a sé diminuirono, epidermidi frementi si animarono al solo contatto di mani affusolate poggiarsi con morbidezza sulle braccia in tensione di Matilde; tocco leggero di silenti carezze.
«Mi dispiace, ma questo devo farlo io o l'animale si spaventerà e la carne diventerà dura» proferì secca, incamminandosi verso il garage, senza accennare un colpo d'occhio per salutare la presenza all'interno del suo giardino trascurato. Aveva ripetuto le stesse parole del padre prima di mandarla a spintoni nel pollaio, per assicurarsi di farle portare a termine il suo crudele compito. Le urlò di non tornare dentro casa, finché non avrebbe sentito il rumore sordo delle gracili ossa del collo della gallina frantumarsi tra le sue mani sottili.
L'erba alta solleticava le caviglie scoperte dei giovani, passi ovattati intenti a non commettere movimenti bruschi e a non innervosire l'animale. Le fronde degli alberi attorno ai loro corpi li rinchiudevano in un mondo fatto di solitudine, resti scheletrici di innocenza estinta. Stavano per diventare complici di terrificanti atti, solo per il sadico gusto di far soffrire esseri viventi indifesi e riempire l'ego di un uomo borioso, senza più un cuore.
«Insisto, voglio farlo io. Non permetterò a...» si intromise Christian, fermando la camminata veloce e l'oceano di pensieri all'interno del cervello di Matilde. Non riuscì a completare la frase perché lo sguardo severo della ragazza gli paralizzò i muscoli della lingua.
«Vattene via, non ho bisogno della balia» si innervosì, aprendo l'enorme serranda verde con il solo tocco dell'interruttore attaccato con una cordicella, penzolante a un chiodo di ferro arrugginito, infilzato nel muro di cemento alle loro spalle. Era un aggeggio rudimentale, ma allo stesso tempo funzionante. L'anta si aprì meccanica sprigionando un rumore assordante, cupo e continuo. Con la gallina ancora sottobraccio, le gambe tremanti della giovane si intrufolarono all'interno di un monolocale fatiscente. Ragnatele nascoste colme di insetti morti, bozzoli ancora non schiusi, arnesi da macello, da giardinaggio, pezzi di ricambio di vecchie auto e grosse ruote di scorta per il trattore di Alberto che usava per andare ad arare i campi vicini. Oltre a lavorare in un allevamento intensivo, nelle stagioni di raccolta si dava da fare anche nell'aiutare amici contadini, racimolando un po' di denaro in più per non rimanere a fine mese col poco stipendio rimastogli. Così, spendeva la restante parte in boccali di birra e partite a carte al bar del borgo.
Christian rimase piccato dalla frase scocciata della sua amica, non avrebbe mai pensato a una tale reazione. Non perdeva mai la pazienza, soprattutto era la prima volta in cui rifiutava la sua presenza. Restò immobile a guardale la schiena rigida, coperta da una leggera stoffa di un vestito color carta da zucchero. Gli ricordò le giornate primaverili durante il tempo della scuola, lo portava spesso quando le mattinate erano soleggiate, piene di calura e il freddo cominciava il suo letargo per lasciare spazio allo sbocciare dei fiori di ciliegio.
La osservò aprire il lavandino e calibrare la maniglia verso l'acqua bollente. L'animale, accoccolatosi per interi minuti immobile tra le sue braccia, iniziò a muovere la testa a destra e a sinistra con nervosismo, come se stesse iniziando a comprendere il suo terribile destino. Matilde sentì scalpiccii delle zampe penzolanti e artigliate solleticarle la carne.
«Se questo è un crimine, come mai non sento dolore?» sussurrò la ragazza abbassando il capo verso la gallina, prendendole con la mano libera il collo pieno di piume rossicce.
Un solo secondo, simile all'attimo prima di catturare una pedina sulla scacchiera, un ultimo chiocciare disperato, presa salda sulla testa per poi tirare e soffocare con tutte le forze. Un rumore sordo si propagò in tutta la rimessa: ossa spezzate, rotte, rimasero tra le mani della giovane, alcune facevano capolino tra le piume stropicciate della trachea. Una lacrima le solcò la guancia, ma il suo viso rimase impassibile davanti alla morte, un addio strozzato di un'innocenza distrutta. Il suo palmo si colorò di un rosso carminico e alcune gocce di sangue imbrattarono il terreno e il suo abito pulito. Lo aveva fatto, ci era riuscita e finalmente si sarebbe risparmiata un'altra sfuriata di suo padre. Non avrebbe ricevuto più violenza dalle sue mani mollicce, sudate, di un vecchio ubriaco.
Lo scrocco di cartilagini e ossa cave rimase impresso nei timpani di Christian, pietrificato a osservare per tutto il tempo una scena macabra. Era sconvolto dalla freddezza di Matilde, dalla sua forza aggraziata nell'uccidere un animale. Sembrava lo avesse fatto da sempre, staccava colli e dissanguava corpi con un solo tocco di dita.
«Mat, vieni via, ci penso io ora» cercò di avvicinarsi, dopo attimi di puro terrore. Aveva davanti a sé una bomba pronta a esplodere, doveva fare le giuste mosse o si sarebbe fatto del male in mezzo a frammenti di cocci rotti e appuntiti. Prese una grossa bacinella in ferro, la riempì con l'acqua fumante per pulire la carcassa e togliere con facilità tutte le piume, scoprendo la rugosa pelle rosea.
Dei passi pesanti, però, si intrufolarono all'interno delle quattro mura spesse e una risata soddisfatta si impresse nell'epidermide dei giovani sotto forma di brividi violenti, rizzando i peli degli avambracci.
«Finalmente mia figlia è riuscita a combinare qualcosa» proferì con la sua voce gutturale mischiata a un sadismo ironico. Si avvicinò minaccioso verso le due piccole figure davanti al suo grasso corpo, osservò i resti dell'animale all'interno del grande lavatoio in cemento, piume sparse ovunque e zampe rivolte verso l'alto, rattrappite. «Sparite dalla mia vista, finisco io il lavoro» aggiunse per poi prendere delle pinze e strappare, incidere il corpo morto di resti indistinti. Ricordava vagamente il ritratto di una bestia vissuta per anni nel loro pollaio, donando pulcini e uova non fecondate.
«Per quale motivo le avete fatto svolgere una cosa del genere?» domandò infuriato Christian per cercare una spiegazione logica a una mente ignorante, prepotente.
Alberto si girò verso il ragazzo e puntò, come un cane da caccia, i suoi occhi piccoli contro quelli oceanici, enormi zaffiri luminosi, dell'altro «Prova a indovinare? La vita non ti regala niente, tutto quello che mangi e ingerisci nel tuo piccolo stomaco di merda non piove dal cielo.» Gli puntò un dito dritto al ventre, premeva così forte da sentirlo muoversi tra le interiora: «Qualcuno dietro le quinte ha avuto il sangue freddo di ammazzare un animale, per saziare un tuo capriccio. È il ciclo dell'esistenza, la sua morte è la mia sopravvivenza in questo schifo di mondo. Ricorda, nulla ti è dovuto e mia figlia deve capirlo. Uccidere è un'arte, ragazzo mio» soppesò ogni parola, facendo smorfie di sdegno, irritato dalla sfrontatezza di una voce ancora acerba e di sguardi pieni di sfida, di odio profondo, ramificatosi all'interno delle vene fino a colorargli di nero il sangue.
Le nocche di Christian si fecero sempre più bianche, le sopracciglia si aggrottarono in una linea folta e scura, fin quasi a creare un angolo acuto. Le guance scavate si affilarono a ogni movimento dei tendini della mascella, corde di violino accordate alla perfezione. Non dimostrava nulla il suo vuoto discorso, erano frasi buttate al vento, come poteva essere un'arte rovinare l'ingenuità di un essere umano. Avrebbe voluto saltargli addosso, prendere il primo coltello da cucina e aprirlo come un maiale. Vedere le budella fuoriuscire dal suo ventre gonfio, imbrattare di sangue centimetri di intonaco e di carne marcia era il suo sogno più grande, perversione malata di una mente deviata. Sfoggiare il suo trofeo agli occhi di Matilde, era l'inizio di un'eccitazione violenta e malsana. Ne era sicuro, prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui il suo desiderio si sarebbe avverato e avrebbe portato in salvo anche un'anima tormentata, potendo così vivere per sempre insieme, senza più vincoli, espiando ogni loro peccato.
«Christian,» lo richiamò all'attenzione. La voce delicata della giovane, rimasta a guardare la scena, lo salvò dai suoi pensieri distorti. Non voleva creare altri problemi, la situazione si stava riscaldando troppo e doveva trovare subito un rimedio. «Andiamo via, lasciamo mio padre al suo lavoro» lo guardò con finta premura per la prima volta, dopo minuti interi passati a non degnarlo neanche di un accenno di sorriso.
La voce della sua amica lo riportò a una calma apparente, il suo cuore rallentava i battiti a ogni respiro profondo e non appena gli prese la mano per trascinarlo via, si fece cullare dallo spostamento d'aria del suo corpo curvilineo.
«Non dimenticarti di portare la gallina alla Signora Ferrini domani mattina, le serve per il brodo» aggiunse alla fine con tono di presunzione e continuò a stappare il gozzo dalla carcassa.
Non rispose, si limitò a restare in silenzio e portare il più lontano possibile Christian da quel posto. C'era solo un luogo dove calmare il suo nervosismo, si trovava proprio sotto la chioma del grande noce del suo giardino. Le radici ruvide e nodose fuoriuscivano dal terreno secco, come se volessero anche loro scappare dalla calura dei raggi solari.
Poco lontano, dei panni stesi al sole, su una serie di fili di plastica dura, danzavano al ritmo del leggero vento estivo. Le lenzuola bianche sembravano onde piene di schiuma marina schiantatasi sul bagnasciuga, da ammorbidire la sabbia con le loro umide carezze. Entrare lì in mezzo, dava loro la possibilità di immaginarsi in un altro universo: esistevano soltanto loro. Passare intere ore a parlare e a condividere sguardi, silenzi pieni di significato, erano i loro passatempi preferiti, fino agli albori della loro profonda amicizia. Si ritrovavano spesso a rincorrersi tra le pesanti coperte e cotoni umidi, lavati a mano dalle braccia muscolose della madre. Le piaceva osservare i suoi movimenti, mentre appendeva magliette, pantaloni e intimo su sottili filamenti resistenti. Ogni tanto l'aiutava a passarle le mollette per lasciar penzolare le stoffe gocciolanti. Certi momenti, però, rimarranno per sempre nella sua mente, perché non potrà mai più guardarla, avere un suo abbraccio caloroso. Era sotto a metri di terra e di lei le era rimasto impresso solo il suo corpo in mezzo alla strada. Toccava a Matilde svolgere le mansioni più faticose, ripetitive, di mattinate troppo brevi e notti le quali non volevano mai andarsene, come se il cielo si fosse dipinto del nero dei suoi capelli. I suoi occhi pieni d'ambra, sigillata all'interno di un tronco marcio, si muovevano frenetici sotto le palpebre ogni sera, lasciandole demoni tormentatori a ucciderle sinapsi e divorare materia grigia.
Quando si incontravano, tra le pieghe profumate di sapone, ammorbidente naturale ripreso dal grasso di maiale e carbone, i loro pensieri più cupi svanivano in un solo sospiro. Christian lo aveva soprannominato limbo, non aveva tutti i torti. Dopotutto, era un luogo in cui nessuno avrebbe mai messo piede ed era stato creato dalla fantasia di bambini pieni di tristezza, ingiustizie pregresse di azioni violente. Intrappolava sogni e desideri infranti, racconti tristi fatti di lacrime, urla strozzate di anime in cerca del loro posto nell'intricato labirinto dell'esistenza. Avevano un passato turbolento, ma si erano abituati a situazioni ben peggiori, dove senza l'aiuto l'uno dell'altra si sarebbero distrutti a vicenda.
Si immersero nei respiri delle lenzuola e sopra di loro il cielo iniziava a diventare sempre più scuro, prendendo sfumature aranciate e bluastre da imprimere i loro colori anche sulla pelle lattea dei ragazzi, come tele mai esplorate di pennellate decise di un pittore impressionista.
«Guardami,» proferì decisa Matilde non appena si misero in ginocchio sul prato morbido del cortile, mentre una brezza leggera animava le loro ciocche corvine, nascondendo parti dei loro visi, simili a veli di atmosfere notturne. I loro corpi, di tanto in tanto, venivano solleticati dalle lunghe lenzuola umide, naufraghi all'interno di un mare in tempesta. Prese con entrambi i palmi, ancora sporchi di sangue, le guance scarne di Christian e notò un luccichio diverso dal solito. Le sue iridi, simili a iceberg alla deriva, si dimenavano a destra e a sinistra per osservare ogni minimo movimento di labbra socchiuse in procinto di parlare.
«Giuro su Dio, che se ti maltratta ancora una volta, lo ammazzo con le mie mani» si intromise il giovane, beandosi del tocco di dita umide sulle gote mischiate col sapore dolce, ferroso, di icore animale da inebriargli le narici. Strizzò le palpebre per togliere le lacrime rimaste impigliate tra le ciglia lunghe e scure, fino a bagnare incavi di linee sottili impressi sulla carne di Matilde. La sua voce era un misto di rabbia repressa e singhiozzi strozzati, come se fosse in procinto di esplodere in un urlo chiassoso. Voleva soltanto non sentire più nulla, invidiava spesso la sua amica perché riusciva a incanalare in un buco nero tutte le sue emozioni, rimanendo impassibile anche davanti a uno scoiattolo investito.
«Tu non fai proprio un bel niente, mi hai capito?» rispose alla provocazione, sibilando parole dure a pochi centimetri dal suo naso. Senza occhiali, le pupille di Matilde erano grandi quanto un foro di proiettile, penetravano violente dentro al petto, spezzavano costole, strappavano polmoni dando la possibilità di smettere di respirare all'istante «Non ti ha insegnato niente giocare quasi tutti i pomeriggi a scacchi? Cosa si fa prima di attaccare le pedine avversarie?» Il suo respiro era pesante, sintomo che il suo cuore pompava velocemente per portare più ossigeno al cervello. Si dimenava di fronte alla bellezza di lacrime opache, nascoste dall'oscurità della sera.
Dopo secondi di silenzio, rimasto a immaginarsi una scacchiera mentale, rispose: «Bisogna sviluppare tutti i pezzi, portarli al centro, arroccare, entrare nel mediogioco».
«Esatto, ma non puoi mettere pedine senza un senso nelle case centrali. C'è bisogno della tattica. Tutte hanno un loro preciso scopo, non appena hai creato la tua strategia, messo in difesa i pezzi pesanti e in attacco quelli leggeri, miri alla regina. Infine al re per lo scacco matto, il più debole di tutta la scacchiera. Se parti subito ad attaccare perderai sicuramente, perché chi ti sta di fronte capirà subito cosa hai in mente e ti ostacolerà in qualsiasi modo» si fermò per un istante, percependo sulla sua epidermide il debole alito caldo uscire dalle labbra di Christian, mentre la scrutava con occhi da cerbiatto spaesato «Bisogna nascondere le proprie intenzioni prima di agire, poi si passa all'azione sorprendendo l'avversario costretto così ad abbandonare la partita. Nel nostro caso, dire addio a questo mondo di merda».
«Allora, sbrighiamoci a sviluppare questa benedetta partita, perché mi è venuta voglia di mangiarmi qualche pedina avversaria» proferì infine mordace il ragazzo, prima di scostarsi leggermente da Matilde per prendere una sigaretta dalla tasca e accenderla con foga. Il luccichio rossiccio della cenere incandescente e della cartina trasparente si impressero nel riflesso di cornee liquide. Un brivido caldo percorse la spina dorsale della giovane; ricordò, come in uno scatto fotografico, la pelle martoriata di Samaele: cerchi perfetti simili a milioni di sistemi solari. Un sorriso distorto si disegnò tra le guance candide, oscurate dal blu cobalto del cielo crepuscolare. La figura davanti a sé era diventata quasi un'ombra, se non fosse stato per il bagliore della fiammella rimasta accesa tra meccanismi ferrosi di un vecchio accendino, delineando i contorni spigolosi di entrambi, avrebbe potuto confondersi con la natura circostante.
Senza indugio, rubò la sigaretta dalle labbra dell'amico e fece un lungo, profondo tiro. Il fumo denso e biancastro si diramò fuori dalla sua bocca e sul collo di Christian, come a voler lasciare il suo marchio, per poi dissolversi oltre la coltre di capelli arruffati.
«Non appena qualcuno farà la mossa sbagliata, saremo i primi a prenderci la vittoria che ci spetta» una risata gutturale si spalancò all'esterno, facendo tremare ogni osso di corpi spezzati. Fu come una ventata di aria fresca, il terrore di sentirla riecheggiare era svanito in un soffio di Ponente. Gli sembrava normale, ormai non ci faceva nemmeno più caso: era diventata parte di lui.
Si accorse, tra una folata di vento e le carezze gentili di lenzuola plasmatrici del limbo, di aver perso la paura dei sogghigni inopportuni di Matilde. Socchiuse le palpebre, estasiandosi del suo ammaliante sorriso criptico, fino a rendergli fremente, incandescente, il sangue nelle grosse arterie del bassoventre.
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