Capitolo 5.
Le prime luci dell'alba picchiarono sul vetro umido e pieno di polvere della camera di Matilde. Raggi caldi, insistenti, riscaldavano due volti, corpi intrecciati in un piccolo letto singolo con le lenzuola stropicciate. Illuminavano chiome scure, pelli chiare piene di vene, poggiando particelle di pulviscolo sulle loro ciglia lunghe e sulla peluria invisibile delle loro guance.
Erano rimasti con i vestiti della sera prima, Christian si era tolto la camicia di lino, rimanendo con una canotta leggera. Braccia morbide, mani affusolate si mischiavano con ciocche di capelli lisci, mossi, e carne dolce di curve morbide da sentire ogni movimento del petto. Polmoni rilassati, cuori scalpitanti, labbra semichiuse di stanche membra così ammalianti, da restare a osservare l'immagine di due anime simili, dormire serene in mezzo a un mare sempre in tempesta, cullati soltanto da poche assi di legno e un materasso vecchio, il quale aveva conosciuto anni migliori.
Le aveva fatto compagnia durante la notte, non solo perché Matilde non voleva tornasse a casa con l'oscurità, da occludere le iridi del colore delle profondità marine, ma per la terribile scena a cui avevano assistito, non appena misero piede in casa; diventata spettatrice di uno scenario da sentire ancora i lividi violacei pizzicare sulla pelle.
Erano tornati un'ora e mezza dopo la mezzanotte, in quel lasso di tempo, Alberto, finito il concerto, era andato con i suoi amici del bar a giocare a carte, scommesse fraudolente di sporco denaro, bere birra fino allo sfinimento. Non riusciva nemmeno a stare in piedi, aveva perso molti soldi, sperperando il poco che gli rimaneva in altre partite, solo per aumentare la sua boria. L'irascibilità era diventata una parte di sé, violenza pura da spaccare il vetro con la sola pressione di una mano.
Tommaso lo riportò a casa, lo lasciò scivolare sullo zerbino e dovette pulirgli il vomito rimasto sulla sua barba brizzolata. Rimasugli di cibo, alcool, pezzi di anima rigurgitati a terra per lasciare spazio al vuoto, da divorargli organi e interiora.
«Hai esagerato questa volta, amico mio» lo canzonò l'uomo dai capelli bianchi come la neve. Un sorriso sghembo gli riempì il volto, si poteva notare la mancanza di un incisivo e un paio di molari tra le pieghe delle labbra screpolate.
«Dov'è quella meretrice di mia figlia? Le avevo detto di tornare a mezzanotte» proferì a denti stretti, senza nemmeno degnare la presenza dell'amico «Quando torna a casa l'ammazzo.» alzò il tono della voce, da far spaventare un gufo appollaiato su un ramo di un albero poco distante. L'oscurità accecava gli occhi, volti sfumati da ombre e da una fioca luce giallastra della lanterna, rimasta accesa all'entrata di mura inquietanti.
«Basta con le minacce, hai già superato il limite» cercò di rialzarlo, per non fargli spezzare l'osso del collo, sull'ultima rampa di scale del pianerottolo principale. Alberto lo spintonò e imprecò per non essere aiutato, odiava sentirsi debole. Lui non lo era mai stato, nemmeno quando sua moglie era morta tra le sue braccia, piangendo ogni lacrima rimastagli. Immagini del passato riempirono la sua testa di forti rimbombi, rimorsi così pesanti da far esplodere le cervella.
«Vattene via! Non ho bisogno di nessuno» urlò d'impeto, da far indietreggiare Tommaso per lo spavento.
«Vai al diavolo Albè, con te è impossibile parlare» imprecò irato, lasciandolo lì, da solo, davanti al portone di casa e le chiavi già inserite nella piccola fessura in ottone.
La Bianchina azzurra del '70 sfrecciò via nella strada sterrata del cortile, per poi immergersi nell'oscurità delle strade di sobborgo colme di alberi, rami scheletrici e piante morte. Alberto era rimasto appoggiato all'uscio, le sue tempie chiedevano pietà per il mal di testa atroce. Si divertivano a trivellare le meningi fino a fargli bruciare la fronte, doveva bere ancora un goccio. Si affrettò a varcare la soglia e una volta trascinato il suo ingombrante corpo in cucina, si aggrappò allo sportello del frigorifero, tirandolo verso di sé. Il respiro pesante e rantolante prese possesso dell'eco silenzioso della stanza, da riempire ogni angolo nascosto in mezzo all'oscurità notturna, affievolita soltanto dal chiarore tenue della Luna e dal languido bagliore della lampadina appesa al soffitto. Appena sentì la gomma ingiallita dal tempo, attaccata al metallo arrugginito, fare sempre meno pressione, si ritrovò davanti il lume interno della ghiacciaia, irradiando a giorno il volto dell'uomo. Allungò veloce una mano callosa verso la bottiglia ancora intatta di birra e cominciò a scolarsela tutta d'un sorso. Ne prese una seconda e un'altra ancora, finché Matilde non fece ritorno.
«Merda, mio padre è ancora in piedi» sussurrò la ragazza, vedendo dal vetro della finestra la luce accesa della cucina. La sua schiena cominciò a tremare, aveva paura potesse essere ubriaco e il suo terrore si materializzò non appena i due varcarono la porta di casa. Una coppia di mani pesanti la trascinarono per le spalle e l'afferrarono per i capelli quasi a volerglieli staccare; aghi sottili si riversarono a terra come un pino marcio senza più le sue radici.
Uno schiaffo sonoro in pieno volto arrossò la guancia sinistra di Matilde, si potevano vedere le impronte del palmo e di qualche dito sudicio.
Christian non ebbe i riflessi pronti e se la lasciò sfuggire, mentre Alberto la picchiava per essere rincasata troppo tardi. Gli occhi chiari si arrossarono talmente tanto da rendere i capillari visibili a occhio nudo, navigando nelle ombre delle sue sclere lucide di lacrime salate.
Nello stesso frangente, avrebbe voluto prendere un coltello dal cassetto e trafiggergli il cuore, ripagare il favore delle lepri uccise il giorno prima. Una vendetta allettante, non se la sarebbe fatta scappare tanto facilmente, lo tentava come il diavolo, da fargli vacillare le mani e pizzicare i nervi.
«Come osi tornare a casa così tardi dopo la mia raccomandazione? Brutta figlia ingrata, sei la vergogna della mia vita!» gridò, biascicando parole pregne d'alcool e odio represso. Dentro di sé, non sopportava di avere una figlia cresciuta sbagliata, anonima. Si peritava di lei e di ciò che era diventata, una donna priva di emozioni, complicata, da non riuscire mai a capire cosa volesse veramente dal futuro.
Le graffiava la pelle, le stringeva i polsi, i capelli scuri si arruffavano sotto le grasse e callose mani artigliate sulla sua testa, mentre urlava parole indegne. Era la raffigurazione dell'odio, della rabbia frustrata; Matilde aveva sempre cercato di metterla a tacere, ma come una bomba tedesca era esplosa senza preavviso. Si era scaraventato su di essa, lacerandole la carne e l'anima, spilli pungenti si conficcarono all'interno dei muscoli. Un rivolo di sangue fece capolino sul labbro tagliato, causato dalla forza delle dita pesanti e dal tocco affilato dei denti.
«Mi dispiace! Mi dispiace!» ripeteva meccanicamente così tante volte, quasi a finirsi le corde vocali. Avrebbe continuato fin quando non avessero più avuto un senso, l'ugola rotta dal pianto e dal rimorso. Avrebbe voluto divertirsi almeno per un giorno, essere diversa e mostrarsi una ragazza normale con degli amici fidati, ma la vita non le aveva dato neanche una sfumatura di tutta la meravigliosa fantasia, rimasta incontaminata nella sua scatola cranica. Lei era destinata a qualcos'altro, non c'era via di scampo al fato e suo padre era solo l'inizio di una caduta verso l'oblio. A un tratto, Matilde ripensò al gioco dello Shangai: piccoli bastoncini colorati buttati su un tavolo di legno. Con mano ferma, dovevano essere presi uno a uno, facendo il minimo movimento brusco. Si sentiva come i sottili pezzi rimasti intrappolati sopra ad altri più semplici da raggiungere, non riuscivano a essere afferrati neanche con la concentrazione più assoluta, nemmeno le dita più esperte si sarebbero addentrate a prenderla per mano, troppo complicata per poter trovare una soluzione ingegnosa. Sarebbe crollata al solo respiro di troppo, di polmoni frementi e agitati. Alla fine, si concludeva sempre con uno sbadiglio annoiato, lasciare il gioco incompleto era la soluzione migliore; lo si rimetteva a posto nella propria scatola, appoggiata poi in un angolo e dimenticata.
In un istante, durato quanto un movimento lesto di una torre, mentre si apprestava a divorare un cavallo per essere sacrificato, in modo da proteggere la propria donna durante una partita a scacchi, Cristian si fiondò verso Matilde per mettere fine alle sue sofferenze. Era rimasto troppo tempo a guardare e nella sua mente si crearono milioni di situazioni in cui avrebbe voluto cavare gli occhi ad Alberto. La strattonò via, allontanandola da mani perfide, maligne, di un uomo completamente ubriaco fradicio. Il suo alito intriso di vomito e alcool si intromise prepotente nelle narici del ragazzo, da fargli storcere il volto in una smorfia di disgusto. Afferrò il corpo esile e impaurito di un animale ferito, la allontanò fino a portarla di corsa verso il piano di sopra.
«Dove vai! Vieni qui, stronza!» urlò gorgogliando la sua stessa bile rimasta tra l'esofago e la trachea. Perse il baricentro e cadde a terra come un maiale pronto per essere macellato, gridò il nome di sua figlia, ma lei era già dentro la sua camera chiusa a chiave.
Era rimasta aggrappata al corpo di Christian, con le unghie incastrate nella stoffa leggera da penetrargli addirittura la carne. I respiri affannosi di due anime si unirono a formare un vento leggero, smuovevano ciocche scure, prive di sfumature, in mezzo a una stanza illuminata solo dalla luce fredda della Luna. Volti marchiati di nero dalle ombre, contornati dalla fioca luminosità di un satellite muto, costernato da milioni di stelle splendenti, si cercavano per trovare un appiglio su cui aggrapparsi per non morire.
«È tutto finito, sei al sicuro adesso» sussurrò il giovane dai lineamenti sottili, mentre cercava di rassicurare un esile cerbiatto indifeso. Piangevano entrambi, urla silenziose, strozzate, rimaste intrappolate tra la gola e le corde vocali. Una mano affusolata accarezzò le guance in fiamme della ragazza, il palmo si inumidì di lacrime calde e salate.
Si erano rannicchiati nell'angolo tra la porta e l'inizio del capezzale del letto. Cercavano di scomparire nella notte, di perire nelle braccia di Morfeo, complici di una vita colma di tristezza e dolore. Si cullavano a vicenda, come una madre faceva col suo bambino dopo essere stato svegliato da un incubo, fino a farlo piangere di terrore sul suo morbido letto.
Tremavano come le foglie del noce fuori dall'abitazione, mosse dal vento fresco estivo durante una notte troppo oscura per essere ricordata. Avrebbero voluto andasse diversamente, poter ridere dei guai, dei loro ingenui capricci e addormentarsi uno di fianco all'altro, sentendo la pelle sudata dal caldo, dai i respiri dolci di un sonno privo di allucinazioni.
Invece, si erano nascosti agli occhi di tutti e del mondo stesso, rimanevano isolati da urla agghiaccianti, gutturali, da passi incerti e pesanti, mentre cocci rotti di bottiglie di birra si infrangevano sul piano inferiore di una casa, diventata trappola per topi.
Le grandi mani di Christian tapparono le orecchie piccole di Matilde, per non farle sentire un cane rabbioso, reso pazzo a causa di una serata andata male: aveva scommesso il suo violoncello a una partita a carte insieme al suo stipendio.
La minuta figura non voleva staccarsi dal petto ardente del ragazzo, l'unica protezione sicura per non annegare completamente nell'oscurità profonda. Piangeva, sussultava, provò addirittura a gridare, ma dalle sue labbra uscirono solo singhiozzi acuti da far straziare il cuore. Cercava aria, ma i suoi polmoni erano come paralizzati, strozzati nel suo stesso muco. Lacrime salate scivolavano lungo le sue guance accaldate, scottate da mani violente. Avevano inumidito la camicia di un'esistenza silenziosa, protettrice dei suoi sbagli, delle sue debolezze.
«Non abbandonarmi, ti prego» sibilò con la voce spezzata dal pianto, mentre un paio di occhiali scivolarono dal volto di Matilde, facendo un tonfo sordo sul parquet scheggiato.
«Non lo farei mai, Mat, neanche per tutto l'oro del mondo» sussurrò vicino al suo orecchio, sentendo lo spostamento d'aria tra le sue ciocche nere scompigliate.
«Anche se un giorno decidessi di ucciderlo?» domandò all'improvviso, occhi abbassati, dita magre tremanti e il caos dentro di lei, da divorargli muscoli cardiaci mischiati a pezzi rotti d'anima.
Seguì un lungo silenzio, non si aspettava una tale richiesta e ci mise del tempo per ingerire la pillola troppo amara, ma necessaria. Prese di forza il viso dell'amica tra le mani, portandoselo verso il suo; aveva paura quasi a toccarla, come se tutta la sua fragilità fosse venuta a galla all'improvviso, spezzarsi da un momento all'altro. Anche se era completamente buio, poteva notare lievi lineamenti marcati dal chiarore della Luna. Quattro occhi scuri come la pece, colmi di demoni interiori da renderli completamente folli, complici di un pensiero macabro, si scrutarono senza far caso alle loro gocce perlacee.
«Ucciderei per te, solo per vederti felice» sussurri dolci riempirono il cuore di Matilde e l'intera stanza di una promessa malsana. Stavano andando incontro a un buco nero pronto a distruggere anche il tempo.
«Promettimelo. Giurami che ci sarai sempre» ripeté più volte la supplica, afferrando i lacci della maglietta di Christian per tirarseli verso di sé: una fune con la quale poter risalire in superficie. Gambe lunghe e forti si intrecciarono in una vorticosa danza di rami d'edera, attorcigliati per vivere in simbiosi.
«Possa la mia anima bruciare all'inferno, se non volessi più restare per sempre con te» una fiamma interna incendiò i cuori di entrambi, subito dopo aver proferito frasi dal potente significato. Una marea di tremori pervasero le schiene di entrambi, respiri ansanti riempirono le quattro mura di echi strazianti. Quel vincolo detto ad alta voce divenne il loro segreto più profondo, solo i raggi lunari erano testimoni di tale abominio.
Due anime nate per soffrire in un mondo che non li voleva, si erano fatte forza a vicenda, come durante la cacciata dall'Eden.
I loro nasi si sfioravano appena, mentre i loro aliti si mischiavano in un vento caldo simile alle giornate estive: tocchi mancati di una stanchezza, in cui Matilde stava lentamente cedendo le sue membra spezzate. Scostò il volto facendo collidere una guancia con quella del ragazzo, le sue palpebre si fecero pesanti come macigni e si abbandonò in un sonno senza sogni, monotono, privo di ogni altro sentimento.
Christian, rimasto ormai solo, le appoggiò una mano sul capo e le lasciò un dolce bacio umido sulla tempia, prima di prenderla di peso per poggiarla delicatamente sul suo letto. Si tolse finalmente la camicia fradicia di lacrime, si asciugò le sue, rimaste incastrate nel ruvido della barba sottopelle e tra le ombre del collo lungo. Si osservò il petto magro, ricurvo verso l'interno e cercò di ritornare in sé dopo aver assistito a scene fuori dal normale. Si mise una canotta leggera e si coricò accanto al corpo dormiente di Matilde. La guardò a lungo come si faceva con un quadro impressionista, qualcosa dentro di lui stava cambiando. Dopo quella promessa, il suo cuore sentiva di appartenere ancora di più a lei, si percepiva perso senza la sua figura attorno e avrebbe fatto di tutto, pur di vivere ancora istanti felici in sua compagnia. Si sarebbe macchiato le mani di sangue pur di proteggerla, era sua e di nessun altro.
Intrecciarono i loro corpi e si abbandonarono tra i veli scuri di un buio profondo, pur sapendo che il giorno dopo sarebbe ritornato tutto come prima.
Così, tra i raggi caldi di un sole nascente, si ritrovarono entrambi a guardarsi uno nelle iridi dell'altra come facevano da piccoli, durante una notte tormentata da mostri. Il mare si era ricongiunto con la sabbia calda; era pronto a bagnarla di nuovo col suo moto ondoso, fatto di ritmi incalzanti di sguardi e carezze gentili.
Le pelli chiare cominciarono a riprendere vita dopo un sonno agitato, si ridestarono da un incubo troppo reale da aver lasciato lividi sulla carne lattea di Matilde. Segni violacei sui polsi e sulle gote, cercava di nasconderseli con le lenzuola, ma Christian era rimasto coinvolto in una battaglia impari di un padre maligno. Non poteva cancellare ricordi indelebili, scavati all'interno delle pieghe del cervello.
Sdraiati tra le candide coperte, si osservavano nelle sfumature della giornata in procinto di nascere. I canti dolci delle rondini, dei merli e della vita stessa iniziarono a riempire il silenzio di graziose melodie: cinguettii da far inebriare i timpani. L'aria fresca della sera diede spazio al caldo afoso del sole cocente e in poco tempo, i loro corpi si riempirono di un calore intenso, insopportabile, ma nessuno dei due aveva la minima idea di alzarsi dal materasso. Avrebbero voluto fermare il tempo, restare lì per sempre, dove tutto era immutato, uguale, fino al giorno del giudizio. Un angolo dimenticato dal paradiso dove poter albergare e marcire tra le braccia dell'altro.
Matilde si tirò su con i gomiti, si guardò attorno, mentre i suoi occhi si posavano sul suo vestito sgualcito, sui suoi ematomi da chiazzarle i polsi e i capillari rotti sotto la pelle violacea. Il corpo di Christian era poggiato delicatamente al suo, spostò il viso verso sinistra per poter osservare iridi colme di miele, rimaste ammaliate dai suoi atteggiamenti. Un sorriso gentile si increspò sulle labbra morbide del giovane, oscurate dalla sua stessa ombra.
«Alla fine sei rimasto» biascicò ancora mezza assonnata Matilde, mentre si proteggeva pupille imprigionate nell'ambra con il palmo della mano dagli insistenti raggi mattinieri, da farle stropicciare il naso e aggrottare le sopracciglia, formando solchi leggeri: sabbia smossa da impronte di bambini, durante una corsa in riva al mare. Il taglio sul labbro inferiore si era seccato, lasciando qualche bagliore fresco di sangue in procinto di pizzicarle l'epidermide. Sentiva il dolore bruciargli la carne morbida, ma provava a non pensarci in modo da non far uscire i ricordi, rinchiuderli per un istante dentro una cassaforte.
Annuì silenzioso, spostando qualche ciocca riccioluta sul cuscino stropicciato e macchiato dall'icore secco di una ferita da battaglia con i demoni.
«Dove sarei potuto andare altrimenti?» alzò le braccia per stiracchiarsi e far scrocchiare le ossa della schiena, martoriata dalle posizioni scomode assunte nella notte, per non disturbare i sogni della ragazza. Si mise supino e le sue pupille iniziarono a perdersi tra i movimenti ondosi dei capelli sottili e lisci come ragnatele, mentre la schiena si stagliava dritta davanti a sé, nascondendogli l'espressione anonima di muscoli, ai quali erano stati proibiti spasmi sinaptici al contatto con le emozioni.
«Mi dispiace» sussurrò, cercando di non entrare in contatto visivo con Christian, rimasto sdraiato dietro di lei. Con la coda dell'occhio poteva vedere il movimento del suo diaframma alzarsi e abbassarsi come onde oceaniche, mentre si preparavano a inghiottire navi e barche sfortunate. Atti involontari di palpebre pesanti la cullarono verso ricordi di una sera movimentata, milioni di volti osservati, sussurri, urla mischiate con l'odio, la paura e la violenza. In mezzo a tutto il caos, c'era qualcosa che avrebbe voluto ricordarsi, ma le stava sfuggendo come un palloncino rosso tra le mani sbadate di una bambina persa a guardare le nuvole nel cielo, scovando forme strane da farle somigliare a gatti e dragoni.
Una calda fronte si poggiò sulla spalla della ragazza, facendola sussultare. Tale contatto non se lo aspettava, sentire la pelle candida collidere con la sua era strano, come se qualcosa le bruciasse dall'interno. Una nube nera si diramò come inchiostro da solleticarle l'epidermide «Non ti devi scusare, ho solo fatto il mio dovere. Rifarei tutto da capo se ne avessi la possibilità» parole scottanti uscirono dalle labbra del ragazzo, da provocarle brividi silenziosi. L'abbracciò di scatto, attorcigliando le sue lunghe braccia magre e nervose tra i pezzi rotti di un'anima in procinto di scagliarsi a terra.
Matilde però non capiva cosa le stesse succedendo, la sua carne rispondeva ai comandi, ma le sensazioni erano completamente mescolate tra di loro. Labbra serrate, sguardo vuoto, mentre si abbandonava al calore corporeo di Christian alle sue spalle.
«Ti ho trattenuto anche troppo a lungo, tua madre penserà ti abbia rapito» ironizzò, era tornata la solita ragazzina impossibile da decifrare, come se tutto il frastuono della notte precedente fosse soltanto un orribile ricordo.
«Ti prego, perché me l'hai ricordata?» sbuffò stranito alzando gli occhi al cielo e mugolando tristemente. Si scostò da lei per rimettersi in piedi, sentì ogni cellula epiteliale raffreddarsi, svuotarsi di un contatto imperfetto. Teresa, sua madre, gli avrebbe fatto il terzo grado, non l'aveva nemmeno avvisata e si sarebbe sorbito una ramanzina pesante da parte sua. Soprattutto perché le aveva promesso di darle una mano con la panetteria e invece era rimasto lì con Matilde, a salvarla dai suoi diavoli.
Si spogliarono dei vecchi vestiti e si rimisero nuovi indumenti puliti. Il piccolo zaino in stoffa di Christian era sommerso da abiti pregni delle sue lacrime, si sentiva in colpa per averlo coinvolto in qualcosa più grande di lui. Quando erano piccoli cercava sempre di aiutarla, di accontentarla in qualsiasi pazzia. Si erano messi nei guai un sacco di volte, ma non fino ad assistere all'abominio umano, la seconda faccia della medaglia. Veniva sempre nascosta da sorrisi gentili, fedeli, ma mai sinceri. Non erano altro che bugie architettate alla perfezione per essere visti come personaggi astratti: si desiderava diventare come loro, seguirne le impronte, ma più si andava a fondo più ci si ritrovava impantanati in una melma divoratrice di corpi innocenti. Delle sanguisughe si arrampicavano sulle gambe da portarsi via anche la più semplice delle emozioni, fino a rimanerne soltanto ossa scomposte e muscoli atrofizzati. Gente del genere conduceva a una lenta morte, per poi dimenticare le sue vittime per sempre sotto metri di fango.
All'improvviso, una forte cuscinata dritta in faccia ridestò Matilde rimasta immobile a fissare un punto impreciso della sua camera, restando rinchiusa tra i suoi pensieri.
«Ma che diavolo...» si portò le mani al viso, per il dolore pungente al naso, sussultando energicamente «Perché lo hai fatto?» gli domandò, lamentandosi dell'innata reazione.
«Terra chiama Matilde, come si sta sulla Luna?» la prese in giro, facendole un sorrisetto scherzoso, divertito, per averla fatta spaventare.
«Maledetto, questa me la paghi!» alzò il tono della voce, dandogli un forte spintone. Attaccò il ragazzo con una frustata del suo vestito logoro, mentre una risata energica increspò la tranquillità della camera. Parò il colpo con la spalla, rannicchiandosi dietro il cuscino dove da un angolo uscivano piccole piume d'oca.
«Siamo in forma questa mattina, vediamo se riesci a resistere a questo» la sfidò e mentre si affrettava a parlare, si fiondò su di lei prendendola di peso, facendole il solletico ai lati della schiena, in un punto impreciso sotto le ascelle.
«No ti prego, smettila! Questo è barare!» cercò di proferire, mentre soffocava nella sua risata genuina, l'unico momento in cui Matilde era normale. Metteva un velo sottile sopra ogni sua paura, ogni suo pensiero, solo al tocco leggero di mani giocose, in modo da trovare una felicità persa in una esistenza malinconica. Le ricordavano momenti di gioia con sua madre, quando ancora non aveva perso la testa.
Stringeva i muscoli, si portava le braccia al petto per fermare dita curiose come coccinelle, pronte ad arrampicarsi sui sottili steli di un fiore al culmine del suo splendore. Denti bianchi e increspati da sfumature giallognole causato da sigarette fumate di nascosto, riempirono la stanza di un'atmosfera diversa dal solito. Era da anni che in quella casa non si sentivano voci ilari, da irrompere anche fuori dalla finestra. Si mischiavano col garrito delle rondini, con il frinire delle cicale svegliatesi da poco da una notte insonne rimaste a cantare sotto la luce tenue della Luna. Lascavano la natura impossessarsi di loro, diventando un tutt'uno con essa: mani trasformate in rami sottili, capelli in fronde scure di un bosco notturno e tronchi lunghi, contorti dal forte vento, si sfioravano in un continuo toccarsi di carni calde e di respiri gentili.
A causa della loro euforia, fecero cadere a terra tutte le foto scattate la sera della sagra medievale. Chistian scostò lo sguardo, mentre le vedeva precipitare velocemente, richiamate dalla gravità della Terra. Il loro punzecchiarsi a vicenda si interruppe non appena capirono il disastro sotto ai loro piedi: vestiti sgualciti, cartoncini in cui il tempo si era fermato, piccole piume morbide e lenzuola penzolanti in un letto sfatto.
«Merda, che casino» disse a denti stretti Matilde, mentre si scostava le braccia dell'amico rimasto immobile a guardare il caos, tra i raggi pungenti del sole e il pulviscolo frenetico, mosso dal loro continuo spostarsi da una parte all'altra come scimmie ammaestrate.
Si inginocchiarono per raccogliere le loro vite e nel vedere immagini rimaste immobili per sempre, si fermarono ad ammirare l'istante in cui si erano scattati due volti felici, dopo aver assistito alla sfuriata di un ragazzo alla quale non sapeva né perdere, né vincere.
«Questa foto, anche se un po' scura, mi piace tantissimo» proferì Christian avvicinandosi a gattoni verso di lei con molta calma, come se dovesse accarezzare un animale selvaggio.
Si girò a scrutare il viso del giovane, immergendosi nelle iridi azzurre: colore freddo da riscaldarle il cuore «Più tardi le metterò nel nostro album» fece un sorriso sghembo, impossibile da comprendere, ma a lui bastava anche un piccolo gesto per renderlo felice. Avrebbe voluto passare la sua esistenza a proteggerla in una teca di vetro, darle le cure migliori per vivere per sempre. Si era immaginato di essere all'interno della storia del Piccolo Principe in cui la sua rosa doveva essere nutrita con l'amore più puro. Amava leggerla tra gli scaffali pieni di libri della biblioteca del paese; ogni tanto si rifugiava lì quando Matilde aveva da fare col raccolto stagionale, dando una mano alle povere schiene di uomini troppo vecchi, stanchi per continuare ad arare, e a curare gli animali nella piccola stalla situata dietro la sua casa.
Improvvisamente, colpi forti alla porta destarono i loro animi rimasti bloccati in un sogno apparente, pensieri innocenti di giovani ancora acerbi della vita, ma veterani della sua malignità. Pugni forti, da far vibrare il pavimento, attaccarono la porta in legno dipinta di bianco della camera da letto di Matilde. Christian si girò velocemente a guardarla e notò i muscoli della sua mascella serrarsi così forte, da vedere le ossa appuntite fare pressione sulla sua pelle bianca colma di vene bluastre. Occhi ricolmi di miele, sbarrati come due fori di proiettile, si pietrificarono davanti al suono infernale di tocchi pesanti.
Si erano dimenticati per qualche minuto delle violenze del padre della sera prima, l'avevano lasciate da parte in un angolo remoto del loro cervello, ma sapevano che i demoni ritornavano sempre.
Dita affusolate si precipitarono a schiavare la serratura e appena Alberto sentì il suono metallico, non aspettò neanche un secondo ad aprire quattro assi di legno, da separarlo dalla figlia. Il ragazzo si prese una forte spallata dalla porta, causata dalla furia incontrollata di una bestia, e dovette indietreggiare, dolorante, verso Matilde in modo da farle da scudo umano. Si massaggiò la scapola pulsante, ma il suo sguardo severo non manifestò il patimento interno, al quale le sue cellule urlavano per esternare il male subìto.
L'uomo li osservò entrambi con gli occhi nascosti dalla barba incolta e dal grasso delle gote, un grugnito uscì dalle sue labbra screpolate «Tu, vattene via. Tornatene a casa» disse riferendosi alla figura alta e slanciata, da nascondere l'esile corpo martoriato della figlia «Tu invece vieni con me, mi servi per andare a caccia oggi» continuò severo, mentre smaltiva la sbornia tossendo e gracchiando, la voce impastata da un sonno allucinogeno.
«Ma...» provò a ribattere Matilde, non voleva andarci nel bosco; era così fitto da perderci la via di casa dopo nemmeno cinque minuti di camminata.
«Non voglio sentirti fiatare!» alzò il tono, mentre si portava un grosso indice sotto al naso, in modo da farle capire di restare in silenzio «E pulisciti quel sangue, non vedi che ti sta colando?» parlò per l'ultima volta, per poi sparire nell'oscurità della casa. Sentì i passi pesanti allontanarsi e i suoi polmoni ritornarono a riprendere aria, rimasti paralizzati alla vista di suo padre. Se avesse avuto un fucile a canne mozze, non avrebbe esitato neanche un minuto a premere il grilletto, in modo da fargli saltare il cervello tra le pareti bianche della casa. Riempirsi di icore carminico il viso, mentre l'adrenalina la faceva eccitare come un bambino davanti alle giostre, nello stesso istante in cui osservava gli occhi esplosi, fuori dalle orbite, del padre e la mascella rotta adagiata sul pavimento del corridoio, imbrattato di pozze rosse di un sangue malato.
Purtroppo, accadde solo nella sua mente, un angolo in cui viveva una Matilde all'interno di un secondo mondo parallelo, dove avrebbe esaudito i suoi più oscuri desideri.
«Tieni» le porse un fazzoletto, afferrato di fretta dalla borsa, mentre si cercava di pulire col dorso della mano il rivolo di sangue, da colargli fin sotto al mento «Usa questo, è più utile» ridacchiò, provando a farle passare la rabbia. La si sentiva gorgogliare all'interno delle sue arterie, urlava di voler uscire, ma la sua piccola parte di umanità rimasta non le permetteva di svuotare ogni suo piccolo segreto. Christian se la immaginava come una bomba già carica, alla quale sarebbe bastato solo una scintilla per farla esplodere e sterminare vite senza neanche un briciolo di compassione o rimorso. Aveva paura si potesse avverare, per questo la teneva sempre al suo fianco: doveva essere la sua ragione perduta, si era ripromesso di non lasciarla e la notte fu testimone delle sue parole dal sapore antico.
Matilde lo afferrò violentemente, da strappare quasi i lembi sottili della morbida carta e se la passò sul labbro per tamponare la ferita. Non sopportava essere trattata come una bambina, voleva essere lasciata sola con i suoi pensieri, mentre le sussurravano parole indecenti in mezzo a ricordi sbiaditi, mischiati tra di loro come la spuma delle onde del mare in tempesta.
«Vattene, prima che mio padre torni per darle di santa ragione anche a te» lo guardò severa, mentre sussurrava parole dure.
Gli si avvicinò con un ghigno compiaciuto stampato sulle labbra. Schiena incurvata per abbassarsi all'altezza della sua amica, visi vicini da sentire la poca distanza premere nel vuoto d'aria, due bicchieri di vetro incastrati l'uno nell'altro «Alberto deve temermi o la prossima volta condisco la sua fila di pane con la merda di cavallo» tornò a guardarla dall'alto al basso e un sorriso strozzato si protrasse per uscire dalle bocche dei ragazzi. Labbra serrate, increspate da lineamenti allungati e risate di sghignazzi silenziosi, occhi complici di dispetti bambineschi.
«Fammi preparare i fucili, prima che si spari un buco in testa» si allontanò da Christian per uscire dalla camera opprimente, claustrofobica, per dirigersi verso il corridoio e andare in soffitta.
«Non penso ti dispiaccia l'idea» si voltò di scatto, per vedere la schiena della giovane irrigidirsi tra il confine dell'uscio e il pavimento in marmo dell'androne. I piccoli piedi nudi della minuta figura femminile ebbero un fremito al tocco fresco col terreno, dita sottili si muovevano freneticamente per riscaldarsi. Occhi vuoti, ma pieni di immagini macabre si fermarono verso un punto indistinto, il fazzoletto stretto nel pugno della mano, le nocche bianche da intravedere le ossa. Aveva compreso un suo sentimento, un suo desiderio più buio e forse aver proferito parole isteriche la notte precedente l'aveva resa vulnerabile.
Quella promessa, però, li rese uniti più di quanto pensassero. C'era qualcosa di strano nella sua voce, nelle sue espressioni, sembrava quasi di vedere qualcun altro. Forse era soltanto la luce sfocata della luna, da alterare i lineamenti, distorcerle in forme allungate e affilate in modo da annegare nell'oscurità dei suoi occhi.
Si volse di poco per poter scrutare con la coda dell'occhio il busto del ragazzo, fermo in mezzo alla stanza «No, per niente».
Christian si mise in spalla lo zaino, la macchina fotografica dondolante sul collo e passò davanti a Matilde per precederla verso l'uscita: «Immaginavo...» sorrise beffardo «stai attenta, per qualsiasi cosa corri da me, va bene?» si girò, guardandola un'ultima volta sulla tromba delle scale da portarlo al piano di sotto della casa.
Annuì energicamente, i suoi capelli si mossero come rami di un salice piangente, scosso dal vento e dalla corrente del fiume, lentamente i due si separarono, provando un enorme vuoto in mezzo alle loro costole.
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