Capitolo 8.
I rintocchi chiassosi delle campane scandivano l'ora precisa di metà giornata, per concedere al pomeriggio di fare il suo ingresso con le ore più calde e asfissianti di un'estate che non voleva smettere di esibire la sua ammaliante bellezza. I raggi solari picchiavano i tetti in cotto delle case costruite con mattoni in tufo, unite le une alle altre, tra le strette vie ripiene di sampietrini e minuscoli steli di erbacce, nati nelle fughe profonde di pietre antiche. Finestre e balconi erano stati lasciati aperti per far entrare un po' d'aria in modo da ammorbidire la calura all'interno delle stanze. Anziani affacciati a ringhiere in ferro battuto, con le braccia appoggiate su di esse a osservare il paesaggio sotto di loro, mentre parlavano con i vicini urlandosi parole di conforto, dialetti amichevoli di amici e pettegolezzi di cortile.
Il sole illuminava volti pieni di rughe, di tempi passati a lavorare la terra e a portare il pane in tavola. Era abitudine affaticarsi nei campi, se non si aveva un lavoro di famiglia già avviato da anni. Si sopravviveva solo con le proprie forze, determinazione di vivere un'esistenza fatta di poche cose, ma indispensabili agli occhi di uomini che non avevano mai ricevuto nulla dalla vita. Dio, però, li avrebbe presi tra le sue grazie, loro si fidavano di Lui, anche se non gli era mai importato aiutarli nei momenti più difficili. Alcuni dovettero cedere le proprie anime alla guerra per non lasciare la famiglia in una strada a mendicare, con i pochi stracci rimasti, mangiando carcasse di topi, interiora di gatti randagi.
Fortunatamente quegli anni se ne erano andati, come quando si osservava le lancette dei secondi di un orologio, mentre facevano scoccare un'altra ora, un altro istante da poter riempire con frammenti di finta felicità. Sembravano tutti più sereni, intrappolati nella loro ingenuità povera; menti alle quali erano stati insegnati valori sbagliati, antichi per certi versi.
Anche chi era rimasto in strada a camminare serafico, con le canottiere piene di macchie d'olio, cappelli di paglia in testa per non far scottare i loro capi privi di capelli, si divertiva a gesticolare e discorrere con persone della loro stessa età per documentarsi di motori, di caccia, mischiati ai sussurri delle donne che non vedevano l'ora di condividersi notizie del nuovo ragazzo della parrucchiera. Ritornavano a passo lento, con i vestiti migliori, nelle loro dimore dopo aver assistito all'ennesima messa della settimana, sermoni pesanti da far addormentare anche i più intrepidi, come se le loro azioni, fuori da mura sacre, non avessero la benché minima importanza.
«Signore, scusatemi sono di fretta» disse una voce giovane, dietro le loro spalle. Correva spedito, con uno zaino pieno di pane e brioches, un forsennato nel suo pieno violento furore. Gambe magre, nude solo da metà polpaccio fino alla caviglia, corpo affusolato, asciutto, coperto da una camicia bianca di qualche taglia in più, mentre un basco sempre pieno di farina gli nascondeva i capelli corvini e alcune ciocche si divertivano a danzare con i sospiri del vento.
Christian le investì, facendole sussultare spaventate dalla sua violenta entrata di scena. Lo guardarono in cagnesco, mentre lasciava dietro di sé una scia d'aria, mischiata al profumo di farina e molliche di pane «Signorino! Sono queste le maniere? Chi ti ha cresciuto in questo modo?» urlò con voce gracchiante una donna, mentre si sistemava la lunga gonna dalla stoffa leggera.
«Sono desolato, ma sono in ritardo!» gridò di risposta, continuando a correre dando loro le spalle e alzando un braccio in segno di perdono. La borsa a tracolla sbatteva in continuazione con superfici sempre diverse, jeans di uomini a lavoro nelle officine, vestaglie di signore alle prese con la loro passeggiata mattiniera e cestini di biciclette da ingombrare lo spazio stretto delle stradine di paese.
Doveva finire le commissioni entro mezzogiorno ed era in ritardo con la lista. Si era dimenticato delle faccende da sbrigare in panetteria e sua madre gli aveva fatto la predica per non essere tornato a casa in tempo. Rimanere con Matilde tutta la notte era stato un azzardo, con lei vicino sembrava di dover rincorrere il tempo. Avrebbe voluto dimenticare tutti i suoi doveri, essere libero di passare istanti felici con la sua amica di sempre. Guardarla dormire gli ricordò lineamenti dolci di zigomi pronunciati, ciglia folte da nascondere occhi grandi di un cerbiatto indifeso, labbra morbide scarlatte erano state accarezzate da petali di rosa e la pelle aveva lo stesso colore di pesche mature. La sua mente era stata riempita di attimi indelebili di pura dolcezza e sofferenza, mentre provava a proteggerla da un padre maligno. I suoi pensieri erano sempre rivolti a Matilde, sentiva il bisogno di sapere cosa stesse facendo in quel momento: assicurarsi se fosse andata a caccia con Alberto. Gli dava la nausea non poter cambiare la situazione, ma la sera trascorsa si erano fatti una promessa e l'avrebbe mantenuta anche a costo di doversi sporcare le mani di sangue. Era al limite dell'eccesso, ma per la sua felicità avrebbe accettato anche un destino oscuro.
Si sentiva diverso, aveva assistito a scene di pura violenza, qualcosa dentro il suo cuore si era fatto spazio tra un ventricolo e l'altro. Vibrava alla stessa velocità dei suoi battiti, ma non sapeva che un buco nero stava divorando anche la più piccola particella di muscolo, tanto da far avvelenare il sangue nelle arterie.
Cercò di scacciare i propri pensieri, nello stesso istante in cui la sua frenetica corsa si fermò in una via senza uscita, sbarrata dalle mura perimetrali della cittadella. Alla sua sinistra, una porta in legno chiaro si allungava imperiosa alla sua vista. Occhi trasparenti e glaciali la scrutavano per imprimersi ogni particolare; era una casa come tutte le altre, ma dentro ospitava colei che avrebbe sconvolto la sua intera esistenza.
I suoi polmoni premevano forte sulle costole, dopo la lunga e interminabile maratona per arrivare a destinazione. Controllò il suo orologio da polso e le lancette segnarono un ritardo di ben quindici minuti, si maledisse mentalmente per non aver preso la bicicletta, ma come al solito l'aveva lasciata vicino al garage di Matilde, sotto l'albero di noci. Sua madre non lo avrebbe perdonato facilmente, avrebbe dovuto sgobbare per altre settimane prima di ritrovare l'amata libertà. Teresa odiava i ritardi, per lei erano solo una perdita di tempo e di denaro.
Si diede un contegno e spolverò con le mani i pantaloni marroni prima di suonare al campanello della sua amica, Marie Sophie. Aspettò qualche istante e la porta si aprì cigolando, mentre dietro di essa si presentò una figura minuta nascosta da un vestito bianco, da far illuminare il biondo dei suoi capelli e il verde smeraldino delle sue iridi.
«Ciao!» lo salutò, sussultando dall'inaspettata presenza e un piccolo sorriso si increspò sulle sue labbra secche, contornate da piccole pellicine «Sei venuto a portare il pane, vero?» aggiunse, con un sottile accento francese della Normandia.
«Sì, mi dispiace per il ritardo» si scusò il ragazzo. Abbassò il capo mortificato, togliendosi la sacca dalle spalle e il berretto «Tua madre è in casa? Devo porle le mie scuse» la sua voce sembrava quella di un cane bastonato, facendo divertire la giovane fino a sfociare in una risata leggera, acuta.
«Non ce n'è bisogno, ce n'est pas grave, mia madre è fuori per delle faccende.» si apprestò ad aprire la porta e scostarsi in un angolo «Vieni, entra. Così ti faccio appoggiare la borsa e ti lascio la mancia.»
Le sue pupille si dilatarono di poco, sorprese dalla strana richiesta della sua amica, dopotutto non si conoscevano da molti anni. Veniva a trascorrere i tre mesi estivi insieme ai suoi genitori in quel posto sperduto tra le colline piene di campi di grano, non segnato nelle cartine geografiche. Non appena la stagione cominciava a far apparire le prime foglie gialle, insieme alle fredde piogge umide, di un'acqua tale da far gelare il sangue nelle vene, Marie Sophie scompariva insieme all'estate. Se ne tornava a Caen senza neanche salutare, come una foglia di un albero nell'esatto momento in cui si staccava dal ramo scheletrico. Un addio silenzioso, lasciato in sospeso tra i sussurri della natura, nell'ululato del vento e nei voli frenetici di storni sotto scrosci di lacrime, bagnandosi il nero piumaggio puntellato da macchie biancastre simili a efelidi umane.
Entrò di seguito all'aver tentennato nell'idea di andarsene subito, ma alla fine decise di prendere una piccola pausa dopo aver percorso il paese con le gambe magre a fargli da timone. Si guardò intorno fin quando la ragazza richiuse la porta alle sue spalle con un tonfo sordo, pesante. L'ambiente era stato ridipinto da poco con un intonaco bianco, si sentiva ancora il profumo della pittura nel pulviscolo entrato di soppiatto nelle narici di Christian. La cucina piccola e austera era tempestata di credenze e armadietti verde chiaro, lasciando spazio ai fornelli adagiati su un ripiano in marmo. Le finestrelle davano all'esterno di un chiosco celato agli occhi della gente. Un luogo isolato dove nessuno, oltre ai residenti, faceva mai visita a parte quache cicala passeggera e farfalle curiose, attratte dal profumo della camomilla tardiva; neve estiva da imbiancare prati nascosti anche dai raggi solari.
Marie si appoggiò con le mani al lavandino e portò lo sguardo verso il suo corriere personale del pane domenicale. La divertiva la sua timidezza, nei suoi occhi c'era ingenuità, ma allo stesso tempo nelle sfumature delle iridi, ghiacciate da un gelo polare, si intravedevano bagliori di qualcosa di più profondo. Lei era capace di leggere ogni minimo movimento; era un dono innato, non riusciva a contenere la sua voglia di scavare nel passato della gente e leggere spostamenti impercettibili di un'anima che si contorceva all'interno di involucri fatti di carne.
«Allora? Come ti è sembrato lo spettacolo di ieri notte?» gli domandò, accennando a un sorriso compiaciuto. Lo aveva notato nella folla, ancorato fermamente alla ragazza dallo sguardo impossibile da decifrare. Anche lei aveva avuto difficoltà, ma quando intinse il suo verde scuro nel miele liquido di due sclere vitree, dei brividi lungo la sua schiena si impossessarono di tutti i nervi, da lasciarla senza fiato.
«È stato interessante» cercò di chiudere in fretta il discorso, non voleva parlare di quella sera. Si sentiva vulnerabile di fronte a scene ancora vivide nel suo cervello, rimasto scosso da una marea di emozioni contrastanti.
«Solo interessante?» alzò un sopracciglio chiaro, dubbiosa della sua risposta troppo vaga «Eva si merita di più di una semplice risposta irrispettosa» le sue gambe scoperte, carezzate solo da una leggera gonna trasparente di un vestito estivo, si mossero verso la credenza in alto per prendere un barattolo dove sua madre nascondeva alcuni spiccioli per le necessità.
«Chi sarebbe questa Eva?» chiese ingenuamente Christian, mentre le sue mani per uno strano motivo cominciarono a sudare freddo.
«Colei che io e le mie amiche abbiamo lodato per tutto il tempo, danzando intorno al fuoco» rispose con la semplicità di chi sapeva il fatto suo, una risata acuta riecheggiò nella stanza, mettendosi a volteggiare su se stessa un paio di volte. Si era lasciata sfuggire un segreto importante, solo pochi eletti sapevano la verità. Lo aveva fatto di proposito, per istigarlo, per vedere se dopo ore rimasta in biblioteca a impararsi antichi rituali e studiare leggende, dove streghe di ogni categoria si apprestavano a lodare Lucifero come loro adepte, sarebbe stata capace di portare a termine la sua missione.
«Forse intendi dire Lilith» la corresse il ragazzo, con le sue poche conoscenze in quel campo ancora poco esplorato. Non ricordava di aver visto libri di stregoneria, magia nera, tra scaffali pieni di polvere e volumi con vecchie copertine ingiallite dal tempo, dimenticati come se fossero reliquie di passati mai svelati alla luce del giorno.
«Sul serio? Un ragazzo come te dovrebbe sapere delle nozioni così basilari» alzò gli occhi al cielo, annoiata dalla sua poca attenzione nei dettagli. Chistian si sentiva d'un tratto intrappolato in una bolla di vetro, non riusciva a muovere un muscolo: pietrificato nella cucina di una ragazza con una mente deviata verso oscurità ancora sconosciute al mondo esterno.
«C-cioè?» balbettò, mentre la sua gola urlava di essere percorsa da acque cristalline, per fermare l'incendio dentro la sua trachea e combatterlo con tutte le sue forze.
Marie Sophie si avvicinò al corpo snello e immobile del giovane. Provò una scossa di piacere, nel vederlo confuso in una situazione a lui ignota; era un invito allettante a voler aumentare il suo sadismo e renderlo schiavo delle sue parole deliranti «Eva e Lilith sono sempre state la stessa persona» sussurrò, mentre un ghigno divertito prese posto nelle increspature delle sue labbra «La Chiesa non sopportava l'idea che Dio avesse creato qualcosa di oscuro, di immondo,» spiegò «così ricorsero a due identità distinte, ma la verità è che Eva non aveva mai amato Adamo. Lucifero si era infiltrato nell'Eden e si innamorò perdutamente di lei, come si può dimenticare del suo primo amore? Un angelo ribelle che prova sentimenti» il viso della ragazza era a pochi centimetri dai lineamenti spigolosi di una pelle chiara, come in una notte di luna piena, occhi così intensi da sentire i brividi di freddo passeggiare sull'epidermide anche nelle giornate più afose «Dio si accorse del loro amore malato e la condannò a vivere con Adamo. Era stata privata di tutto, anche dei sentimenti, e si sarebbe vendicata per l'eternità.» aggiunse poco dopo, appoggiando una sottile mano sul petto di Christian, proprio sopra al cuore palpitante. Lo sentiva scalciare come un feto nei primi mesi di vita, le costole si incrinavano a ogni battito. La pelle vibrava sotto l'incontrollato movimento di sangue nelle arterie, poteva quasi entrargli dentro e afferrare quel muscolo isterico con le sole dita nude, assaporando cruore carminio scivolargli lungo le braccia, intingendo la propria lingua in un nettare invitante. Se i suoi pensieri avessero potuto parlare, si sarebbero propagati sussurri maligni, odi oscure di demoni deliranti, unendosi e avvinghiandosi a vicenda come in un Sabba.
«Ma che stai dicendo? Sono solo storielle inventate» si intromise irritato, scostando la mano scheletrica della ragazza per indietreggiare di qualche passo. Si sentiva senza più aria, doveva andarsene al più presto o le mura della casa lo avrebbero soffocato fino a strozzarlo.
«Credimi, le streghe ne sapevano sempre una in più del diavolo» strizzò un occhio, mentre i suoi capelli lisci come la seta si divertivano a dondolare da una parte all'altra della sua schiena nell'istante in cui si dirigeva a prendere la tanto attesa paga della mattinata.
Gli appoggiò le Lire sul bancone vicino ai fornelli e attese si avvicinasse per continuare un argomento che le vibrava nella testa da un po' di tempo.
«A proposito, quella tua amica sembra una molto noiosa» disse con tono grave per sottolineare la sua frustrazione nei confronti di una figura femminile troppo schiva «Come si chiamava?» fece una pausa, facendo finta di pensare «Matilde, giusto? Sempre la solita faccia, forse i suoi genitori non le vogliono così tanto bene» proferì innocente, una vipera pronta ad attaccare col suo mortale veleno.
Preso da un'attacco d'ira nel sentire tali volgarità nei confronti di Matilde, il sangue gli ribollì nelle vene. Si avvicinò minaccioso a Marie Sophie «Non ti azzardare a dire una sola parola su di lei o te la vedrai con me» ringhiò come un cane rabbioso, le sue sopracciglia folte si arricciarono, ogni minima ruga sulla sua fronte era accentuata da solchi profondi. La paura si era dissolta improvvisamente, lasciando alla frustrazione e all'odio fare il loro trionfante ingresso nei muscoli contratti della mascella e denti stretti pronti a mordere anime dannate.
«Al solo parlare di lei ti attizzi come un fuoco ardente» parlò con voce melliflua e per constatare le sue menzogne si accostò alla presenza del ragazzo, si alzò sulle punte e sussurrò parole provocatorie all'orecchio di Christian, facendo animare piccole ciocche corvine «Vediamo se ti è diventato duro» aggiunse leccandogli il lobo con la punta della lingua e portando una mano sul cavallo dei pantaloni del ragazzo. Premette così forte da far uscire dalle labbra piene del giovane un gemito istintivo, mentre se la rideva come un'isterica, facendo aderire il proprio seno sul petto magro e scheletrico del povero malcapitato.
«Smettila!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, spingendola via come quando ci si doveva togliere di un insetto rimasto impigliato nei vestiti.
«Dai,» mugolò, «ci stavamo divertendo» si morse l'indice inglobandolo nelle labbra come una bambina giocosa.
Si sentiva colpito nell'animo, sporco di pensieri indecenti «Ho promesso di proteggerla e manterrò la mia parola» concluse con l'astio che sgorgava dalla sua bocca.
Nel sentire quella frase, i suoi occhi si illuminarono di felicità. Finalmente era riuscita a portare a termine un rito vetusto, a riemergere le antiche origini «C'est magnifique! Chi se lo aspettava, chissà se siamo già passati alla seconda fase» applaudì, battendo le mani più volte una contro l'altra.
A un tratto, come se il sole avesse smesso di illuminare la Terra, lo guardò con la serietà stampata nel volto, sopracciglia perfettamente arcate, iridi di un verde primaverile, rimasto intrappolato in un corpo macchiato dal maligno «Sei sotto scacco, mio caro Christian. Un passo falso e perdi la partita»
«Vai all'inferno!» urlò funesto, le lacrime a fior di ciglia gli risaltavano l'azzurro intenso dei suoi occhi. Se ne andò a passi svelti verso la porta, lasciandosi alle spalle un serpente a sonagli con ancora il veleno rimasto a colargli sui canini affilati come sciabole.
«Mon petit, all'inferno ci viviamo già, nessuno escluso» rispose con una tranquillità inumana, da lasciarlo immobile sul ciglio della soglia, mentre la sua voce ilare riecheggiava nei timpani del giovane, ancora scosso da discorsi deliranti di una mente perversa.
L'adrenalina si impossessò delle sue gambe, ricominciò a correre, riversandosi in strada per allontanarsi il più in fretta possibile da quella casa e da chi ci abitava. Doveva restare da solo, far smettere di parlare i suoi incubi, di dare retta a stupide credenze senza fondamenta: parole rimaste intrappolate nel folclore di gente ignorante.
Sentiva ancora la sua risata nella testa, le era entrata dentro come un verme affamato di carne in putrefazione. Si guardò attorno, inciampò di tanto in tanto a causa delle punte delle scarpe scontrarsi con qualche pietra più sopraelevata delle altre, ma le occhiatacce della gente sembravano aghi affilati, entrati nella carne fino a farlo sanguinare. I loro volti pieni di sconcerto, pupille come buchi neri lo schiacciavano all'interno del tempo, pressato fino a dilatarsi in un infinito fatto di vuoto. Fori di canne di fucili puntati sulla sua testa, pronti a sparare proiettili da perforargli il cranio e ridurgli il cervello in milioni di frammenti accartocciati senza più una forma, riversi a terra in una pozza di liquido vermiglio.
Girò il primo angolo per non essere preda di sguardi indagatori, di sorrisi beffardi ricolmi di battute ironiche. Gli sussurravano quanto fosse ingenuo, nessuno lo avrebbe amato, sarebbe vissuto in una bolla fatta di menzogne, rabbia repressa e una voglia di uccidere per dar sfogo alle sue malate emozioni. Le sinapsi rimbombavano nella materia grigia, volevano uscire fuori ed essere libere, dopo anni di completo schiavismo.
Si nascose nelle ombre delle case, nei vicoli più stretti in modo da potersi perdere tra gli scoli dell'acqua piovana e il silenzio di mura decadenti. Finalmente, dopo lunghi interminabili minuti si accasciò a terra, portandosi le ginocchia al petto. Le dita intrecciate tra i suoi capelli di un nero lucente, si persero nell'oscurità più profonda. Lacrime trasparenti, simili alla rugiada mattiniera di un freddo inverno, si riversarono impetuose sul suo volto scarno, mischiandosi col muco colato fuori dalle sue narici. Le labbra spalancate formavano un urlo strozzato, ma dalla sua bocca uscirono solo sospiri pesanti, mugolii di polmoni sfiniti da una corsa frenetica. Della saliva si era fatta spazio sotto la lingua pronta per colare fuori e togliere ogni impurità. Deglutì a fatica, cianuro tossico fatto di frustrazione e rimorsi. Il sudore gli imperlava i lati delle tempie, appiccicandogli alcune ciocche corvine sulla pelle e il caldo dell'afa di primo pomeriggio non lo aiutò a trovare uno spiraglio di freschezza.
Poco dopo, si ricordò di aver sistemato un pacchetto di sigarette all'interno della sacca in pelle. Si precipitò a cercarlo, unica salvezza dai suoi pensieri maligni e da parole velenose di streghe mai esistite.
Non riusciva a comprendere il suo stato d'animo, si era sentito violato, privato di ogni certezza, come se tutto il suo castello di vetro fosse stato sbriciolato in milioni di pezzi da un solo tocco di dita. Aveva la stessa sensazione quando Matilde, con voce fiera, all'ultima mossa dichiarava scacco matto. Non voleva arrendersi, ma senza la sua presenza si sentiva perso, vulnerabile come un feto non ancora formato.
Appena ebbe una sigaretta tra le dita, una calma apparente cominciò a quietare i suoi demoni scalpitanti all'interno dei suoi organi marci, involucri di bile e acidi da renderlo cibo fresco per larve albine, alle quali era stato proibito di vedere la luce del sole.
Prese l'accendino in un'altra tasca interna e si fece cullare dalla fiammella vibrante, scoccata come una freccia al solo tocco di falangi tremanti. Le sue labbra accolsero il fumo grigiastro e si riempirono di nicotina, tabacco mischiato a catrame inebriandogli il corpo di brividi freddi. Circolò in ogni cellula del sangue, nelle pareti sotterranee della sua carne martoriata, fino a fermare galoppi insistenti di un muscolo cardiaco impazzito. Alzò il volto verso l'alto, aspirando avidamente come se il rumore della cenere, del crepitio della cartina bianca potessero calmare i suoi nervi tesi, simili alle corde del violoncello di Alberto. Inspirò con avidità e una nube biancastra riempì l'aria circostante di una densa nebbia, svanendo l'istante dopo nel vento pesante di un fine agosto cocente.
Il suo volto si rilassò, la mente si svuotò di colpo e il silenzio finalmente fece il suo ingresso all'interno dei suoi timpani tormentati da voci mefistofeliche.
Ripensò alla conversazione avuta con Marie Sophie, ai suoi movimenti aggraziati, ma allo stesso tempo viscidi come una sanguisuga, bramosa di attaccarsi con i suoi denti affilati alle gambe piene di vene e nutrirsi dell'icore più nutriente, eccitante, l'unica ambizione nella propria miserabile vita.
Dentro di sé stava avvenendo un uragano, un insieme di emozioni contrastanti da non riuscire più a classificarle. Le parole deliranti della ragazza non avevano senso, troppo criptiche, oscure, senza fondamenta logiche. Perché gli aveva raccontato una storiella così macabra, macchiando la castità della Chiesa in un modo troppo semplice e meschino. Sua madre gli leggeva sempre la Bibbia quando era più piccolo, si immergeva nelle storie di persone le quali avevano donato la loro vita a un essere ultraterreno, onnipotente, intraprendendo viaggi, subito piaghe e maledizioni solo per rendere fede a Dio. Chi era costui per essere chiamato tale?
I suoi occhi ammalianti lo avevano reso inerme, voleva scappare, ma il verde intenso delle iridi lo richiamavano come un stormo di anatre deviate da richiami di cacciatori, appostati dietro a cespugli floridi, aspettando il momento giusto per sparare e portare a casa il bottino. Si era fatto abbindolare facilmente, dopotutto Marie amava prendersi gioco della mente delle persone. Aveva sempre avuto l'abitudine di mentire, di far credere anche al più scettico fiabe per bambini. Qualche anno fa gli aveva raccontato di star per morire a causa di una scheggia di vetro entratagli nel palmo della mano. Ricordò che andò da Matilde piangendo come un bambino, le aveva gridato di non avere più tempo a disposizione, di essere spacciato e non voleva passare a miglior vita senza averle detto addio. La ragazza dallo sguardo impassibile lo aveva osservato con i suoi occhi grandi e melliflui, cercando di trattenere una sottospecie di sorriso.
Non aveva detto nulla, aveva afferrato i palmi delle mani dell'amico e con una piccola pinzetta arrabattata in un cassetto del bagno, era riuscita a togliere il minuscolo pezzo trasparente, affilato ai lati, da dentro la carne pallida di Christian.
«Ecco, ora non morirai più» aveva proferito, mettendogli un piccolo cerotto rosa sulla ferita per non farla sanguinare. L'osservava con insistenza, sentiva le lacrime pizzicargli il volto; l'aveva salvato senza criticarlo per essere stato ingenuo, per aver bevuto parole mendace di una ragazzina francese perfida. Si erano stretti forte, fino a intingere i corpi nel calore dell'altro: una dolce coperta in cui potersi riscaldare nelle notti più buie. Il viso si era perso nel profumo dei suoi capelli corvini, spostandole la stanghetta dorata, lucida, degli occhiali rimasta in bilico tra la punta dell'orecchio e il baratro del vuoto.
Si prendeva cura di lui senza mai avere nulla in cambio, le era sempre stata vicino e sentire insulti verso di lei dentro una bocca piena di veleno gli fece ribollire il sangue nei capillari esposti, da intravedersi sotto l'epidermide simili a fulmini carminici.
Una rabbia incontrollata si stava facendo strada tra il midollo spinale e la colonna vertebrale, sentiva ogni anello vibrare sotto la furia della marea. Doveva smetterla di essere vulnerabile, si sarebbero sempre presi gioco di lui se non avesse provveduto a rimediare. Nessuno doveva intralciargli la sua miserabile esistenza, mettendogli i bastoni tra le ruote. Ormai era finito il tempo dell'essere spensierati, non era più un bambino vissuto in una bolla fatta di farfalle e meraviglie. La realtà era diversa, spietata con i più fragili. Si divertiva a veder soffrire milioni di persone fino a farle delirare, portarle alla pazzia più assoluta e commettere peccati di ogni tipo. La vita era un gran maestro di scacchi e se avesse perso quella partita, sarebbe diventato peggio di qualsiasi altro demone dell'inferno. Non sarebbe mai diventato un pezzo in presa, avrebbe sacrificato i suoi respiri per la felicità altrui. Doveva mantenere la sua promessa a qualunque costo, lei era sua e nessuno doveva rovinare la purezza di Matilde; illibata dell'oscurità in cui il mingherlino stava lentamente precipitando.
La sigaretta iniziò a dimezzarsi dopo solo qualche tiro e maledisse mentalmente la sua bramosia di volersela finire in poco tempo. La lasciò penzolare sulle sue labbra, appoggiando il capo al muro pietroso dietro le sue spalle. La poca ombra rimasta gli carezzò le guance diventate di un colore più acceso, aranciato: un tramonto rimasto intrappolato tra le sue gote.
Si osservò attorno e notò, poco più avanti del suo polso, una piccola lucertola rimasta immobile tutto il tempo a godersi il sole cocente, rendersi caldo il sangue per non morire di ipotermia. Aveva un debole per le creature striscianti, simili a draghi in miniatura, gli ricordavano evoluzioni di ere geologiche. Molto spesso, si divertiva a prenderle con la nuda mano e portarsele a casa come trofeo. Teresa ogni tanto si domandava se fosse veramente umano o una sottospecie di gatto malformato.
Era agile e scaltro, non se ne faceva scappare neanche una. Con la velocità di una freccia, scoccata dal miglior arciere in circolazione, l'afferrò senza esitazione. La povera bestia si dimenò per sfuggire alla pressione dei polpastrelli di Christian, ma era del tutto immobilizzata. La sua lunga coda si attorcigliò fino a spezzarsi di netto, cadendo miseramente a terra ancora piena di spasmi inarrestabili. La bocca senza denti era spalancata per lo spavento e i minuscoli occhi neri, puntati dritti contro il ghiaccio nordico delle iridi di un ragazzo sadico, avevano l'aspetto di biglie rare. Le zampette sottili, con microscopiche unghie affilate in cima, erano rivolte verso l'alto come a voler inscenare una morte apparente.
Il giovane se la rigirò tra le mani per studiare il colore verdognolo della pelle squamosa, ruvida e leggermente viscida; aveva sempre avuto curiosità di comprendere la sua struttura. Era immobile, inerme, la membrana oculare si alzava e si abbassava scattosa per far inumidire le pupille, bruciate dal fumo molesto della sigaretta. Quanto potevano essere innocenti certi animali non appena venivano afferrati da mani umane? Tutta la loro potenza veniva distrutta da qualcuno più grande di loro, sgretolando una realtà fatta solo di semplici regole: vivere, procreare, morire.
Con la mano libera prese il mozzicone ancora incandescente tra le falangi dell'indice e del medio, i suoi occhi guizzavano da una parte all'altra, mentre la mente partoriva gesti abominevoli contro una creatura indifesa. Non poteva lasciarla libera, se la vita non gli avrebbe dato ciò che desiderava, allora si sarebbe portato via ogni bellezza, ogni meraviglioso dolore di un mondo troppo nefasto.
«Vada come vada, il tempo e le ore trascorrono lo stesso anche lungo il più ruvido dei giorni» proferì, citando una scena del Macbeth, mentre senza più alcun accenno espressivo, muscoli della mascella contratti, portò la cenere della sigaretta a contatto con la pelle dell'animale. Un urlo acuto, isterico, uscì fuori dalle affilate arcate di minuscole fauci deliranti, mentre veniva bruciata viva dall'incandescenza del tabacco, dal fuoco infernale incastrato nel suo petto pallido, riempitosi di sfrigolii e cenere umida. Si divertì a torturarla, profanandole il ventre fino a far uscire liquidi, budella violacee e sangue raggrumato dal calore cocente del mozzicone.
La sua mano si imbrattò di viscere liquefatte, acidi gastrici esplosi fuori da organi interni, riversatisi a terra dopo essere stati accolti da un calore disumano. Dopotutto amavano restare sotto il sole cocente, eppure la loro fonte principale di vita si era rivoltata contro di loro, senza pietà, come Giuda nel momento in cui baciò la guancia di Cristo, pur sapendo di averlo venduto ai Romani per soli pochi denari.
La lingua biforcuta della lucertola penzolava da un lato, senza vita, gli occhi che un attimo prima erano vispi e lucenti, onice cristallina sotto raggi luminosi, in quel momento apparirono solo due pozze nere di petrolio puro.
Le pupille di Christian si persero nell'oscurità più totale, da renderlo cieco di cosa stesse realmente facendo. Diventò molle tra le sue mani, i piccoli muscoli erano diventati acquosi, privi di un'esistenza troppo effimera. Un sorriso soddisfatto si disegnò agli angoli delle labbra morbide e ingiallite dal fumo. Lo rilassò talmente tanto, da placare il sangue rimasto intrappolato nel suo bassoventre tra grosse e gonfie vene pulsanti sotto sottili strati pelle, dopo essere stato istigato da mani d'aracnide.
Doveva tornare a casa, si immaginava già sua madre a urlargli di essere tornato tardi di nuovo. Altri straordinari da fare e sempre meno tempo per spenderlo in solitudine, rintanato in biblioteca a cercare qualcosa di nuovo. Soprattutto doveva assolutamente tornare da Matilde per sapere se stesse bene, dopo la violenta reazione del padre non si fidava a lasciarla da sola, tra le mani di un Alberto fuori di sé.
Lanciò a terra la carcassa della lucertola, con il pezzo di sigaretta rimasto ancora impiantato nel suo sterno, un suono ovattato e umido colpì il terreno, come del pesce lasciato cadere su un bancone di mercato. Raccogliendo le poche forze rimaste, si rialzò in piedi combattendo con la gravità. Pulì le mani sui pantaloni e se ne andò, a passo lento, cadenzato, senza degnare di uno sguardo all'anima dimenticata rimasta a bocca aperta, con lo sguardo urlante, verso un cielo terso pieno di rondini; cibo facile per uccelli e insetti.
I suoi passi riecheggiavano tra le mura di case attaccate le une alle altre, finestre aperte a far sentire il rumore delle pentole, profumi di sughi e soffritti, mentre in mezzo ai sampietrini vagava un folle con ancora la mano macchiata di sangue.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top