Capitolo 4.
Due occhi color del miele cominciarono a saettare da una parte e l'altra della piazza, da far girare la testa alla povera giovane rimasta sola.
Camminò lenta, si guardava intorno spaesata. Gli occhi delle persone la puntavano come milioni di canne di fucili pronti ad annientarla da un momento all'altro. Si sentiva come nel quadro del Goya, in trappola, con le mani alzate, dei proiettili in procinto di penetrarle la carne e gli organi, fino a far sgorgare sangue nelle strade.
Qualcuno però, accerchiato dalle ombre di figure ammassate, come animali al macello, cominciò a vagare e a nascondersi, in modo da non essere riconosciuto, identificato da sguardi vispi, in mezzo a centinaia di corpi.
Un cappello rosso da giullare, per coprire i capelli, si muoveva lento, sommesso, testa bassa e schiena incurvata in modo da passare inosservato. Si trovava dall'altra parte della piazza, ma quelle due anime, magneti in collisione col nucleo terrestre, si stavano involontariamente avvicinando, come se sapessero già a cosa andavano in contro. L'inizio di un Big Bang da far esplodere anche l'universo stesso.
I rumori dei campanelli del berretto riempirono il sottofondo, da superare addirittura il brusio delle voci. Parole ovattate e prive di senso, da far perdere battiti al cuore di Matilde a causa del suo sangue impazzito; sentirlo scorrere velocemente tra canali microscopici si rivelò una musica soave, in mezzo ai trilli di flauti, rumori di corde e di tasti fisarmonici. Si guardava intorno e non riusciva a comprendere da dove provenisse lo strano suono. Il respiro corto la istigò ad andare avanti, più lei avanzava più il menestrello dall'altra parte, ignaro di ciò che lo attendeva, camminava verso la sua direzione. Cercava di non farsi notare e poter passare l'ultima notte della sua vita come una persona normale.
La stoffa gli pizzicava le tempie e dei rivoli di sudore imperlarono zigomi pieni di efelidi. Avrebbe voluto togliersela, ma aveva paura della reazione della gente nel vedere fiamme demoniache da riconoscerlo subito come il figlio di un errore, di un tradimento. Ormai tutti sapevano, nulla poteva cambiare le cose.
La sua anima ebbe un sussulto, come se avesse la sensazione di un paio d'occhi fissi su di lui. Alzò di poco la testa, ma dalla sua posizione non riusciva a vedere nessuno. Forse era solo la sua malata immaginazione, ma improvvisamente dei piedi veloci lo travolsero all'improvviso, scaraventandolo quasi a terra.
«Guarda dove vai, maledetto!» urlò il ragazzo, in una frazione di secondo il viso cangiante di Samaele si scontrò con occhi chiari come il mare in primavera. Rimasero a guardarsi per qualche secondo interdetti, come se si fossero già visti, ma il giovane era di fretta e non aveva tempo di stare dietro a un idiota vestito da saltimbanco. Se ne andò, lasciandolo al suo destino, mentre apriva la porta della panetteria a qualche metro di distanza.
I polmoni del rosso, divoratori insaziabili di aria, andarono in iperventilazione, come se la paura di essere scoperto fosse più forte di qualsiasi altro demone.
Dall'altra parte della piazza, una Matilde spaesata si incamminava verso i tavoli adibiti al torneo di gioco da tavolo. Cercava un compromesso per togliersi la strana sensazione rimasta intrappolata nella sua mente e nelle sue arterie, in modo da non far trasparire la sua vulnerabilità o sarebbe stata sbranata dalla massa stessa.
Ritornò in sé, non appena sentì gli incoraggiamenti di un uomo vestito da mercante, per attirare più gente possibile a partecipare e sfidare i più astuti già in gara. L'espressione incerta di Matilde ritornò impassibile di colpo. Voleva assecondare la sua voglia di mettersi alla prova, osservare ogni mossa e se fosse stato necessario, avrebbe partecipato.
Non rifiutava mai una vittoria così facile da raggiungere. Tutti troppo boriosi di se stessi, non potevano competere con la furbizia di un cervello in costante movimento.
Consisteva nel battersi a uno scontro di menti con le carte napoletane, armi potenti per sfregiare corpi e distruggere armature, due a due si battevano come cavalieri valorosi. Una ricostruzione ingegnosa e divertente dei combattimenti per conquistare la gloria. In finale, invece, andavano i sei più impavidi a sfidarsi nel tiro con l'arco: chi faceva più punti vinceva il torneo di spade.
Guardava con attenzione maniacale chi aveva già avviato uno scontro corpo a corpo e si avvicinò in un banchetto dove un ragazzo dalla possente stazza, si dilettava a prendere in giro tutti coloro che volevano provare a batterlo. Delle voci iniziarono a scorrere come fiumi nelle orecchie della ragazza; bisbigliavano di essere davanti al giocatore più forte, ancora imbattuto. Aveva vinto per tre anni di seguito, diventato una firma di quel posto sperduto tra le colline e la vegetazione.
Matilde osservava le mosse, le carte giocate, ma nessuno aveva la strategia perfetta. Stava prendendo forma nella sua mente, piena di sinapsi in continuo brillamento, nascosta tra i folti capelli neri. Urla, schiamazzi e bestemmie si facevano largo nello spiazzo, mentre la gente rideva nel mettere alla gogna tutti i perdenti.
Il ragazzo dalle braccia forti aveva un sorriso sghembo, strafottente, gli piaceva creare difficoltà ai poveri malcapitati. Un giovane coraggioso, al contrario, stava provando con tutte le sue forze a fargli perdere punti e avvantaggiarsi, per non essere messo in ridicolo davanti a tutti.
Sul tavolo era rimato un asso di spade e un due di coppe, con la coda dell'occhio notò le tre carte del novellino: due fanti e un cinque di denari. Fece un passo avanti verso di lui, sorprendendo la calca, impazienti di ridicolizzarlo e bloccarlo in mezzo a due paletti di legno marcio.
«Tira il fante di spade!» gridò per farsi sentire, l'inesperto si girò e vedendola a qualche passo da loro si pietrificò. Ripeté la stessa frase un'altra volta e la faccia dura dell'avversario si scontrò con l'inespressività di Matilde.
Senza perdere tempo fece come le aveva suggerito, lo sfidante arraffò l'asso e il due con il tre di bastoni lasciando solo l'otto.
Il piccoletto esultò quando riuscì a rubargli un punto, prendendo l'ultima carta sul tavolo e metterla scoperta in mezzo al mazzo, come da regolamento.
«Questo non è giocare, hai barato e ti sei fatto aiutare da quella sgualdrina» sbraitò l'ammasso di muscoli e puntò il dito verso Matilde; nel sentire tali parole, le sue guance si colorarono di un rosso acceso.
«Invece di batterti con i ragazzini gioca con qualcuno adatto a te, qui stanno tutti urlando le tue valorose vittorie. Mostra loro cosa sai fare.» lo sfidò, come se non gliene importasse nulla di una stupida festa, di un torneo senza senso. Voleva vederlo perdere e sentire i lamenti di un orgoglio ferito, certi momenti riuscivano a eccitarla: facevano espellere il male più puro, rimasto assopito nel buio del suo cuore per troppo tempo.
«Non mi batto con le ragazzine viziate» grugnì, avvicinandosi a lei pericolosamente. L'odore dell'alcool si sentiva addirittura a pochi metri di distanza «Hai paura forse?» gli chiese, mentre il mendicante arrivava veloce per arrestare animi infuocati.
«Ragazzi! Vi vedo eccitati per questo gioco. Allora, visto che siamo in una giornata speciale e io sono un po' burlone, vi farò gareggiare, il primo che arriva a un punteggio di tre punti massimi, passa alla fase finale!» urlò contento, ballando sul posto come un sacco di patate e la gente lo acclamava, simile a un gregge di pecore.
«Ti faccio rimangiare le tue stesse parole» sibilò, una vipera pronta ad attaccare. Voleva romperle l'osso del collo, farle vedere chi comandava e forse si sarebbe divertito a fotterla dopo aver avuto la sua gloria.
Si misero seduti uno davanti all'altro, mischiarono le carte: tre a testa e quattro sul tavolo.
«Che vinca il migliore! Buona fortuna» ridacchiò contento per tutto il pubblico, rimasto scioccato dalla fierezza della donna e dalla sfrontatezza del ragazzo.
Gli occhi vitrei di Matilde si concentrarono; le sue dita leggere danzavano sopra il contorno delle Piacentine, si gustava ogni momento prima di attaccare come un lupo affamato. Prese carte, agguantò punti su punti senza lasciare nulla a chi gli stava davanti. Sette e re di denari erano la sua passione, si ritrovava a contare primiere perfette, riusciva a confonderlo in una maniera così semplice, da far azzittire anche il ragazzino rimasto a guardarli a bocca aperta. Non aveva strategia, lo aveva capito fin da subito, durante le prime mosse. Il successo era sempre dalla sua parte: vinceva in sole poche mosse perché gli altri erano poco attenti, pieni di debolezze. La fortuna era cieca, ma Matilde ci vedeva benissimo.
Il silenzio, creatosi all'improvviso in mezzo a loro, si poteva tagliare con un coltello. Il sudore dell'avversario colò lungo la faccia piena di grasso e siero, un maiale pronto per essere fritto. Avevano già giocato due partite ed entrambe erano state vinte da Matilde.
«Siamo già due a zero! Piccola, se vuoi fermarti qui ti do il permesso, sei stata una forza, non è vero, cari amici?!» si rivolse al pubblico in fermento e urlò le ultime frasi per creare l'eccitazione perfetta.
«No, voglio continuare» rispose seria al mendicante e un sorriso maligno cominciò a farsi strada nelle pieghe delle labbra rosee e gentili. Avrebbe fatto di tutto pur di vederlo sulla gogna, appeso come un salame a stagionare, mentre la sua ira veniva smorzata dagli sghignazzi della gente e dai tuorli d'uovo da colargli sul volto, simili a bave di lumaca.
Il perdente ringhiò di stizza, mentre imprecava verso di lei e verso Dio. Continuarono imperterriti e non appena arrivarono alla fine, la furia del ragazzo diventò insostenibile, scaraventò il tavolo a terra facendo un rumore assordante. La gente si spaventò, sussultarono all'unisono indietreggiando di poco per non essere coinvolti dalla follia di un uomo ubriaco.
In mezzo ai corpi tremanti, c'erano due occhi verdi intenti a sbirciare tutta la scena. Vide Michele imprecare così forte verso una ragazza da prenderla per il colletto del suo vestito e urlarle parole sconce «Strega maledetta! Come hai osato ingannarmi, sei la feccia dell'essere umano» la sua camicia di lino era pregna di birra, aveva rovesciato qualsiasi cosa gli capitasse a tiro e stava per sferrare un colpo sulla pelle candida della ragazza. In quel frangente Samaele rivide se stesso, mentre suo fratello si divertiva a lasciargli segni violacei sulle braccia e sulle spalle. Voleva intervenire, ma più la guardava, viso inclinato da un lato senza far trasparire emozioni, più le sue vene tremavano come corde di violino: un brivido freddo lungo tutta la spina dorsale. I suoi capelli scuri, le sue iridi impassibili e chiare come il miele, pelle candida di una neve acerba, caduta troppo presto dal cielo pieno di nuvole, erano la rappresentazione umana di una notte senza stelle in cui avrebbe voluto immergere la sua anima.
Le sue pupille si spalancarono, effetto allucinogeno di droghe pesanti, stava quasi per uscire fuori dalla marmaglia di gente impaurita, degenerava a vista d'occhio, ma due mani pronte a dividerli furono più leste del suo poco coraggio.
Riconobbe il ragazzo, occhi oceanici da poterci annegare tutte le paure e piume di corvo da abbellire il suo viso magro e spigoloso. Portò via la ragazza per mano e svanirono nell'oscurità, scemarono come la folla annoiata, privata del divertimento, da ritornarsene sui suoi passi. Le danze dovevano andare avanti e tutto sembrò aver ritrovato un equilibro, si era immaginato tutto?
Michele era andato a prendersi un boccale di birra, urlando di non voler mai più giocare, e senza farsi notare, sgattaiolò dietro il chiosco in legno dove la gente si fermava a guardare il panorama notturno dalla terrazza naturale, creata volontariamente per riposare le stanche membra. Il cielo era pieno di stelle e le luci della città invadevano il silenzio dell'universo sconosciuto.
Poco più avanti, Matilde cercava di riprendere il controllo di se stessa, diede uno spintone a Christian da farlo quasi sussultare.
«Dovevo ancora finire di giocare» lo rimproverò, il respiro corto per la lunga corsa rendeva la sua voce sofferente e a tratti singhiozzante. Il lampione illuminava di luce bianca la sua figura e oscurava l'espressione furiosa del viso. Vene in procinto di uscire dalla pelle, solchi profondi sulla fronte, sopracciglia folte aggrottate e gli occhiali scivolati fino a metà dorso del naso.
«Ti stava per picchiare davanti a tutti e tu ti preoccupi perché non hai finito il gioco? Ma ti senti quando parli?» alzò il tono della voce, avvicinandosi a lei per averla il più possibile accanto, promettendosi di non lasciarla mai più da sola.
La macchina fotografica, appesa al collo, dondolava avanti e indietro come un pendolo rotto. Non riuscì a guardarlo in faccia, aveva una rabbia in corpo tale da sentire il sangue ribollire in ogni cavità venerea, fino alla punta dei capillari «Non l'avrebbe fatto comunque» cercò di convincersi, sistemandosi le stanghette dorate ben salde dietro le orecchie.
«Lo sai almeno chi era quello?» le chiese stizzito, appoggiandosi alla ringhiera in pietra, da formare un balcone naturale, per osservare l'orizzonte fatto di minuscole luci, strade piene di auto e case silenziose, dietro le spalle di Christian. Solo allora, la ragazza riuscì a vedere il volto dispiaciuto, gli occhi semilucidi e il bagliore tenue della luna piena accarezzava i lineamenti affilati, simili a lame lucenti, da potersi far male al solo tocco di dita.
Scosse la testa senza proferire parola, non aveva la minima idea di chi fosse quell'armadio a quattro ante. Forse aveva davvero esagerato a prenderlo poco in considerazione «È il figlio maggiore del capo dove lavora tuo padre, macellerebbe anche un bambino quella bestia e tu ci sei andata contro come una stupida. Poteva veramente farti del male.» le parole gli morirono in gola, un singhiozzo sommesso e una lacrima leggera si posò su un suo zigomo. Le braccia tremolanti, tese lungo i fianchi con le nocche imbiancate da pugni di rabbia repressa, erano il segnale di un inizio di pianto.
Matilde si avvicinò cauta, rugiada irresistibile da non poter farne a meno di ammirarla, passione maniacale per delle gocce d'acqua da renderla inerme «Chri, ma tu stai...» non riuscì a terminare la frase; venne presa per le spalle, in modo da assottigliare le distanze, e due braccia lunghe si attorcigliarono sul suo corpo: tocco leggero di due spoglie mortali simili, da creare una congiunzione perfetta. Potevano scomparire così, uno intrecciato all'altra come due rami mischiatisi tra di loro, sopravvivere insieme e condividere linfa nutriente in modo da non morire mai.
«Non avrei dovuto lasciarti sola, sono stato uno stupido» sussurrò, immergendo le labbra umide tra le ciocche scure, lisce, di un morbido manto corvino. Avrebbe voluto annegarci ogni lacrima, ogni dolore, insieme a lei si sentiva completo, non poteva abbandonarla e quell'errore gli costò caro.
Piangeva per Matilde, per non essere stato un buon amico, per averla lasciata in mezzo alla folla, in balia di una vita insensibile davanti ad anime come le loro. Se avesse potuto tornare indietro si sarebbe sacrificato lui, solo per non vederla essere presa come un sacco di farina, un fenomeno da baraccone. Anche se il corpo caldo ancorato al suo petto era difettoso, malato e sadico si sarebbe preso cura di una creatura indifesa. Erano nati e cresciuti isolati nel silenzio fatto solo di sguardi, di sfumature leggere di dita morbide. Si erano giurati di rimanere insieme, sempre, in qualsiasi situazione.
«Ora è tutto finito, non pensiamoci più» sussurrò mesta, aveva capito i suoi errori, ma non voleva alterare la magia imperfetta di lacrime salate irresistibili. Si scostò leggermente per guardarle scorrere, toccò con i polpastrelli l'umidità lasciata sulla pelle fredda e un brivido invase i corpi dei ragazzi, immersi nell'oscurità di un viale poco illuminato con gli schiamazzi ovattati della fiera dietro le loro spalle.
Ignari di cosa si nascondesse tra i tronchi degli alberi, i suoi passi vennero smorzati, ovattati, dal fruscio delle fronde, mosse dal vento fresco della notte e dal frinire dei grilli.
Il cappello da giullare in una mano e i capelli rossi come un incendio si muovevano leggiadri da sentire quasi lo scoppiettare del legno tra le fiamme. Le lentiggini sotto la luce della luna sembravano piccoli buchi neri, in cui annegarci l'intera esistenza, insieme a due occhi di un colore indefinito, i quali non riuscivano a staccarsi di dosso l'immagine di una graziosa ragazza. Per una frazione di secondo, un piccolo sorriso si disegnò sul volto di Samaele. Avrebbe pagato oro per avere qualcuno con cui potersi sentire normale. Tutti lo additavano come un mostro, ma sapeva dentro di sé che si sbagliavano di grosso. Non era stata sua la scelta di nascere, ma da lì a poco avrebbe terminato tutte le sue pene, riportato l'ordine nel caos diventato opprimente per un'anima ormai dimenticata.
«Non lasciarmi mai più, intesi?» domandò Matilde, aggrappando le dita tra le ciocche scure di Christian, zampe di un ragno albino dove per nido si era costruito una tana nell'oscurità della notte.
«Promesso, non commetterò lo stesso errore un'altra volta» gli rispose con una dolcezza infinita nella voce.
«Dai, facciamoci una foto così la mettiamo nell'album che ho a casa» propose la ragazza, mentre si scostava dal petto accogliente e accaldato dell'amico. La vecchia polaroid, rimasta in mezzo a loro tutto il tempo, venne finalmete utilizzata. Rigirò l'obiettivo e un flash fortissimo illuminò volti leggermente assonnati, ma felici di aver combinato l'ennesimo guaio.
Da sopra la vecchia macchina fotografica uscì un cartoncino bianco lucido, nascondeva un istante rubato allo sfuggevole e avido tempo, in cui ogni cosa mutava: un universo infinitesimale tra un secondo e l'altro.
Samaele, da dietro gli alberi, guardava le due figure godersi la vita, troppo spensierati per poterlo notare da una distanza poco ravvicinata. Vide il lampo artificiale dell'oggetto tra le mani del ragazzo e per non venire scoperto, si accucciò per coprire la sua esistenza. Un bruciore al petto gli esplose all'improvviso, come se si stesse lentamente sgretolando, una fiamma di un camino in procinto di spegnersi per sempre. Delle lacrime perlacee gli rigarono gli zigomi, le guance, fino a mischiarsi con la pelle macchiata di rimpianti. Non avrebbe mai avuto quel contatto, nessuno si sarebbe mai accorto di lui, abituato a starsene da solo in mezzo ai campi, a respirare la libertà, e a sdraiarsi sul terreno durante i giorni di pioggia, pensando di poter sciogliere ogni suo tormento, fin quando anche l'ultima goccia non fosse caduta al suolo.
Sopracciglia strizzate verso il centro, sospiri strozzati per non farsi sentire, occhi gonfi pieni di capillari da mischiarsi col miele e le foglie estive delle sue iridi. Si portò le mani tra i capelli, una macchia di sangue che si espandeva come una malattia. Ammalava il cuore e si insediava dentro i muscoli da mangiarli avidamente, lasciando solo pezzi sparsi, volteggiando senza gravità all'interno di un infinito senza stelle né galassie.
Tremava come un bambino, si era perso, non riusciva più a trovare la strada di casa. L'unica sua possibilità era disperarsi, seduto dietro dei grovigli erbosi ad aspettare la morte, avvolgendolo nel nero perenne da diventare la sua nuova dimora.
«Che cosa vuoi fare? Andiamo da tuo padre? A quest'ora credo che il concerto sia già finito» domandò il ragazzo improvvisamente, da ridestarlo dai suoi pensieri sconnessi. Si sporse di poco per spiarli ancora una volta «Non aveva detto la tua amica del ballo delle streghe?» domandò l'altra con lo sguardo sempre vuoto, un orizzonte immaginario verso qualcosa di invisibile, nascosto dietro a fuscelli e alberi mansueti. Non riusciva a comprenderlo, ma il suo viso non gli si staccava di dosso. Si era impresso come inchiostro indelebile sulla carta di una pagina non ancora usata.
«Mat, per piacere lo sai che non mi piacciono certe cose e poi sono sicuro ti annoierai.» cercò di convincerla il moro, ma senza successo.
«Cosa potrà mai succedere? È solo una rappresentazione storica, non ci mangeranno mica» rispose, con un leggero sorriso ironico sul volto. Lo prese per mano e lo intimò a venire con lei, spingendolo a camminare. Christian sospirò annoiato, si scostò dalla ringhiera e la seguì ciondolante come se fosse la sua stessa ombra.
«Ma è quasi mezzanotte, devo riportarti a casa» proferì scocciato, non voleva assolutamente andarci. La paura iniziava a pizzicargli i nervi come corde di un'arpa.
«Non si arrabbierà se faremo qualche minuto di ritardo, mi prenderò io la colpa» presero a camminare veloci e si persero di nuovo tra la folla.
Samaele rimase per alcuni minuti indeciso se seguirli o lasciar perdere, ma l'idea di osservare qualcosa di diverso dal solito lo ammaliava, catturando completamente la sua attenzione. Non avrebbe voluto tornare a casa, quindi si rimise il berretto, sistemò per bene i ciuffi ribelli sotto di esso e seguì i loro passi verso la parte esterna della chiesa, strade deserte dove poter vedere dall'alto tutta la piazza senza essere notato da figure indiscrete.
Un giardino abbandonato si intravide dopo aver girato alcuni angoli di vie poco illuminate, silenziose come un cimitero a mezzanotte, dove nessuno avrebbe mai messo piede di sua spontanea volontà. Si credeva fosse l'antica necropoli medievale, dove erano seppelliti i monaci del vicino monastero abbandonato, situato nella collina adiacente.
Appena Christian e Matilde scesero la ripida rampa fatta di sampietrini scivolosi ricoperti da muschio, la strada si spianò di colpo e i loro vecchi mocassini di tela si immersero nella vegetazione, da solleticare le caviglie scoperte.
Una musica soave di un flauto traverso in legno cantava lento note ammaliatrici, lunghe, cadenzate e cupe mischiati ad acuti sporchi, legnosi. Vibrati oscuri, accompagnati da mugugni profondi in sottofondo da donne con lunghe vesta bianche, leggermente trasparenti. Accerchiavano un rogo vivo, da vedere le fiamme dimenarsi nell'aria e rilasciare particelle lucenti, simili a piccole lucciole.
L'atmosfera era inquietante, Matilde rimase a guardare immobile le ragazze dai lunghi capelli scuri, biondi e marroncini, ma in presenza del fuoco sembrava donare loro milioni di sfumature rossastre. Lo strano colore riempiva iridi ambrate e disegnava fulmini contorti dentro le sue pupille. Cercò di avvicinarsi e poter trovare un'angolazione visiva senza essere disturbata dalle schiene ingombranti della gente, accalcatesi a guardare scene di un'antica meraviglia.
In mezzo alle dodici ragazze notò Marie Sophie, viso rivolto verso il basso, occhi chiusi e il capo contornato da una corona di spine. Allo stesso modo erano le altre, si tenevano per mano, mentre aghi legnosi perforavano le loro teste.
Cominciarono a dondolare, leggere come la musica vibrante in sottofondo e si mossero in cerchio cantando una litania da vocali allungate, parole incomprensibili alle quali solo loro potevano comprenderne il significato. Latino volgare, mischiato a dialetti perduti riempivano l'aria di una tensione tagliente.
Circolavano serafiche tra le fiamme, non avevano paura di nulla. I loro corpi sembravano essersi uniti all'incendio infernale. Godevano del suo calore costante e risate maligne, a tratti acute, fecero sussultare tutti i presenti.
Si toccavano a vicenda, leccavano guance, lingue affilate come rasoi, ammaliavano uomini con solo un incrocio di sguardi, sirene e arpie al tempo stesso. La sottile stoffa accarezzava silenziosa le loro curve piene, seni e capezzoli ondeggiavano all'interno di sete trasparenti, nudità nascosta sotto uno strato perlaceo: perversione malata, da riscaldare il sangue. Bollivano vene e scottavano muscoli da lasciare abrasioni sulla pelle.
La musica si faceva sempre più intensa, l'inizio di un crescendo al quale Matilde non riusciva a resistere. Christian era completamente perso, restava dietro la figura minuta della sua amica per trovare conforto, quietava la paura in modo da non impossessarsi completamente di lui. Appoggiò due grandi mani sulle spalle minute, premeva con i polpastrelli sulle clavicole e un brivido caldo pervase la ragazza fino a farla sussultare. Allungò il collo, per assaporare il tocco gentile, infuocato, sulla pelle e sul suo vestito, ma le sue iridi melliflue non riuscivano a staccarsi da quel rito satanico.
Urlavano, gemevano, mentre saltavano piene di gioia vicine al supplizio del fuoco come fiammelle vive di candele mai spente. I loro movimenti si fecero più scattosi, braccia verso l'alto per poi scendere giù veloci e assumere posizioni contorte, disumane. Era quello il momento dell'apice, demoni e diavoli erano stati invocati. Avrebbero avuto il loro momento di piacere e assaporato morbide carni, banchetto perfetto per un Lucifero affamato.
Fu così che lo vide, nascosto tra la folla, due occhi cangianti che la osservavano curiosi. Si perdeva tra il movimento incontrollato del falò, delle ombre allungate, appuntite, delle ragazze diventate il pasto principale di un cerimoniale maligno. Si era presentato così, mentre i sonagli del berretto scintillavano boriosi tra i vestiti pomposi di dame e cavalieri.
Le pupille di Matilde si dilatarono così velocemente, da vedere contorni sfuocati, sgranati. Accecate dalla brace, dal peccato e dal sangue malato di due esseri pronti a far esplodere la terra stessa.
Lo spettacolo si concluse con un urlo gemente di dodici donne sdraiate prone a baciare l'erba con le braccia allungate da formare croci umane, frati penitenti di peccati lussuriosi, tutte quante rivolte verso il fuoco il quale si animò a causa del loro spostamento d'aria, da alimentarlo verso l'alto.
Una vampata di calore imperlò le gote di Matilde, le labbra semichiuse per far uscire l'alito accumulatosi all'interno dei suoi polmoni. Si librò nel vento, mentre un calore vicino al cuore esplose di un'intensità tale da raggiungergli ogni centimetro del ventre. In un battito di ciglia, lo sguardo di un essere inumano sparì nel nulla. La ragazza lo cercava, guardava a destra e a sinistra, ma della strana figura non ce n'era neanche l'ombra. Qualcosa l'aveva attratta, un'ape col suo miele, come se avesse visto il mefistofelico in persona e il suo animo si fosse disperatamente perso in mezzo a un inferno piacevole.
«Dai, andiamocene via. Non c'è più niente da vedere» la voce roca di Christian le solleticò l'orecchio, da riportarla di nuovo tra i vivi. Si girò verso di lui per guardarlo dritto negli occhi e tutte le ansie createsi dentro i loro animi si spensero lentamente.
Annuì e dopo essersi aggrappati l'uno all'altra, intrecciando le proprie braccia a formare un nodo, si incamminarono verso casa nel buio della notte, mentre nelle pupille di Matilde c'erano ancora iridi appariscenti che giocavano a nascondino con il fuoco.
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