Capitolo 7.

Due spari di fucile si levarono nell'aria: rumori sordi da frantumare i timpani, portando con sé morte e desolazione. Uno stormo di corvi si librò nel cielo, rimasti nascosti tra i rami delle querce ad attendere il loro pasto. Scapparono di corsa, spaventati dal destino imminente; dovevano andarsene o avrebbero fatto la stessa fine di un povero animale, preda di un cacciatore crudele.
Matilde riconobbe il suono dei proiettili del padre, sentiva l'odore acre di carne in necrosi farsi strada tra le foglie degli alberi, fino a entrare nelle sue narici e sedurre sinapsi in continuo movimento. Era più vicino di quanto pensasse. Se l'avesse trovata a osservare un essere umano, spezzato dalla sua stessa tristezza, non l'avrebbe passata liscia. Alberto l'aveva obbligata a non avvicinarsi, a non incontrare nessuno dei loro vicini, gente infelice macchiatasi di un orribile peccato ancora a lei occultato. La coscienza, però, non ebbe il coraggio di abbandonarlo privo di sensi, dimenticarlo come aveva fatto con i suoi stessi sentimenti. Si maledisse per avergli sferrato il calcio del fucile dritto in testa, ma non voleva più ascoltare le sue parole deliranti.

Nel silenzio più assoluto, la giovane dai capelli color della notte ritrovò la perduta pace. Non percepiva più i suoi demoni sibilarle parole pressanti, opprimenti, da ridurre il cuore in cenere. La voce del ragazzo sussurrava ancora nella sua scatola cranica: soave e leggermente acuta come un merlo canterino rimasto nell'ombra tra le fronde degli alberi. Grida disperate di una vita al limite in procinto di concedersi all'oblio. Erano consapevoli entrambi della sua supremazia perché ogni essere umano era destinato ad arrendersi al suo cospetto. Voleva sacrificare la sua anima all'oscurità pur di non sentire i rimorsi, le ingiustizie di un'esistenza vendicativa. Godeva nell'osservare menti fragili perdere il controllo della propria psiche. Matilde non riusciva a concepire come un'immagine così delicata, trovasse il coraggio di mettere fine ai suoi respiri, ai suoi battiti sgangherati, solo per atterrare sotto metri di fango e dormire per sempre.

Si inginocchiò accanto alla coltre di ricci rossi, abbandonati sul terreno umido, mischiandosi col verde smeraldino dell'erba incolta, piena di sterpaglie e minuscoli fiori di campo. Lo studiò attentamente, aveva le sembianze di un cacciatore dopo aver ucciso un magnifico esemplare di volpe maschio. Molti avrebbero gioito per la cattura proficua, ci avrebbero ricavato un bel gruzzolo di soldi con la sua pelliccia morbida e scarlatta; le donne avrebbero fatto la fila per ottenere uno scialle su misura con un manto pregiato. Matilde non amava massacrare animali indifesi, erano gli unici esseri viventi a nascere e morire senza peccato. Restavano nella loro ingenuità, nella loro solitudine procacciandosi il cibo da soli e salvaguardando la loro specie. L'uomo era soltanto l'errore di fabbrica di un Dio maldestro, forse un sabotaggio del sistema di una macchina difettosa. Si era dilagato fino a non poter più rimediare, portando guerre e distruzione a ogni respiro.

Si avvicinò con calma al suo profilo nascosto da ciocche ribelli, fiamme di un incendio boschivo: un piromane si era divertito ad appiccarle per affliggere sofferenze ed eccitarsi alla vista del forte calore pervadergli dall'interno. I loro nasi erano vicini da sfiorarsi appena, cercavano uno il respiro dell'altro, aliti leggeri e inconsistenti da mischiarsi col vento. Voleva accertarsi di non averlo colpito troppo forte. Gli scostò con delicatezza delle ciocche cremisi dalla fronte, notando un rivolo di sangue uscirgli da una ferita aperta vicino alla tempia. Toccò con le dita il liquido denso, da sembrare succo di melograno maturo, appiccicoso dal sapore ferroso e aspro. Era ammaliata dalle sue sfumature, non aveva mai visto nulla del genere. Era diverso rispetto a quando lo osservava dalla finestra di nascosto. Si domandò perché mai Alberto avesse voluto allontanarla da tale incanto; abituata ai soliti colori scuri e freddi di Christian, per lei era impensabile prendere le somiglianze di un raggio di sole caduto sulla Terra, abbandonato dal resto dell'universo.

Intorno alla pelle lacerata si potevano notare minuscole diramazioni di capillari rotti, rami spezzati da una forte folata di vento. Prese il fazzoletto dalla tasca interna dello smanicato e gli pulì l'icore raffermo, colato fin sullo zigomo; voleva rimediare per averlo punito in un modo troppo brutale. Il suo sguardo era tornato inespressivo, le lacrime si erano asciugate e non mostrava più i segni di cedimento.
Non appena Samaele chiuse gli occhi, si sentì sollevata, appagata, nel non essere osservata da iridi cangianti e torturata da parole ammalianti simili a un serpente a sonagli. Non comprendeva la sua vulnerabilità davanti a un'anima del genere.
Impresse nelle sue sclere sabbiose tutti i particolari, avrebbe voluto contare ogni efelide, ogni macchia, da rappresentare un quadro di Van Gogh. Gli accarezzò una guancia per sentire sotto le sue impronte digitali la morbidezza di una carne chiara simile al latte. Le ricordò i giorni passati nella fattoria della nonna di Christian a mungere vacche e stillare succo prezioso per vitellini affamati. Si divertivano a nascondersi tra il pelo duro e maculato di animali docili, curiosi, da tenerli in compagnia nei pomeriggi di sole pur sapendo di tornare a casa con i vestiti sporchi di terra e sterco.

Le sue nostalgie, però, vennero interrotte nel momento in cui la sua mano si posò sul moncherino del cappio ancora avvolto al collo esile del ragazzo. Delle chiazze violacee lo percorrevano circolarmente da formare una catena di ferro arrugginito, rimasta incastrata tra l'epidermide e i muscoli.
Allentò il nodo in modo da farlo scorrere sotto la testa e toglierlo più facilmente. La corda si intrecciò con i capelli a tal punto da doversi aiutare con le dita per districare lampi, fulmini, impigliati tra fibre secche e onde di un mare intriso di sangue.
La prese con sé, per abbellire la sua stanza come un cimelio antico, conficcato sotto radici piene di terra, muschio e vermi. Se la nascose nella borsa, nelle pieghe di stoffa dura e tasche colme di oggetti dimenticati da gente imprudente. Aveva la mania di cercare strane forme innaturali accantonate da passeggiatori distratti, cacciatori in fuga, così da poter collezionare ciò che all'essere umano non serviva più. L'indifeso, ancora privo di sensi, aveva la stessa sostanza di piccole realtà silenziose, messe da parte per non essere più utilizzate. Infatti, molti oggetti erano rovinati, distrutti dal tempo, ma a Matilde più erano raggrinziti più le piacevano: mancanze interrotte di memorie cancellate.

I suoi occhi puntarono le braccia scoperte distese lungo il corpo. Si perdevano tra i filamenti fragili di erba estiva, cullate da carezze ondulatorie di punte affilate, solleticandogli l'epidermide piena di ematomi. Le falangi sottili si erano mischiate col terreno e alcune unghie mangiucchiate uscivano come coccinelle curiose. La camicia di lino si muoveva leggera con i ritmi del vento caldo e del respiro rallentato di polmoni sofferenti. Gli alzò con cautela un lembo in modo da portare allo scoperto il ventre magro del giovane. Era un insieme di chiazze purpuree di nei imperfetti e bruciature di sigaretta, cerchi sublimi di crateri e stelle morenti.
Si impressionò per la crudeltà intrisa in una tela di un pittore senza pietà, nuvole accartocciate piene di colori e sfumature grottesche. Lenì col dito medio tutte le increspature di dolori affogati in pianti silenti, mentre la mano intera rimaneva a mezz'aria a non voler intaccare un marmo pieno di venature, spaventata nel poterlo spezzare con una leggera pressione. Un brivido le percorse la schiena, le labbra si schiusero leggermente, ammaliate da una bellezza inumana. Un odore dolciastro le inondò le narici, proveniva dalla sua pelle vermiglia, un sapore simile alla resina. Aveva l'impressione che da un momento all'altro si sarebbe trasformato in un tronco di una quercia rossa centenaria, mentre le sue fronde avrebbero mostrato i loro colori scarlatti al mondo intero, in mezzo a un bosco pieno di pini e sterpaglie.

Risvegliato da leggeri brividi freddi provenire dal petto, Samaele cominciò a riprendere conoscenza. Dei mugolii e dei gemiti smorzarono il silenzio circostante, un forte mal di testa martellava le sue sinapsi da distruggerle come cocci di vecchi piatti. Un'espressione dolorante si increspò sul suo viso, arricciò il naso e le sopracciglia folte fin quasi a toccarsi. La vista annebbiata dalla luce accecante dei raggi solari, non gli permise del tutto di mettere a fuoco la persona inginocchiata davanti a lui intenta a curiosare sotto la sua camicia.
Non appena se ne accorse, l'adrenalina si impossessò dei suoi arti e scattò a sedere, allontanandosi dalla ragazza, sorpresa dal suo improvviso risveglio.

«Che diavolo stavi facendo?» le domandò terrorizzato dallo strano comportamento di un viso vitreo, senza alcun tentennamento o preoccupazione disegnata negli angoli delle palpebre. Si sistemò la stoffa per nasconderle il corpo scheletrico, il cuore fece milioni di capriole mentre provava a incanalare con agonia l'aria nella gola ancora in fiamme.
Matilde non rispose alla domanda, osservò i suoi movimenti e vide le sue dita massaggiarsi il collo sofferente. Doveva avere da qualche parte una borraccia nella borsa e infatti, dopo qualche istante di ricerca la trovò schiacciata dal peso di proiettili e cartucce. Allungò il braccio verso di lui per offrirgli la piccola boccetta di vetro piena d'acqua. Si guardarono per lunghi istanti, come per trovare una telepatia innata in mezzo a pupille in continua agitazione.

«Tieni, è acqua» parlò piano e con garbo. L'azione improvvisa fece indietreggiare ancora di più il ragazzo, strisciò sull'erba fino a toccare con la schiena il tronco dell'albero al quale ancora pendeva l'estremità della fune.
«Non la voglio da te» protestò, ma non appena rispose, le corde vocali urlarono di essere reidratate, riprendere vita dopo un fallito tentato suicidio. Tossì isterico voltandosi verso sinistra per vomitare saliva e rimpianti. Un rivolo denso di bava penzolava al lato delle sue labbra umide. Sputò a terra lasciando assorbire al prato i suoi tormenti e il tempo si prendeva la briga di far scorrere veleno all'interno delle radici.
Matilde strinse i pugni per l'ottusità del mingherlino, si avvicinò strusciando le ginocchia sul morbido letto verdastro e appoggiò con forza la borraccia sul petto di Samaele.

«Bevi» gli ordinò, con tono irritato per trattenere il nervosismo, scaturito dall'ignoranza di una mente piccola.
Alla fine decise di obbedire, aveva bisogno di incanalare liquido fresco nella sua trachea; il suo corpo la richiedeva come una droga da non poter farne a meno. Lasciò che scorresse nel suo esofago, da rigenerargli il palato, la bocca e la gola gemente. Il pomo d'Adamo si inarcò più volte facendo scendere dolci e limpide acque di una fonte non molto lontana dal centro del paese. Se la gustò come un neonato affamato attaccato al seno materno, la ingoiò a lunghi sorsi, avido, lasciando colare rivoli trasparenti lungo il mento fino ad arrivare a infiltrarsi nelle increspature giallastre del collo, disegnando fiumiciattoli rosei tra la peluria e le lentiggini.
«Con calma o ti verrà una congestione» ironizzò poco dopo Matilde, divertita nel guardarlo inzupparsi la camicia. Dopo un'estenuante bevuta, sentì i polmoni del ragazzo riprendere energia, lunghi respiri di sollievo uscirono da rigonfiamenti carnosi, gemiti ansanti mischiati al sudore estivo.

La bottiglia si svuotò di colpo, la osservò per qualche secondo mentre gocce di rugiada scorrevano all'interno del contenitore trasparente, illuminate dal sole. I grilli e le cicale erano tornate a frinire energiche, i loro timpani si riempirono dei rumori della natura. Quel luogo li proteggeva dall'inesorabilità del tempo, dai dolori di un'esistenza maligna in cui entrambi cercavano di fuggire, ignari di cosa li aspettasse se avessero imparato a conoscersi, a scoprirsi, come quando si scartavano i regali il giorno di Natale.
Imbarazzato nell'essersi approfittato di ingerire succo fresco, di un fiume nascosto nelle profondità della terra, abbassò il capo sentendosi in colpa per non aver fermato il proprio egoismo.

«Te la regalo se vuoi, tanto ne ho altre a casa. Non sentirti in debito, oggi è servita di più a te» proferì la ragazza, comprendendo i suoi pensieri e i suoi gesti timidi. Era un libro aperto, la pelle di Samaele parlava, il suo sguardo da cerbiatto smarrito aveva la capacità di attirare come una calamita col ferro: magnete incandescente da ammaliare anche l'anima.
«Grazie» sussurrarono, quasi impercettibili, due labbra umide scarlatte come pomodori maturi e sporcate da leggeri puntini scuri. Per la prima volta qualcuno voleva donargli un oggetto di sua spontanea volontà, non comprendeva il motivo delle sue azioni, soprattutto perché gli avesse urlato parole tanto forti da scuotergli il cervello. Ribellati gli sussurrò prima di colpirlo alla tempia, si era fermata dentro il suo sistema nervoso e non riusciva più a togliersela dalla testa. Un loop continuo di un vinile usurato, dove la puntina aveva graffiato la superficie liscia di un disco, laccata alla perfezione, per essere stato ascoltato più di un centinaio di volte.

Una fitta al cranio fece fischiare le orecchie al giovane, si portò le dita tra i capelli e delle protuberanze, insieme a una ferita aperta, si dissiparono sotto i suoi polpastrelli. Si preoccupò vedendo grumi di sangue raffermi sui polpastrelli e cercò delle spiegazioni nello sguardo impassibile di Matilde.
«Scusa per la botta in testa, ma stavi delirando e non sapevo come farti smettere.»
«Perché non mi hai lasciato morire?» gli chiese di getto, mentre le sue iridi caleidoscopiche si muovevano a destra e a sinistra per osservare ogni piccolo particolare di un viso affilato, pelle perlacea e capelli da far invidia a una notte senza stelle.
«Qual è il tuo nome?» rispose cambiando argomento, voleva racimolare tempo per rispondergli adeguatamente. Non amava parlare, argomentare i suoi pensieri, era abituata a restare in silenzio, ad ascoltare altre voci senza mai dare sfogo alle sue corde vocali.

Rimase interdetto dalla sua domanda, voleva controbattere, ma le ultime forze rimaste erano scemate dopo essersi scolato una tanichetta intera di acqua. Le sue palpebre erano pesanti e in quel momento voleva solo dormire.
«Samaele» non appena la sua bocca si mosse, la ragazza sussultò come colpita da una freccia dietro la schiena. Le pupille si dilatarono, fremiti impercettibili scorrevano sotto l'epidermide da far alzare, come reazione difensiva, la trasparente peluria sugli avambracci.
Matilde non sapeva il motivo della sua inaspettata reazione, come se un vento caldo si fosse abbattuto su di lei prima di essere avvolta dall'incendio di un inferno invisibile. Aveva avuto la rivelazione di chi si celasse dietro coltri vermiglie, viste sempre dalla sua finestra, con l'aiuto di un binocolo da caccia, nei giorni di pioggia. Samaele si nascondeva tra le urla del vento, tra i lampi dei fulmini e i boati dei tuoni per occultare la tempesta dentro le sue interiora. Faceva parte di un complesso meccanismo astrale, al quale la giovane non ne comprendeva la logica. Se con Christian riusciva a trovare un appoggio, una sicurezza tale da riempirci ogni vuoto, con la figura esile davanti a sé era come vagare carponi nell'ignoto più oscuro. Camminava in un mondo diverso, fatto di speranze infrante e un passato colmo di dolore, di rimorsi da avvelenargli il cuore.

«Perché mai un ragazzo con un nome così nobile, deve togliersi la vita in questo modo così meschino?» lo stuzzicò, mentre increspature sottili si formarono tra i confini delle labbra e la soglia delle guance.
«Non lo è per niente, è solo una condanna che mi porto dietro da quando sono nato» il cuore di Samaele perse un battito, come poteva dire tali idiozie? Forse lo stava solo prendendo in giro, dopotutto doveva aspettarselo.
«Affatto, la condanna è il dover vivere in un mondo troppo cruento. Guardati attorno,» spalancò le braccia verso l'esterno per alcuni istanti, mentre i suoi occhi si perdevano tra la vegetazione, per poi tornare a sprofondare nello sguardo attento del rosso «ogni animale qui è nato per un motivo specifico, noi invece ci siamo evoluti per distruggerlo e rovinarci a vicenda. Siamo intrusi e vogliamo avere il controllo. Abbandoniamo a loro stessi i più fragili, i più deboli, la legge del più forte come direbbe un certo Darwin.» si allietava, inclinando di poco la testa, divertita dal viso interessato di Samaele. Le ricordava un bambino attento alla lettura di una fiaba, raccontata dal padre prima di andare a dormire «Abbiamo il vizio di annientare col nostro egoismo, con la nostra rabbia incontrollata, anime che potrebbero essere pericolose per la società. Per questo le si porta alla pazzia, anche la vita è spietata con loro. Si diverte a guardarle perire, fino a farle diventare inutili, dimenticate. Le si può trovare ovunque, ma molte si perdono e vorrebbero morire proprio come hai cercato di fare tu» le ultime parole erano spietate, Samaele si sentì colpito in pieno petto: un proiettile di un fucile piantato proprio al centro del cuore. Non riusciva a sostenere lo sguardo per quanto si sentisse in colpa, ma suo fratello gli aveva annebbiato il cervello. Odiava sopportare le sue urla, le sue percosse e il suo divertimento perverso. Al solo ricordo, le sclere piene di capillari si arrossarono, accentuando il verde intenso della rotondità delle iridi. Piccoli bagliori vivaci correvano da una parte all'altra della cornea, cercavano di reprimere un pianto che nessuno avrebbe potuto fermare.

«Sarebbe meglio per tutti» sibilò, provando a nascondere un singhiozzo strozzato per i gemiti di dolore provocati da ricordi incontrollati. Due perle liquide si erano fermate sotto alla caruncola lacrimale.
«È qui che ti sbagli.» si avvicinò pericolosamente a Samaele, le sue parole rudi le aveva sputate velenosa. Non sopportava la rassegnazione, covava dentro di sé sentimenti avversi da quando Alberto l'aveva picchiata la sera precedente. Era rimasta inerme per troppo tempo e il suo stato mentale ne risentì gli effetti collaterali, come quando non si era ancora abituati al rinculo di una potente pistola, da uccidere all'istante chiunque le si trovasse a tiro «La soluzione» continuò «è diventare il loro peggior incubo, farsi valere di fronte all'ignoranza dilagante di gente che si sente superiore. Questo è lo scopo principale, far capire all'altro che le nostre vite valgono molto di più. Se desideri la morte sei solo un vigliacco.»

I loro volti erano a pochi centimetri di distanza, Matilde era ammaliata dalle calde e trasparenti lacrime di Samaele. L'espressione scioccata, colma di un desiderio nascosto, e occhi lucidi spalancati, perduti tra le pieghe delle labbra screpolate della ragazza, erano il risultato della sua voce calda, violenta, come una scossa di terremoto.
Rimase in silenzio ad ascoltare il cuore palpitante colpire con violenza la corteccia dell'albero alle sue spalle; una grancassa risvegliata dall'assenza di musica. Qualcuno era entrato nel suo teatro ad ascoltare una sinfonia di un compositore sordo. Samaele era confuso, spaesato dalla vicinanza di una strana presenza rimasta lì, seduta su un comune prato di un un bosco a fargli la predica delle sue azioni malsane. Si era accorta di lui, lo aveva notato dopo essere rimasto nell'ombra per anni. Nei movimenti aggraziati di dita sottili non percepiva alcuna violenza, nessun secondo fine.

Dopo attimi di pura attesa, gocce simili alla pioggia si riversarono sulle guance scarne del giovane, bagnando superfici di sentieri fatti d'acqua salata e inumidendo il terreno durante un forte temporale. Si mischiavano con le efelidi, a tal punto da assorbire lo stesso colore marroncino tendente al rame delle macchie. Schizzi di un pittore cieco dove nel suo cielo bianco aveva dipinto nere stelle fatte di china.
Alla vista di uno spettacolo della natura, Matilde non riuscì a trattenersi nell'accarezzargli le lacrime. Era ossessionata da esse, una parafilia rara alla quale nessuno riusciva a dare una spiegazione. Le sue dita affusolate premettero sulla pelle infuocata della figura davanti a sé, il loro primo contatto fu inglobato in un soffio di vento, in un silenzio infinito dove neanche l'universo stesso riusciva a captare la loro esistenza. Samaele sussultò alla pressione leggera delle unghie poco curate di Matilde vicino al suo zigomo dove ristagnavano laghi inesplorati.

«Non ho mai visto delle lacrime così belle» sussurrarono carni piene di vene con l'arco di cupido pronunciato. Il suo tocco leggero lo inebriò di una tranquillità inattesa, una protezione simile a un abbraccio materno. Quella frase delirante, lo riscaldò dall'inverno perenne in cui era rimasto: intrappolato all'interno di una casa in cui né Michele, né suo padre avevano saputo rendere accogliente in cui potersi rifugiare nei momenti più oscuri della propria vita.
Caldi respiri si intrecciavano l'uno all'altro da far muovere capelli sottili dalle sfumature nere e rosse, sospesi nell'aria, a ribellarsi dalla gravità in cui erano imprigionati. Una danza macabra di un fuoco rimasto acceso in una notte priva di sonno.
«Posso sapere chi sei?» le domandò, mentre chiudeva le palpebre per godersi il contatto leggero di mani femminili sul suo viso martoriato.

Non fece in tempo a rispondergli, grida di un uomo isterico si propagarono nell'aria; Alberto la stava richiamando e se l'avesse scoperta insieme a Samaele l'avrebbe fatta fuori all'istante. Aveva disobbedito ai suoi ordini, nell'esatto istante in cui si erano parlati, scrutati come due animali selvatici. La paura iniziò a diffondersi nelle loro vene, paralizzando muscoli e ossa; sguardi sofferenti si posarono su sopracciglia folte e chiare, su occhi vitrei, simili all'ambra solidificatasi dopo millenni rimasta nascosta nella corteccia di un albero, mentre iridi di un verde intenso macchiato da filamenti dorati affogavano nel luccichio notturno della sua ombra.
«Matilde!» urlò il padre non molto lontano dal posto in cui si erano nascosti per un tempo infinito, catapultati in uno spazio temporale senza inizio né fine.

«Devi andartene, torna a casa e fai in fretta» gli parlò con un leggero terrore, da riuscire a trapelarlo nella velocità del suono entrato dentro i timpani di Samaele. Prese i suoi occhiali dalla tasca e appoggiò il ponte sulla piccola protuberanza del naso aquilino.
«Matilde!» gracchiarono le corde vocali dell'uomo sempre più vicino.
«Perché? Che sta succedendo?» chiese, facendo pressione sulle braccia per trovare la forza di rialzarsi, incuriosito dalla voce grottesca urlare un nome tanto fragile.
«Fai come ti dico. Tornerò, te lo prometto» lo bloccò al tronco, premendogli con forza le mani sulle spalle larghe da sentire le unghie entrargli nella carne.

«Matilde!» passi pesanti si fecero sempre più insistenti alle sue spalle. Scricchiolii di rami scheletrici e foglie morte, da imprimere suole di scarponi infangati e pieni di sangue.
«Come posso fidarmi di te?» la sfidò, puntandole venature verdastre sulle sue in modo da non lasciarla andare via: intrappolata in un gioco di sguardi labirintico.
«Portati dietro qualcosa di diverso da una semplice corda, anche una scacchiera andrebbe bene» sogghignò appena, per smorzare la sua ansia intrufolatasi all'interno delle scariche dei nervi «Dopotutto abitiamo vicini, saprò quando verrai in questo posto»

A tali parole, un brivido gelido invase la spina dorsale di Samaele e come una lepre impaurita fuggì di corsa, le sue gambe si muovevano veloci nell'erba alta: frustate gentili di steli pieni d'acqua. I polmoni si riempirono d'aria, introdusse polline, piccoli insetti invisibili da farlo tossire per non strozzarsi. La trachea chiedeva di nuovo pietà, ma non se ne curò, doveva raggiungere il più in fretta possibile casa sua anche a costo di tornare pieno di graffi e sangue da colargli sulle ginocchia fin sotto ai polpacci.

«Matilde! Dov'eri finita? Si può sapere perché non mi hai risposto?» sbucò Alberto da un cespuglio, mentre osservava sua figlia sotto un albero di quercia intenta a esaminare qualcuno nell'orizzonte «Sei riuscita a trovare qualcosa o sei stata qui a perdere tempo?» le chiese rude, con la pancia gonfia da dondolargli oltre la cintura stretta, mentre pupille scure si domandavano cosa ci facesse un moncherino di una corda appesa al ramo.
«Avevo trovato una volpe bellissima, ma poi è scappata» sussurrò, senza togliere lo sguardo da dove Samaele aveva lasciato una scia simile a un sentiero boschivo, in cui nessuno ci si imbatteva da anni.

«Avresti dovuto ucciderla subito, il fucile te l'ho dato per questo. Non siamo venuti qui a fare amicizia con gli animali» ribatté irritato dall'atteggiamento poco attento di Matilde. Recuperò la doppietta da terra e la borraccia vuota non molto lontane da dove si trovava la ragazza rimasta ancora in ginocchio, punta come un segugio per dare al proprio padrone la via giusta dove sparare «Forza, torniamo a casa, devi aiutarmi a scuoiare il cinghiale che ho catturato» continuò, fiero del suo gran trofeo.
Senza fare storie, la giovane si rialzò e non lo degnò di uno sguardo per tutto il tragitto, si incamminò mogia verso il bosco, tornando alla vita reale.

Nel mentre, Samaele si era fermato per riprendere fiato in mezzo al campo di grano non lontano dalla sua dimora. Si intravedeva il bianco usurato dalle intemperie della facciata principale e la siepe a far da perimetro introno al cortile. Alla sua destra invece, si innalzavano mattoni rossi e grandi finestre, i raggi del sole mattinieri sbattevano contro la trasparenza del vetro, lasciando piccoli bagliori accecanti posarsi su di esse.
Il vento gli scompigliava le ciocche sanguigne; fuoco vivo da poter incendiare tutto con un solo tocco di dita. Si erano impossessati della sua fronte, delle sue sopracciglia e altre invece danzavano con l'aria afosa estiva.

Analizzava attentamente ogni angolo buio, ogni centimetro dell'abitazione, non riusciva a concepire il perché una ragazza lo avesse notato già molto tempo prima dal loro primo incontro. Lo spiava di nascosto, lo teneva d'occhio senza averne avuto il minimo sospetto. Dalle ultime parole pronunciate da una minuta figura, nel suo cervello si insinuò un tarlo divoratore di materia grigia, fino a diventare un verme ingordo di conoscenza: voleva sapere cosa si celasse dietro mura laterizie.
«Quindi è qui che ti nascondi... Matilde» sussurrò il suo nome, mischiandosi con gli ululati gentili del vento.

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