Capitolo 6.

«Quando riceverete questa lettera, sarò morto.
Mi sto uccidendo perché non posso più vivere,
perché l'esaurimento di andare a dormire
e l'esaurimento del risveglio sono insopportabili per me.
Mi sto uccidendo perché credo di essere immortale
e lo spero.»

-Charles Baudelaire
(lettera del suo tentato suicidio, 30 giugno 1845)

Doveva andarsene, scappare dall'inferno in cui era intrappolato il suo corpo. Rinchiuso nelle quattro mura della sua camera, del tutto messa a soqquadro, come i suoi pensieri, cercava un po' di calore dai primi raggi timidi della mattina. La piccola finestra illuminava un lato del letto e rendeva di un colore rosso vivo i capelli di Samaele, sfumature carminiche scure mischiate con un tenue aranciato. Riccioli ribelli si erano appropriati della sua fronte abbassata, per non incontrare il bagliore del sole. Era seduto a gambe incrociate sul materasso, abbandonato sopra le lenzuola ingiallite e stropicciare, testimoni di notti insonne e incubi reali da farlo svegliare ogni volta col sudore intriso sulla pelle.

Era rimasto nella stessa posizione per ore intere, aveva chiuso a chiave la porta per non far entrare suo fratello. Era rincasato completamente sbronzo, girava a zonzo per casa come uno zombie, bevendo fino all'ultimo goccio dalla sua pinta, rubata alla fiera al chiosco del mendicante dove aveva perso al gioco di spade. Per una fatale coincidenza, era tornato prima del previsto, cogliendo di sorpresa una coltre riccioluta di sangue, nel momento in cui apriva la porta d'entrata ancora vestito da giullare.

«Tu, brutta testa di cazzo! Hai avuto il coraggio di andare alla sagra?» gli urlò contro Michele, mentre sbatteva con violenza la bottiglia di birra sul bancone della cucina, dirigendosi verso il ragazzo, spaventato dalla sua presenza e da cosa avrebbe potuto fare. Non voleva essere picchiato di nuovo, ne aveva abbastanza dei suoi colpi, del suo sadismo nel fargli male, ferirlo fino a stillare liquido scuro dalle labbra gonfie.
«M-mi dispiace» balbettò, cercando di indietreggiare per trovare una via d'uscita, senza mai togliere lo sguardo irato della bestia davanti a sé, ma alle sue spalle trovò soltanto la parete verdognola del corridoio, la quale collegava tutte le stanze del piano terra.
«Oh, al povero Malpelo dispiace» la sua voce piena di comprensione apparente si beffava di Samaele, un diavolo pronto a scatenare la sua ira per non aver obbedito ai suoi ordini. Uno schiaffo sonoro si impresse violento sulla guancia piena di efelidi del povero malcapitato. Girò il volto di scatto, nascondendolo con le ciocche rossicce, una perlacea lacrima si fermò nella caruncola, per poi scendere lentamente ad accarezzargli il dorso del naso. La testa china a guardare il pavimento e l'ombra oscura, imponente, del fratello lo sovrastava di parecchi centimetri. Tremava alla sola vicinanza, la guancia gli bruciava così tanto da sentire le fiamme pervadergli il volto.

Qualcuno fece irruzione, un uomo all'apparenza normale, capelli lisci e brizzolati, occhiali dalla spessa montatura gli contornavano le palpebre, mentre una bocca sottile nascosta dalla barba scura si contrasse di rabbia nel vedere una scena pietosa di due figli idioti.
«Che sta succedendo qui?» chiese con voce profonda, spigolosa, il suo pomo d'Adamo si alzava e si abbassava per tenere dentro la rabbia. Chiuse la porta d'entrata così forte da far tremare le mura, i suoi passi leggeri, ma ticchettati dalle scarpe si avvicinarono sempre di più verso i due giovani. Non appena li ebbe nel suo campo visivo, i suoi occhi verdastri si posizionarono sul secondo genito nato diverso. Non lo guardava, cercava sempre di non incrociare le sue iridi; il volto simile a un cerbiatto gli ricordava la sua dolce moglie, morta per colpa sua.
«Papà, Samaele mi ha insultato poco fa» mentì spudoratamente, cantilenando le sue menzogne: un bambino viziato dall'odio e dall'invidia «Ha avuto anche la faccia tosta di andare di nascosto alla festa del paese» rise di gusto, nel vedere Samaele come un cucciolo di cane indifeso, attaccato da un orso famelico.

Il rosso non fiatò, rimase in silenzio, ma dentro di sé avrebbe voluto urlargli tutto il livore represso, la sua orribile vita diventata opprimente a causa sua e dal suo atteggiamento. Un'arma nascosta, però, ce l'aveva: le parole. Quando uscivano dalle sue labbra morbide, contornate da lentiggini, prendevano vita nella mente della gente. Faceva in modo che i rimorsi delle persone uscissero fuori, tagliavano più di cento lame di ferro: «Non gli racconti di essere stato messo alla gogna, durante il torneo, dopo nemmeno dieci minuti da una ragazzina oppure hai perso anche la tua virilità insieme al cervello?» sussurrò a denti stretti.
Michele nel sentire certe frasi, la mente annebbiata dall'alcool, afferrò il collo sottile di Samaele con una mano. Strinse così forte, da percepire l'aria scemare sempre di più, rantoli maceri sospesi nella giugulare.

Aveva centrato in pieno la sua debolezza, la prima dopo anni a trovare qualcosa che lo ferisse, trattato di continuo come un animale al macello. Un sorriso leggero, pronto ad accogliere l'ultimo attimo di luce, si impresse negli angoli della bocca da lasciare senza parole il fratello maggiore, rimasto con le dita lerce ancorate al suo gracile collo. Poteva spezzarlo in un solo colpo, come si faceva con le galline, ma lo sguardo di Malpelo lo immobilizzò. Assistendo, così, alla vera natura di un'anima dannata.

Non gli importava di morire, preferiva godersi l'immagine delle sclere, della figura imponente di un orco, arrossarsi con violenza da scrutare, a occhio nudo, i capillari gonfiarsi fino a colorare il bianco latteo, in sfumature simili ai tramonti di cieli tersi colmi di fiamme infernali. Il digrignare dei denti, da collidere uno sull'altro, si insinuava nei timpani fino a renderlo sordo di qualsiasi altro suono circostante. Smorzava la violenta indole nel spaccargli la testa e strappargli i capelli per bruciarli una volta per tutte, era così forte da non riuscire più a trattenersi.

Le sopracciglia folte e cremisi del giovane si aggrottarono formando un angolo acuto, la rabbia, la vendetta gli si leggeva nello sguardo. Quegli occhi magnetici parlavano più di mille bocche velenose.
«Ora basta!» urlò Matteo, loro padre, nel vedere la sua prole farsi la guerra. Li divise spintonando uno alla parte opposta dell'altro, mettendosi in mezzo. Samaele, dopo essere stato liberato dalla morsa soffocante, ritornò a respirare, ma i suoi polmoni il giorno dopo non avrebbero più avuto l'opportunità di far entrare ossigeno in un corpo in decomposizione. Il suo cuore si sarebbe fermato, perché un'esistenza del genere non la desiderava vivere.
«Tu, vattene in camera e fatti passare la sbronza» gli ordinò poco dopo l'uomo, mentre indicava con il braccio, nascosto da una camicia a scacchi rossa e nera, il piano superiore. Michele non fiatò, si limitò a guardare un'ultima volta iridi cangianti, celate dalle ombre di luci fioche da mischiargli i colori in una danza pittoresca, un quadro di Van Gogh mai scoperto e studiato dai migliori critici d'arte.

Non era ancora finita, si sarebbe preso la rivincita nel momento in cui Samaele avrebbe abbassato la guardia e nella sua mente balenò l'idea di mettere fine alla sua miserabile vita, come faceva con i maiali quando la gente veniva a ordinare carne fresca per i loro stomaci mai sazi. La prossima volta avrebbe premuto il grilletto e sparato il chiodo dritto in testa, in mezzo ai suoi capelli simili alle rappresentazioni pittoresche di Lucifero. Se ne andò con passi pesanti, ciondolanti, senza più degnare suo padre rimasto in piedi a calmare le acque. Conosceva suo figlio, non avrebbe ceduto a restarsene isolato in quattro mura soffocanti a non fare niente.

Non appena sentì lo sguardo profondo di un uomo maligno, il mingherlino cercò di scappare, di rintanarsi nella sua stanza come un topo intento a ritornare nella propria fogna, per non essere catturato da un gatto randagio con la rabbia. Una mano forte e callosa lo afferrò per un braccio, strattonandolo così forte da perdere leggermente l'equilibrio.
«Dove vai? Dobbiamo fare un discorsetto io e te» gli intimò, mentre cercava di trascinarlo in cucina.
«Non ho nulla da dirti, lasciami in pace» alzò il tono della voce e preso alla sprovvista dalla ribellione di un ragazzino impertinente, lasciò la presa. Lo guardò salire le scale, lo rincorse, ma la sua agilità e leggerezza erano sue amiche nei momenti più pericolosi. Gli chiuse la porta in faccia e sigillò a chiave, Matteo provò a smontare la serratura con forti scossoni, ma nulla.
«Porta rispetto per il tuo vecchio perché è solo per causa mia se sei ancora vivo! Devo ricordarti cosa hai fatto a tua madre?! Che Dio salvi la tua anima, perché le prossime volte non sarò così clemente» gli urlò isterico, sbattendo pugni violenti al legno laccato della porta. Distanza sottile dove potersi rifugiare dai demoni, da castighi mai voluti. Voce gutturale, di un Minosse inferocito.

Si rannicchiò a terra, facendosi scudo con le ginocchia e le braccia, un amplesso nascosto di un'anima che cercava di farsi forza da sola. Piccoli singhiozzi di tristezza fecero il loro ingresso all'interno della gola del ragazzo, gocce salate gli pizzicarono il volto macchiato di caffè. Erano scese fin sotto al collo, da mescolarsi col muco trasparente; si facevano strada sulla sua pelle delicata. Stava soffocando un grido di disperazione, bocca spalancata, rantoli strozzati e mani tra i capelli per strapparsi la causa maggiore delle sue disgrazie, oltre al suo passato.
Non appena i colpi cessarono e i passi pesanti allontanarsi verso stanze a lui proibite, si sentì sollevato, amava il silenzio tanto da tentare una volta di rompersi i timpani per non ascoltare voci, urla e maledizioni: esistere nel totale vuoto, ma non era abbastanza per togliere ogni angoscia albergata nella sua testa. Vivere era diventata un'agonia, una tortura demoniaca da fargli risuscitare le stesse azioni al calare e al sorgere del sole.

Dentro di lui milioni di domande presero possesso del suo cervello, premendogli forte come aghi appuntiti, da penetrargli fin dentro le sinapsi. Era davvero il senso dell'esistenza? Dover patire fatiche, paure incomprese, violenze fisiche e psicologiche di persone alle quali avrebbe dovuto fidarsi, ma invece di parole gentili riceveva soltanto ingratitudine. Perché non poteva avere una vita normale come i due ragazzi visti alla fiera? Un abbraccio fugace, una parola dolce senza tornaconto. Cosa aveva che non andava? Perché proprio lui?
«Perché? Perché? Perché?» ripeteva come una litania, domande senza una risposta certa, sussurri pieni di lacrime e isteria.

Cercò di rialzarsi, ma il dolore al petto causato da un attacco di panico, mischiato al bruciore costante della gola lo rendevano inerme, privo di forze. Le sue gambe tremarono, non aveva più muscoli per reggersi in piedi. Si tolse i vestiti e indossò qualcosa di più leggero, il suo corpo magro, nervoso, prese forma sotto la luce tenue di un satellite curioso: curve gentili, nascoste da una maglietta larga e sottile. Con fatica raggiunse la morbidezza del materasso e abbandonò le sue stanche membra tra le lenzuola chiare, illuminate dalla luce della Luna. L'oscurità rendeva tutto omogeneo, qualsiasi oggetto aveva lo stesso colore, lo stesso destino. Era l'unica certezza in mezzo a una marea di colori abbaglianti, da confondere la sua anima. Anche i suoi lineamenti sanguigni si spegnevano al cospetto delle ombre, un fuoco domato soltanto dalla notte piena di segreti, ma sempre silenziosa: un'amica alla quale si poteva raccontare ogni minimo particolare senza mai giudicare.

Se ci fosse stato qualcosa nell'altrove, Samaele voleva vivere nella completa negazione della luce. Un universo senza stelle dove poter galleggiare per l'eternità e dormire per sempre, cullato dall'abbraccio caldo della morte. Lo stava aspettando, sentiva la sua voce dentro le orecchie, da chiamarlo come una sirena con i marinai dispersi in oceani sconosciuti. Quella notte decise di mettere fine alle sue pene. Nessuno avrebbe potuto fermarlo, ormai non aveva nulla da perdere; l'inferno sarebbe stato un posto meno violento rispetto a dove si trovava.
Così, aspettò la Luna lo salutasse per l'ultima volta, abbandonandosi dietro le colline e far spazio ai primi raggi timidi di un sole assonnato.
Non poteva rimanere a pensare ai ricordi di qualche ora passata, doveva andarsene prima di trovare Michele e Matteo in cucina intenti a prepararsi ad andare al lavoro.

Si alzò di scatto, un leggero mal di testa prese a far girare la stanza, ma imperterrito andò verso la porta, trascinando i piedi come un condannato alla sedia elettrica. Dischiuse d'istinto l'uscio e senza fare rumore scese le poche scale da dividerlo col piano di sotto. Dal ripostiglio degli attrezzi del padre, prese una corda in canapa bella robusta e se ne andò dalla sua dimora il più in fretta possibile. Non lasciò neanche un biglietto d'addio, avrebbe solo aumentato l'ego di un fratello, il quale non vedeva l'ora di sputare sul suo cadavere.
Aprì il portone di casa per non farci mai più ritorno, prima di incamminarsi per il bosco, afferrò un ceppo e se lo mise sottobraccio. Corse per i campi di grano e orzo, le gambe magre vennero graffiate da frustate di steli giallognoli, il cielo sopra di sé stava prendendo sfumature aranciate mischiate con l'azzurro, ancora impacciato nel farsi vedere in tutto il suo splendore. Guardò verso sinistra e notò la casa in mattoni rossi irrompere nel paesaggio collinare, lo attirava come una calamita, voleva sapere chi si celasse all'interno, scoprire nuove vite e poterne prendere il posto. La sua meta però era il bosco: si stendeva per chilometri non molto lontano da dove si trovava. Non appena iniziò a perdersi tra i primi tronchi rugosi, la sua anima cominciò a respirare di nuovo. Si sentiva libero in mezzo a pini, querce e alberi rampicanti, nutrendosi della linfa dei loro simili per poter sopravvivere. Nascosto tra la vegetazione, il soffice manto del terreno ammorbidiva i suoi passi leggiadri: falcata di un cervo in mezzo al suo habitat naturale.

Le ombre delle fronde e delle foglie si divertivano a giocare con il volto di Samaele, creavano sfumature chiare e scure tra la pelle lattea e le sue efelidi, mischiandosi col sangue delle sue ciocche ribelli. Lo accarezzavano di sorrisi, di saluti leggeri, come se fosse stato accolto a braccia aperte da un vecchio compagno di classe. Lui però di amici non ne aveva mai avuti, nella fatiscente scuola in cui era andato lo avevano isolato dagli altri, per il suo carattere, per le sue colpe e la gente bigotta convinceva i loro figli a non fare amicizia con nessun ragazzino dai capelli rossi: anni e anni di completa solitudine.

Mentre Samaele cercava un posto dove nascondersi per sempre, non molto lontano, una figlia accompagnata dal padre si incamminava per trovare la giusta angolazione e posizionare le trappole per i cinghiali. Matilde portava in spalla un fucile e un coltello per difendersi da minacce inattese. Anche Alberto, dall'alto della sua possanza afferrava per le mani le gabbie di ferro e il suo fidato binocolo ancorato al collo. Una doppietta penzolava sulle spalle, pronta per sparare bossoli pesanti su animali innocenti.
Sospirò affranta, odiava andare a caccia con suo padre. Non voleva assistere a morti violente, ma quando i proiettili centravano il bersaglio, un piccolo atto di euforia si faceva spazio tra i nervi tesi come corde di violino. Le sue mani piene di sangue, insieme ai suoi vestiti, la rendevano simile a Dio, il quale amava giocare con le vite degli altri.

«Bene, fermiamoci qui» proferì qualche minuto più tardi la voce roca e impastata dell'uomo. Si grattò la pancia gonfia e osservò il paesaggio. Alberi pieni di muschio, rami secchi da far scricchiolare il morbido terreno costernato di foglie morte ed erba umida, circondavano in tutta la loro maestosità esseri senza scrupoli. Alti cespugli di edera e rovi riempivano spazi vuoti, graffiando la carne priva di indumenti insieme al gilet mimetico. Il luogo era adatto per cacciare senza essere disturbati.
La ragazza si sentì sollevata, il peso dell'arma gli aveva fatto incurvare la schiena. Si fermò col fiatone, ma non provò neanche una volta a incrociare gli occhi piccoli e furtivi di un genitore senza cuore, freddo come il marmo.
La luce del sole faceva capolino con i suoi raggi tra una fronda e l'altra, creava coni luminosi da estendersi fino a toccare l'epidermide di due esistenze intente a dimenticare per due ore tutti i rimorsi e le azioni compiute la notte scorsa.

«Ragazzina, prendi la mia doppietta e dirigiti da quella parte, nasconditi bene finché non vedi un cinghiale, un coniglio, mi va bene anche una volpe, basta che riporti qualcosa a casa» disse autoritario, mentre caricava l'arma, indicandole con un cenno del viso la direzione da prendere «Ecco qua, prendilo e ora dammi l'altro fucile».

Matilde, come un automa, fece ciò che le venne richiesto senza mai aprire bocca. Quando ebbe l'occasione di avere tra le mani un'arma carica, si sentì pronta per sparargli un colpo dritto in testa. Sangue denso si propagò come veleno sul suo viso, sulle sue ciocche nere, da sembrare lapilli incandescenti. Il corpo privo di vita di Alberto ingombrava il terreno e pezzi di cervello andavano a confondersi con il verde degli steli erbosi e le foglie verdastre, testimoni di un omicidio silenzioso di una figlia diventata pazza.
«Matilde!» urlò l'uomo con ancora un buco sulla fronte, per ridestarla dalla sua trance durata troppo a lungo «Vuoi darmi quell'arma oppure devo stare qua tutta la giornata?»
La ragazza sussultò e spaventata dai pensieri macabri, sbatté le palpebre ripetutamente per scacciare immagini cruente dalla sua memoria. Gli passò velocemente il fucile e indietreggiò di qualche passo, la testa china nascosta dalla morbidezza di ciocche corvine si affrettò a concentrarsi sulla realtà. Un ringhio gutturale si propagò nel piccolo angolo dimenticato da tutti. Era un avvertimento di Alberto; stava già perdendo la pazienza.

«Non credo di doverti insegnare come si fa, te l'ho già spiegato milioni di volte» parlò infine, mentre aspettava un accenno di risposta dalla figlia, la quale se ne andò verso la direzione indicatale, per poter rimanere da sola con i suoi demoni e non pensare a cosa avesse immaginato qualche minuto prima. Matilde sapeva sparare, non era la prima volta in cui si addentrava in certe zone. Ci veniva spesso verso gli inizi di settembre quando la caccia era più fruttifera, le ritornò in mente la sua prima vittima: un bellissimo fagiano dalla coda lunga, testa colorata e piume lucenti. Aveva pianto tutta la notte, ma il sorriso del padre contento di poter condividere quel passatempo macabro con sua figlia era l'unica sua salvezza per non essere picchiata. Voleva inculcarle la sua stessa passione dell'arte nell'uccidere, ma si sbagliava di grosso. Lei si affezionava agli animali più di quanto ne dovesse dimostrare ai suoi simili, erano gli unici innocenti sulla Terra e tutti si divertivano a distruggere la loro fragilità, spenta dall'ignoranza, dalla cattiveria impressa nel DNA dell'essere umano.

Camminò per qualche metro, la vegetazione aveva nascosto la presenza di suo padre alle spalle, un muro verde dove potersi rilassare. Il bosco era pieno di merli canterini e le rondini volavano da una parte all'altra delle fronde per catturare qualche insetto o frutto commestibile. Si ritrovò davanti a un piccolo ruscello, liquido trasparente inumidiva il letto e il terreno. Placide rane fangose si divertivano a sguazzare libere e ad afferrare di tanto in tanto con la loro lingua lunga, appiccicosa, qualche zanzara poggiata sul pelo dell'acqua. Degli scoiattoli si abbeveravano furtivi, guardinghi di pericoli in arrivo, per non essere preda di qualche volpe o animale più grande. Code morbide e isteriche si muovevano a ritmo delle loro minuscole zampe bagnate, squittii rumorosi riempivano il silenzio della natura da formare un'armonia di un'opera mai esibita al pubblico.
Qualcosa, però, attirò la sua attenzione da ridestarla dal suo dormiveglia fatto di pensieri distorti. Un rumore improvviso di passi squarciò l'aria di tensione e paura, afferrò il fucile e puntò le canne oltre il suo viso. Si guardò attorno, ma non vide anima viva. Il suono era sempre più vicino, si sentiva accerchiata, non sapeva se sparare o meno. Gli scalpiti non erano di un animale, ma di qualcuno che si aggirava nella zona. Poteva essere benissimo suo padre, ma non aveva lo stesso passo pesante e deciso. L'avrebbe riconosciuto a occhi chiusi, ne era sicura.

Oltrepassò il fiumiciattolo, bagnandosi la suola delle scarpe, si incamminò furtiva, accovacciata come un riccio per non farsi notare. Dietro a un cespuglio di more una coda rossa, folta, con la punta nera e bianca spuntò giuliva da dietro i rovi. Portava in bocca un piccolo topo marroncino, la coda penzolante mentre il corpo inerme era incastrato tra le zanne bianche dell'animale, delle gocce di sangue da colargli lungo il muso caddero rovinosamente a terra.
Era abbastanza nascosta per poter mirare e sparare, ma lo sguardo furbo di occhi lucenti e pieni di vita la puntarono senza preavviso. L'aveva vista, ma non si mosse, come se volesse contemplare l'esemplare dal manto lucido e pieno di colori tendenti al rosso. Le zampe scure dagli artigli affilati erano ferme come bastoncini, si guardavano con così tanta intensità da dimenticarsi del mondo esterno. Un'apparizione quasi astrale, una connessione di mute menti, da creare brividi lungo tutta la schiena della ragazza.
Sarebbe stato un sacrilegio ucciderla, ma non aveva altra scelta. Doveva almeno provarci, in modo da poter calmare l'ira del padre e soddisfare la sua malata passione.

Dei movimenti innaturali fecero distrarre la volpe e spaventata se ne andò non appena Matilde puntò il fucile verso di lei. Imprecò tra i denti, i soliti maledetti passi erano tornati nel momento sbagliato, si rialzò e si diresse verso la fonte di disturbo. Se fosse stato qualche malintenzionato non avrebbe esitato neanche un minuto a scaricare l'arma e impallinare cuori e organi da rimanerci soltanto l'ombra, insieme al sangue da contornare le loro figure morte: arte macabra in mezzo a una natura complice.
Una quercia centenaria le si parò davanti, era in mezzo a una radura rigogliosa piena di fiori e margherite da riempire le narici di odori contrastanti. La pianta aveva un tronco così largo da costruirci una casa all'interno, ma non appena notò la causa dei rumori rimase pietrificata: nervi saldi di un violino accordato.

Un ragazzo di spalle, capelli di un vermiglio lucente da far invidia al pelo morbido della volpe di prima, era intento a salire su un ceppo di legno. Le sue gambe magre e nude fino al ginocchio erano leggermente piegate, il busto veniva nascosto dalle fronde folte dell'albero, ma qualcosa dentro di lei le stava urlando di intervenire. Si avvicinò furtiva, senza farsi scovare, per osservare meglio i suoi movimenti.
Le aveva già notate qualche tempo addietro delle ciocche scarlatte, le aveva viste col binocolo durante le giornate di pioggia, nella corsa frenetica verso un posto sicuro. L'avrebbe riconosciuto anche in mezzo a una folla di gente, un colore del genere non si dimenticava facilmente.
Non appena trovò un posto migliore per poterlo analizzare, ebbe un sussulto di paura. Il suo collo era circondato da una corda spessa, attaccata salda a un ramo della quercia. Da ragazza curiosa e ingenua, divenne spettatrice di un avvenimento raccapricciante, lo vide sussurrare parole incomprensibili. Le sue labbra dischiuse si muovevano senza senso, umide di un pianto sommesso, braccia lungo i fianchi pronte ad abbandonarsi a una morsa di una morte sofferente.
Alla fine, accadde. Tutte le paure si materializzarono in un solo slancio di gambe, di muscoli tesi fino a creare insenature per uscire fuori dalla sottile epidermide.

Si lasciò cadere, un piede scalzo verso il vuoto e di seguito anche l'altro. Il ceppo da sotto le sue dita scheletriche cadde a terra facendo un rumore sordo e il suo corpo rimase penzolante, come un insaccato, ad aspettare gli mancasse il respiro. Il suono della corda, da stringersi sempre di più sulla sua pelle, era un misto tra il graffiare e il grattare su una superficie in plastica. Rantoli di dolore si propagarono fino alle orecchie di Matilde, la morte non gli aveva nemmeno dato il regalo di spezzargli in milioni di frammenti le ossa del collo. Come una lepre si fiondò verso il ragazzo: corsa frenetica per aiutare un'anima in pena. Si mise proprio davanti a lui, a osservare i suoi occhi iniettati di sangue e il suo viso diventare ogni secondo sempre più violaceo dalla stretta del cappio.
Il corpo del rosso si dimenava per sfuggire al suo sguardo, colpito nel profondo per essere stato scoperto dall'ultima persona a cui avrebbe mai pensato di trovare in quei boschi.

La testa coperta dal manto nero di lisce piume si inclinò di poco a esaminare il momento tra la vita e la morte, la eccitò così tanto da lasciarle un leggero sorriso sulle labbra. Prese il tronchetto e si issò sopra di lui per tagliare col coltello la corda. Cercò di fermarla, poggiando le mani sulla lama, provava a dirgli di non salvarlo e lasciarlo lì a morire tra le lacrime e i suoi stertori, ma la ragazza voleva fargli una domanda prima di decidere se allontanarsi senza aver visto nulla o metterlo in salvo dalle sue pazzie.
Appena la roncola affilata spezzò l'ultimo filo di canapa, Samaele si lasciò cadere a terra battendo la testa sul morbido manto d'erba. Con molta calma, la sua gola cominciò di nuovo a richiedere sempre più aria, ma era straziata dal gracchiare della voce del ragazzo, provava con tutte le sue forze a incanalare ossigeno nei suoi polmoni martoriati. Il cuore gli pompava come una locomotiva a vapore, tremò per l'adrenalina rimasta nel suo corpo per troppo tempo, inebriato da un attacco di terrore.
«Guardami» gli chiese con voce autoritaria, ma con un velo di gentilezza nascosto. Il fucile era a terra, lo aveva lasciato per avere le mani libere, in modo da poter usare il falcetto con più facilità, ma come un fulmine se lo riportò tra le dita. Il bastone scuro laccato di una cera trasparente si mimetizzava tra la vegetazione come un innocuo ramo spezzato, ma solo lei era capace di comprendere quanto fosse senza pietà un pezzo di legno.

Samaele non l'ascoltò, nascose il suo sguardo tra l'erba e la terra fredda, umida come il giardino di un cimitero. Doveva già essere morto, ma per colpa di una ragazzina sfrontata gli aveva tolto la possibilità di trovare un po' di pace. Con molta calma portò le braccia in avanti e si fece forza con i palmi e i pochi muscoli rimasti tra vene scoperte, ossa in procinto di uscire fuori per sentire la brezza del vento. Si mise carponi, mentre il moncherino della corda gli penzolava intorno al pomo d'Adamo come un cane scappato dalla propria gabbia, incatenato da quando ne aveva memoria.
Matilde si spazientì per la sua lentezza, stava quasi per pentirsene di non averlo lasciato dondolare come un baccalà. Prese il fucile e gli puntò la canna sotto al mento, per alzargli il viso. Non fece resistenza, non provò nemmeno a urlare davanti a un'arma che avrebbe potuto benissimo ucciderlo, essendo ancora carica il proiettile aspettava trepidante l'innesco del grilletto.

Non appena i loro occhi si incontrarono ebbero entrambi un sussulto, le loro pupille si dilatarono come se avessero visto un fantasma. Iridi ambrate, dal sapore del miele, affondarono tra le milioni sfumature del verde, mischiato a macchie più scure e altre tendenti al colore della sabbia. Non riusciva a decifrarli, era la prima volta in cui la giovane non aveva la situazione sotto controllo. Si sentiva nuda, vuota, davanti a tale sguardo immerso in galassie colme di stelle da navigargli in mezzo la pelle lattea: un universo segreto dove nessun astronauta aveva mai messo piede.
Fiamme infernali si appropriavano del loro potere con riccioli carminici, da accendergli la fronte come un tizzone ardente. In quel momento si ricordò di un libro scientifico in cui descriveva la vita del Sole, stella più luminosa del sistema, l'unica a dare vita a tutto ciò che li circondava. Era la reincarnazione di gas e lava, dove sulla superficie si creavano protuberanze solari pronte a esplodere, mandando plasma, materia incandescente, in tutto l'universo.

Samaele rimase incantato dai lineamenti delicati della ragazza davanti a sé, priva di ritegno da puntargli un fucile da caccia contro. Le sue sclere ingrandite da occhiali sottili con sfumature dorate, erano leggermente nascoste dal bagliore delle lenti, causato dal riflesso della luce. Capelli di un nero intenso le scendevano fino all'inizio delle spalle, sembravano piume di un corvo pronto a cibarsi della sua carne in putrefazione.
«Perché lo hai fatto?» gli domandò tra un rantolo e un gorgoglio, la gola andava così a fuoco da non riuscire a spegnere l'incendio dentro il suo corpo. Eppure, sembrava quasi di averla già vissuta, come se qualcosa dentro il suo cervello annebbiato gli parlasse di lei e della sua bocca rosea con l'arco di cupido troppo accentuato, da prendersi gran parte del labbro superiore.
«Dammi una ragione, una soltanto, per lasciarti qui a morire da solo. Convincimi e ti lascio andare. Perché vuoi suicidarti?» rispose, alzando il tono della voce, con un'altra domanda, mentre gli puntava l'arma contro, da sentire il ferro scuro pizzicargli i lividi violacei intorno al collo, una nebulosa da poter osservare a occhio nudo.

La richiesta malsana lo spiazzò da sentire un pugno forte dritto allo stomaco, lasciandolo senza fiato «Che ti importa? Non è la prima volta che mi puntano il ferro contro» la sfidò, serrando i denti come un animale rabbioso per non far trapelare nessuna debolezza.
«Non cercare di fare il furbo con me, sono io che ho un'arma qui. Ti conviene rispondermi.» provò a spaventarlo, mettendo il pollice sulla sicura, pronto a tirarla giù nel momento più opportuno. Era ossessionata dalla gente come lui, piena di segreti, di dolori nascosti da voler aprire la sua testa come un melone, assorbire tutta l'oscurità imprigionata in un cuore pieno di crepe. Continuava a battere nonostante volesse a tutti i costi morire tra atroci sofferenze, esplodere come una bomba piena di sangue da inondargli organi e interiora.
«Neanche mi conosci e pretendi delle risposte?» chiese con astio, mente i suoi occhi si riempirono di luccicori brillanti, smeraldi incastonati su una roccia purpurea. La gola, a chiedergli pietà, graffiava sulle pareti con le unghie e con i denti, pulsante come un secondo muscolo.

«Hai ragione, ma i tuoi lividi parlano» proferì tagliente, facendo cadere l'occhio sulle braccia scoperte del ragazzo. Il suo sguardo terrorizzato, come se fosse stato colto nel momento esatto di un omicidio, si ritrovò a osservare le sue ferite silenziose. Provò a coprirsele con le mani, abbraccio freddo di muscoli e tendini al massimo della loro estensione. Le sue dita affondavano nella carne imperfetta, tremolante, la mente di Matilde pensò se la stesse facendo sotto dalla paura, come i bambini davanti a un film spaventoso.
Rimasto nudo delle sue fragilità davanti a iridi melliflue, si arrese a risponderle con tutto il dolore nel petto, un fuoco da bruciargli anche l'anima.
«Sono stanco» sibilò, abbassando il capo, incastonando il suo sguardo sul terreno per osservare fili d'erba danzanti e timidi insetti da mimetizzarsi nelle ombre, negli incavi della natura: testimoni di parole talmente forti da far quietare anche il frinire dei grilli.
«Cosa?» Matilde non riusciva a comprendere le sue intenzioni, lo guardò con scetticismo e il fucile leggermente abbassato per dargli spazio.

«Hai mai provato la sensazione di cadere nel vuoto?» le pupille della ragazza si dilatarono talmente tanto, nel momento in cui proferì emozioni simili alle sue. «L'attimo in cui sei tra il terreno e la carenza di gravità da prenderti per le spalle, portandoti verso il centro della terra. Quando il tempo si ferma ti sembra quasi di volare, una sensazione di estasi mai provata fino in quel momento.» Un brivido lungo la schiena si materializzò tra le vertebre di Matilde, da sentire la cartilagine e il midollo tentennare da una parte all'altra al solo sentire frasi scomposte. In esse ci trovò una verità da renderla inerme, immobile come le statue davanti all'entrata della vecchia biblioteca del paese, in cui perdeva lunghi pomeriggi a leggere racconti e versi dei suoi scrittori preferiti. Gli ricordò una poesia di Baudelaire, uno Spleen da far marcire anche le interiora.

«Nel tuo cervello, però, milioni di sinapsi stanno già urlando a come proteggersi dalla caduta imminente per poi rialzarsi.» continuò «I nervi sono sempre stati un mistero per me, ancora non capisco come possano funzionare così velocemente, da superare quasi la velocità della luce. L'essere umano è uno tra gli animali più lenti del pianeta, ma dentro di sé ha un'orchestra in continuo concerto.» si fermò per qualche secondo a guardare con interesse lo sbigottimento della giovane davanti a sé, l'aveva travolta come un tir in corsa, le era entrato dentro la testa e non riusciva più a tirarlo fuori «Non si fermerà mai finché non arriverà lo strappo di una corda di violino, una sbavatura di uno strumento a fiato o la perdita del ritmo delle grancasse. Sarà in quel preciso istante che il sipario si chiuderà per sempre, ma per me non c'è mai stato nessuno ad ascoltare la mia sinfonia. Sono un teatro vuoto con degli strumenti scordati. Chi mai potrebbe venire ad ascoltare tale abominio?» avrebbe voluto urlargli di starsene zitto, di smetterla di leggere i suoi più oscuri pensieri, le meningi scoppiarono in un sibilo acuto. Stava scavando come un chiodo battuto con un martello sul muro. La voce di Samaele si incrinò sempre di più, ammaliante come la musica di un piano solista, non smetteva neanche un minuto di puntarle gli occhi contro, pieni di rabbia, di dolore da rendergli il fegato nero come la pece «Sono lo scarto della società, colui che non riesce ancora ad atterrare, rimasto incastrato in un flusso di gravità senza mai trovare una fine al mio precipitare: una maledizione dalla quale non riesco a liberarmene.» aumentò di intensità, stava scagliando frecce infuocate colme di odio dritte al cuore della figura minuta, con le gambe tremolanti e le lacrime a fior di ciglia. Leggeva il suo sgomento, il suo stupore nel sentire discorsi deliranti «Sono un'anima dimenticata ed è questo ciò che mi merito, morire da solo come lo è stata la mia intera vita.» urlò, con la corda ancora penzolante sul suo collo, tossendo istericamente l'attimo dopo aver forzato la gola.

«Smettila, smettila!» sputò velenosa, con la voce incrinata da un pianto ossesso. Non riusciva a comprendere la sua vulnerabilità, si sentiva sotto attacco come in una partita a scacchi: una donna in procinto di essere catturata da una torre, spazzata via come un pezzo di legno rancido, a causa di una mossa incauta e poco ragionata. Il petto stava per esplodergli in milioni di pezzi, cuore troppo isterico, costole incrinate e polmoni sul punto di scoppiare. Sentiva una sofferenza simile alla sua da spaventarla a morte, non capiva quale fosse la sua prossima mossa, intrappolata in un gioco satanico.

Samaele sussultò alle sue grida, da far quietare anche il vento. Sembrava di vedere un cerbiatto indifeso, rimasto incastrato in una rete elettrica. I suoi tremori gli fecero ricordare le notti insonni, rimasto con gli occhi aperti e il terrore di ritrovarsi pieno di lividi la mattina seguente.
«Non posso scappare dalla vita orribile, alla quale Dio mi ha costretto a restare. È la mia unica possibilità, lo capisci?» Cercò di rialzarsi, ma venne subito fermato dai movimenti veloci della ragazza. Spostamenti d'aria sempre più vicini, finché non sentì il suo profumo di camomilla, impregnato nei vestiti mimetici. Un'ombra scura si eclissò su di lui da rendergli i capelli di un carminio macchiato di nero, sangue fresco uscito da arterie strappate.

«Allora ribellati» sussurrò dura, un ruggito di livore di una leonessa incontro la sua preda. Un ghigno divertito stampato sulle sue labbra morbide diventò un atto di sfida contro il creato e l'inferno stesso, mentre lo guardava dall'alto verso il basso. Il calcio del fucile colpì deciso la tempia di Samaele e stramazzò a terra privo di sensi, addormentandosi in un mondo senza sogni.

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