Capitolo 28.
"La verità non esiste e la vita come la immaginiamo di solito è una rete arbitraria e artificiale di illusioni da cui ci lasciamo circondare."
- Lettere dall'altrove, H. P. Lovecraft
⚠️ Attenzione, scene esplicite! ⚠️
Tremava per il freddo, le labbra erano un continuo spasmo, i capelli umidi si erano appiccicati alle tempie a causa della lunga e asfissiante corsa. Gli occhi di Matilde osservavano il vuoto, erano fissi in un punto indistinto a ripercorrere gli ultimi macabri istanti della sua vita. I polmoni chiedevano pietà per essere lasciati in pace, sembravano incapaci di calmarsi, di riprendere un normale ritmo: un'orchestra scordata in un teatro vuoto. Si era rannicchiata in un angolo della stanzetta antecedente alla cella frigorifera dell'allevamento. Era sola, il silenzio era straziante e il brusio degli animali poco lontani faceva da sottofondo. I maiali erano nervosi, sentivano già che qualcosa non andava.
Matilde non aveva più un padre, vederlo bruciare vivo era l'ultimo ricordo. Lo sparo del fucile si insinuava nel suo cervello a ripetizione, come se fosse lei la vera colpevole di tutto quel caos. Si era macchiata le mani di sangue e non aveva sentito alcun rimorso, ma non appena Christian si era sacrificato tra le fiamme, tutto divenne buio. I colori si erano spenti e il cielo non aveva più le stesse sfumature accese.
Il tramonto si affacciava alla finestra dai vetri offuscati di pareti sporche e piene di muffa. Il blu colorava ogni superficie di cupi contrasti, la pelle stessa di Matilde si impregnava di quella sostanza simile ai lapislazzuli. Il crepuscolo portava con sé il buio della notte, le luci artificiali si facevano più intense e coprivano la magia di tempere che si mischiavano tra loro, formando quadri di impressionisti affascinati dalla natura.
Le sclere di Matilde erano un labirinto di capillari infiammati, lacrime salate scendevano copiose lungo le guance morbide. Ripensava ad Alberto, ai suoi passi pesanti, al modo con cui scuoiava gli animali appena cacciati e al dolce suono del violoncello. La mancanza era straziante, un dolore sordo al petto. Dopo anni rimasta in una bolla di cristallo, i vetri si erano frantumati e le emozioni sgorgavano fuori a cascata. Erano inarrestabili, pesavano più del suo corpo. Sembravano macigni attaccati alle caviglie, portavano l'anima verso un baratro senza fondo e si annegava in un oceano di rimpianti.
Matilde provava a rialzarsi, ma il suo corpo cedeva a ogni tentativo. Si sentiva impotente, la testa le vorticava e non poteva affrontare il suo passato in quelle condizioni.
La vita le aveva tolto ogni cosa, forse in quel momento suo padre era con Liliana. "Chissà se si sono riconosciuti dopo tutto questo tempo." Pensava, ricordava e non poteva più sopportare una così bestiale verità. Rivivere momenti dimenticati era più straziante di qualsiasi frustata alla schiena, degli schiaffi sul volto e della solitudine stessa.
I pensieri ritornavano come scatti di fotografie, uno dopo l'altro ricostruivano istanti perduti. Le giornate di sole in compagnia di Liliana, il suo volto gentile e sempre sorridente, le corse nei campi ad aiutare i contadini, le lunghe partite a scacchi, gli abbracci di Christian erano diventati coltellate al cuore. Come un fulmine a ciel sereno arrivò nella mente il fatidico giorno.
«Basta, ti prego, non adesso» disse a se stessa, come se volesse cercare di ritrovare il controllo. Si portò le mani sulla testa, le unghie penetravano nella pelle e le ciocche venivano tirate per distrarre il cervello verso qualcos'altro, portare il dolore a un livello più sopportabile, ma niente sembrava fermare quel fiume impetuoso.
Appoggiò la schiena contro il muro, mugugnò per lo strazio, singhiozzò senza controllo. La testa esplodeva come fuochi d'artificio di materia grigia.
Il cesto pieno di margherite di Liliana era la prima scena a riprendere vita nell'oscurità delle sue pupille. Le urla di Christian la incitavano a inseguirlo, il sole cocente riscaldava le loro carni giovani: si imprimevano come marchi a fuoco.
Arrivò poi lo sparo, il rumore assordante faceva fischiare le orecchie. Il fucile in mano a una donna dal volto privo di emozioni, i suoi figli ad assistere all'orrore di atti violenti.
«No, smettila! Smettila subito!» urlò Matilde, aggrappandosi allo spigolo di un tavolo in legno, pieno di schegge e graffi. Delirava per le sue azioni e per essere stata assente, incosciente per quasi sette anni. Viveva senza più uno scopo, cercava negli scacchi una strategia per tornare a essere quella di un tempo, ma non aveva pensato agli effetti collaterali, alla follia di pensieri immondi.
Si era persa in un mare di vuoto, la solitudine l'aveva accolta nel suo regno e aveva provato a farle vivere un'esistenza fatta di illusioni, in cui tutto sarebbe andato per il meglio: avrebbe avuto la sua rivincita per i soprusi e le violenze subite. Alberto era morto, ma cosa le era rimasto? Nient'altro che un mucchio di cenere.
Non sarebbe mai più ritornata indietro, Christian non c'era più e nessuno l'avrebbe salvata dai suoi demoni. Le anime dimenticate non riuscivano a stare separate, si sarebbero rincorse per l'eternità e cercate in ogni secolo. Era la loro maledizione, piangere i loro peccati senza mai trovare pace: un inferno procrastinatosi oltre il giorno del giudizio.
Alla fine, urlò di disperazione, gli occhi serrati, copiosi di lacrime e la bocca spalancata, umida di troppa saliva e muco erano la raffigurazione dell'orrore, del castigo impresso nei lineamenti delicati: un quadro di un macabro pittore in cui il dolore era stato catturato in tutte le sue sfumature. Si poteva percepire un senso di nausea e angoscia soltanto guardandolo.
Le grida erano strazianti, spaventavano i maiali e facevano tremare le quattro mura intorno a lei. Liliana non sarebbe mai venuta a salvarla, sua madre era solo cibo per vermi e lo sarebbe stata anche lei molto presto se avesse continuato a ricordare.
Ogni speranza era andata perduta, ma al tempo stesso non voleva arrendersi. L'esistenza si era presa gioco di Matilde e avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non far vincere l'avversario.
Si alzò di scatto e per far cessare i sibili mefistofelici sbatté la testa sul vetro ripetutamente, si sentivano gli scricchiolii della finestrella. Si feriva, sanguinava, annebbiava il cervello di percosse.
«Ritorna in te, cazzo!» sbraitò un'ultima volta finché non si fermò di colpo. Il silenzio ritornò a farsi sentire, le orecchie fischiavano e la fronte imperlata di sudore e sangue pulsava più veloce del cuore stesso. Rimase a osservare le crepe, simili a fulmini in una tempesta autunnale. Restavano immobili a diramarsi come vene e nervi, i suoi incubi erano cessati e il suo sguardo perso nel vuoto era la prova di essere tornata nel mondo reale, ma con la consapevolezza di aver trovato la verità alle sue continue richieste di concrete risposte. Quel giorno d'agosto rimase per sempre impresso nella sua mente e non sarebbe mai più uscito dal suo cervello.
D'un tratto, un rumore di motori si sentì rombare in lontananza, Matilde si accucciò di nuovo e non appena la macchina si arrestò, divenne spettatrice di atroci sofferenze.
«Ti farò vedere io, cosa significa il vero dolore» ringhiò l'uomo dalla corporatura possente, come se la schiena avesse più muscoli del normale.
Dal portabagagli prese come un sacco di patate un magro e gracile corpo privo di coscienza. Matilde sbirciò dalla finestra che dava fuori l'allevamento, c'era una crepa in basso a sinistra e spiò come in preda a una voglia di sapere, conoscere chi si celasse dall'altra parte. Quel vizio non era riuscito a toglierlo nemmeno suo padre, nascondendo di continuo il binocolo.
Vide Samaele aggrappato al fratello, non era cosciente, i suoi occhi erano chiusi da palpebre macchiate di efelidi. Qualcosa non andava, Michele era in preda a una furia incontrollata e da lì a poco avrebbe fatto fuori la sua unica ragione di salvezza, la vendetta perfetta per porre fine a tutto quel caos.
Non appena Michele fu di spalle, Matilde aprì la porta della stanza, portandosi con sé una specie di pistola con dei chiodi all'interno. Forse era rimasta incustodita, una svista di Matteo o di suo padre prima di morire. Era stata appoggiata sul tavolo pieno di sangue rappreso e schegge taglienti. Non avrebbe mai permesso a nessuno di uccidere il suo dolce e triste Lucifero.
Samaele era a terra inerme, il volto sereno intriso di terra e fango era in contrasto con tutto ciò che stava succedendo. Era pronto a morire, non voleva più esistere in un mondo distrutto dalla mostruosità umana, dalle lingue biforcute di gente senza alcuna dignità. Si preferiva far del male, uccidere con le parole le anime indifese e quelle quattro ossa rossicce ne avevano abbastanza di vivere.
«Avevo promesso di non ucciderti, sarebbe stata la vita stessa a rovinarti l'esistenza, ma ho compreso che il male bisogna eliminarlo dalla radice e tu sei la causa di tutto». Calpestò il petto del fratello minore con una tale foga da farlo sussultare dal suo stato catatonico. «Non me ne frega niente se nostro padre non ha mai avuto il fegato di dire le cose come stavano, non ero nemmeno suo figlio. In compenso, non ho nessun rimorso delle mie azioni, perché uno come te, mio caro Malpelo, e tutti questi animali qui intorno, alla gente non è mai fregato niente».
Dalla tasca posteriore dei jeans estrasse un'arma simile a quella che aveva tra le mani Matilde e la puntò dritta al volto di Samaele. La caricò con uno scatto inquietante simile al movimento metallico della sicura. Fece profondi respiri, prima di mettere il dito sul grilletto. «Pagheremo tutti per i nostri peccati» sussurrò.
Non fece in tempo a far scattare il chiodo all'interno del cranio di Samaele che un dolore lancinante dietro la schiena si protrasse in tutto il corpo. Matilde aveva sparato per prima, come aveva fatto con Alberto per porre fine alle sue sofferenze, in quel momento si era ritrovata nella stessa situazione di salvare un'anima dalla propria sofferenza, dal veleno che corrodeva gli organi.
Michele si girò di scatto, mentre si accasciava a terra in preda a dolori lancinanti, i nervi gli vibravano, si spezzavano a ogni movimento. Le vertebre scricchiolarono e delle dense macchie vermiglie imbrattarono la camicia sudicia. Si espandevano in ramificazioni simili a fulmini in una notte tempestosa.
Vide negli occhi la sua carnefice, si perse in un oceano di ambra. Venne inglobato come un insetto all'interno di quel siero vischioso. La guardò spaventato, come se tutta la sua forza fosse svanita in un attimo e fosse ritornato bambino per pochi, ultimi istanti. Samaele riaprì gli occhi in quell'esatto momento e osservò la scena con la vista sfuocata, non comprendeva cosa stesse succedendo, era tutto senza una vera e propria logica. Non riusciva a capire per quale motivo Matilde fosse lì con loro, ma ciò che lo fece rinsavire fu la pozza di sangue uscire dietro le spalle di Michele.
«Prova ancora a fargli del male o giuro che ti pianto uno di questi chiodi in fronte» sospirò forte per la troppa adrenalina in circolo. Si perse in una stanza affollata di emozioni, non riusciva a controllarle, si erano impossessate del suo corpo e non volevano più andarsene.
Michele rise di gusto, il pomo d'Adamo si alzava e si abbassava a ogni sghignazzo gutturale. Non riusciva ad alzarsi, il dolore alla schiena era lancinante e le gambe erano colme di formicolii insistenti.
«Piccola bastarda, alla fine arrivi sempre nei momenti sbagliati. Proprio come Alberto, quando mi ha fermato dal piantare uno di quei chiodi nel cranio di mio fratello». Sogghignò, vedendo le sclere di Matilde colorarsi di sfumature rossastre a causa di un ricordo troppo doloroso.
«Levati da quella sudicia bocca il nome di mio padre, la tua famiglia ha rovinato la nostra» disse rabbiosa, cercando di avvicinarsi a Samaele e proteggerlo con il suo corpo come uno scudo.
«Da che pulpito!» sbraitò divertito. «Tu non hai idea di chi era Alberto, avrai visto la parte peggiore, ma non sai che a distruggere la tua vita è stato solo lui. La colpa la devi solo al tuo caro babbo» sputò senza alcun rimorso.
«Era violento, mia madre ha sofferto in silenzio per anni, non si degnava neanche più di stare con lei negli ultimi suoi giorni di vita e tu me l'hai portata via» rispose in preda a una crisi isterica. Le mani le tremavano e gli occhi sbarrati erano colmi di istanti rimasti al buio per anni nelle pieghe del suo cervello, come se qualcuno avesse acceso la lampadina e l'avesse lasciata illuminare ogni anfratto oscuro per sempre.
«Dopotutto non siamo così diversi, combattiamo per una causa comune, ma in differenti punti di vista. Siamo malati entrambi e questo lo devi solo al seme rancido di tuo padre» ringhiò, vomitando fuori la verità.
«Che cosa hai detto?» sussurrò sbigottita.
«Mi hai sentito bene, tuo padre era violento con te perché le ricordavi sua moglie, una donna che non voleva nella sua vita. Ci ha creati disturbati, senza uno scopo nella vita e ci ha resi vendicativi, affamati di sapere, ubriachi di gloria» tossì grumi di sangue, i polmoni non ne potevano più di far entrare e uscire aria, si stavano riempiendo di liquido scarlatto.
«Non sarai mai mio fratello, non provare a paragonarti a me. Sei solo un essere pieno di boria, ma che in fondo cerca solo di uscire fuori dalla massa con il dolore altrui. Mi fai schifo».
Provò a premere il grilletto, ma non uscì nulla, la pistola si era inceppata e non sapeva come farla funzionare, era diversa dal solito fucile da caccia. Osservò Michele farsi beffe di lei, facendola sentire una stupida, un'incapace, proprio come faceva suo padre a ogni minimo sbaglio.
D'un tratto una folata di vento la travolse da dietro le spalle e la figura di Samaele sbucò dall'ombra, scaraventandola via. Il giovane si avventò su Michele con una tale violenza da far tremare le ossa. Aveva trovato un martello nelle vicinanze e tra le sue mani affusolate era un'arma colma di rimorsi. Gli occhi gonfi di vuoto e rabbia erano puntati su quelli scuri del fratello maggiore, il viso aveva i muscoli tirati come corde di violino e l'adrenalina aveva reso le guance più rosse di una pesca matura.
Il tempo si fermò, gli animali rimasero in trance, in una specie di silenzio innaturale. Erano testimoni di una vendetta rimuginata per millenni: l'angelo ribelle aveva avuto la meglio su suo fratello e su suo padre. Dio era morto e con lui anche il castigo eterno. Era libero da ogni sua conseguenza.
Colpi potenti sferzavano l'aria, colpivano con violenza il volto di Michele. Spaccavano ossa, frantumavano il cranio in milioni di pezzi; schizzi di sangue volavano su volti candidi, si mischiavano a efelidi e ricci scarlatti. Matilde osservò sbigottita tutta quella potenza nascosta in pochi muscoli, il suo vestito venne imbrattato di gocce scarlatte, come se la pioggia avesse deciso di annunciare il giorno del giudizio e il paradiso avesse suonato per l'ultima volta corni dorati, tra nuvole intrise di liquido cremisi.
L'inferno era sempre stato sotto ai loro occhi, l'essere umano stesso era la rappresentazione di Lucifero e la loro condanna era vivere in un mondo fatto di ingiustizie, illusioni create per non soffrire o per dimenticare. Ognuno aveva la sua verità e nessuno avrebbe ammesso i propri peccati. Troppo orgoglio scorreva nelle vene e pentirsi era un privilegio riservato solo ai santi.
Samaele non riusciva a fermare la sua furia, la rabbia repressa era rimasta sotto la sua pelle per anni. Lacrime salate scendevano lungo le gote, lasciando rivoli sottili sul viso pieno di sangue.
«Basta, smettila!» urlò all'improvviso Matilde, risvegliata da un incubo a occhi aperti. Afferrò il braccio tremolante del giovane e come per magia Samaele si girò spaventato, come se fosse stato qualcun altro ad aver commesso quegli atti immondi.
Si allontanò di scatto, mentre il martello venne scaraventato via. Strisciò le ginocchia sul terreno umido di cruore scarlatto, delle grandi pozze si erano create sotto i loro occhi e si dilagavano sempre di più. Il volto di Michele era irriconoscibile, mancavano pezzi e gli occhi erano usciti fuori dalle orbite. La mascella era spaccata e la fronte era piena di contusioni, ferite e avvallamenti di un cranio ridotto in frantumi. Un gigante ucciso da un giovane Davide, senza rimorso e con la vendetta ad affogargli il cuore di emozioni incontrollate.
«Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto?» sussurrò, portandosi le mani tra i capelli e con la bocca aperta dal dolore.
«Hai avuto la tua rivincita» disse Matilde, con una calma inquietante. Lo osservava come se fosse una foglia secca, inutile e di poco conto.
«Ha ucciso mio padre e ha cercato di portarti via da me ancora una volta, ma quando ha tirato fuori quelle parole io ho perso il controllo. Sono un mostro» rispose con la voce rotta dal pianto e da singhiozzi incontrollati, cercando una giustificazione al suo gesto.
«Non lo sei». La giovane si inginocchiò accanto a lui, gli prese il volto con entrambi i palmi e mischiarono le loro carni con il sangue di una vittima mostruosa. «Ti sei vendicato delle torture subite, ora potrai vivere senza rimorsi. Andiamocene da qui, ricominciamo da capo e iniziamo a esistere».
I loro volti erano a pochi centimetri l'uno dall'altro, i respiri affannati echeggiavano in un luogo pregno di atrocità, di sangue e inferno. Il silenzio era glaciale, i maiali sembravano rimasti addormentati, allibiti dalla violenza in corpi fragili e privi di rimorso.
Samaele e Matilde si erano riempiti di brividi, di una sadica lussuria. Si prendevano gioco di un corpo in stato di decomposizione. La morte divorava le anime, le baciava con le sue fredde labbra, ma al tempo stesso era spettatrice di un amore malato, malsano. I suoi occhi vuoti si sarebbero colmati di corpi pieni di sangue e livore, sfidando ogni legge umana.
Le bocche si unirono in una danza fatta di saliva e sangue. Le lingue si inebriarono di sapori forti e l'adrenalina si mischiò con l'eccitazione. Erano la raffigurazione di Paolo e Francesca, redenti da ogni sopruso e dal loro peccato perpetuo. Sarebbero stati liberi di amarsi, di vedere il mondo senza pregiudizi e senza essere scoperti da sguardi indiscreti, ignoranti di cosa si celasse sotto a tanta maldicenza, diffusa per invidia, per odio represso in una smorfia di disgusto.
Il corpo inerme di Michele non faceva più paura, gli avevano tolto la possibilità di distruggere altre vite. La sua condanna sarebbe stata morire senza essere riconosciuto dagli occhi della gente come il salvatore. Non era altro che un povero ragazzo rimasto orfano di madre con un padre al quale non era mai importato nulla. Non era suo figlio e non lo sarebbe mai stato, si sarebbero incontrati sottoterra tra vermi e insetti a divorarsi a vicenda per l'eternità, in un circolo vizioso senza mai trovare pace. Avrebbero scontato le loro colpe con il rimorso di non essere stati amati.
Samaele era estasiato dall'odore del sangue di Michele, mentre Matilde affondava le dita nella sua carne, aggrappandosi come unica salvezza in mezzo a tanto dolore. Si era ancorata all'unico scoglio durante una tempesta, lui era l'unica persona rimasta a ricordarle le sue origini, il suo passato diventato realtà.
Liquido cremisi imbrattava i loro corpi, si erano intrisi di sfumature vermiglie come se un pittore si fosse divertito con pennellate di colore a olio, nel tentativo di portare all'attenzione la sua opera, agli occhi di chi guardava, in uno stato di ansia e terrore. L'angoscia aumentava a ogni sguardo, a ogni bacio umido di vischiose gocce scarlatte.
Si spogliarono dei vestiti sporchi, rimanendo nudi dentro uno stanzino fatto di legno e fieno, con le dita lasciavano scie rossastre sulle loro epidermidi piene di brividi e lividi. I muscoli e i tendini si intravedevano da sotto la carne sottile, si leccavano a vicenda, assaporando ogni morbida curva. Matilde era estasiata dal tocco famelico di un Lucifero affamato, si bruciò il corpo di violente pressioni di dita calde e piene di libidine.
«Siamo liberi, finalmente» sussurrò Samaele nell'orecchio dell'amata, colma di voglia di vivere e di esistere nel mondo in cui avrebbe potuto essere se stessa.
«Questa volta ad aver fatto scacco matto siamo stati noi» rispose sogghignando, era la prima volta in cui si sentiva viva. Il cuore sembrava ripartito in quell'istante tra le braccia di Samaele, la stringeva a sé per fondere il corpo con il suo. Erano diventati un'unica anima, movimenti decisi e profondi penetravano dentro il ventre di Matilde. I gemiti aumentavano a ogni spinta, scalpitavano, bramavano il piacere più perverso. Erano fuoco e sangue. Morte e arte.
Godevano della libertà e della felicità tanto bramata e attesa, se fossero scappati nessuno sarebbe venuto a cercarli. Niente li teneva ancorati a Monteluna, tutto era morto, rimasto immutato nel tempo e l'allevamento sarebbe stato chiuso per sempre. Era un paese fantasma, poche anime ancora sopravvissute agli anni vagavano per le strade ciottolose e antiche, mentre i più curiosi cercavano di comprendere l'odore di bruciato provenire da fuori le loro finestre, guardando la cenere posarsi sui balconi.
Proprio dietro al fienile, nell'istante in cui Matilde e Samaele raggiungevano l'apice del piacere, due figure erano in piedi a osservare la scena da dietro alberi e foglie morte. Erano imbrattate dei colori dell'autunno e le loro candide pelli erano illuminate dal crepuscolo, la notte stava spodestando il giorno, si sarebbe presa il trono delle anime dimenticate. Era la loro padrona, il caldo mantello oscuro in cui poter riposare le proprie stanche membra. Sarebbe diventata la via di fuga perfetta per non essere visti da nessuno.
Il ragazzo albino dagli occhi eterocromatici si era avvicinato a Marie Sophie che osservava con attenta minuzia il suo operato. Eros le aveva appoggiato una mano sulla spalla, chiedendo la sua attenzione.
«Alla fine sei riuscita a terminare l'operato di tua madre» disse con voce profonda.
«Viene portato avanti per generazioni, io ho solo dato il via all'apocalisse, mon frère». Non distoglieva lo sguardo dalla magnificenza dell'amore tra Lucifero e la sua amata Lilith, erano insieme dopo essersi cercati anni. Il lungo e tormentato inferno era terminato, ma il prezzo da pagare era stato più alto del previsto. La mente dell'essere umano era così affascinante da eccitarla fino a sentire il ventre fremerle per la voglia incontrollata di assaporare ancora altre emozioni di anime ingenue, perse nei loro peccati.
«Cosa intendi dire?» la osservò dall'alto verso il basso, come se le sue parole fossero estranee a tutti gli avvenimenti accaduti.
«Ogni minimo dettaglio è stato calcolato, non te ne sei accorto?» alzò il viso, sfoggiando un'espressione ingenua. «La storia delle Anime dimenticate non è mai esistita» sogghignò.
Le iridi di diverso colore si puntarono su quelle di Marie, verdi come i prati in primavera. Rimase sbigottito, come se ogni sua convinzione fosse svanita in un soffio di vento.
«Non è possibile, è una storia che perdura da anni, tu non puoi esserti inventata tutto» si allontanò di qualche centimetro per la presa di coscienza di una realtà parallela, come un velo che svelava l'inganno di un mago illusionista.
«Niente è dato al caso, ogni storia ha un suo inganno, come quando si racconta una favola ai bambini prima di addormentarsi il giorno di Natale. Credono di poter vedere un uomo dal cappello rosso uscire dai loro camini, esseri mostruosi che li divorano vivi, ma sappiamo essere solo pura fantasia. I bambini sono ingenui, credono a tutto, ma anche le menti fragili possono esserlo. Molto spesso non ci si fa caso ai dettagli, ma sono proprio quelli a cambiare le carte in tavola. Un prestigiatore non rivela mai i suoi segreti, ma il trucco è proprio davanti ai nostri occhi». La sua voce melliflua era una dolce melodia che accompagnava la fredda notte imminente, il buio aveva preso il sopravvento e le parole di Marie erano gli unici appigli su cui riscaldarsi.
«Quindi hai mentito fin dall'inizio» sentenziò suo fratello Eros.
«Non del tutto», sogghignò divertita. «Mia nonna raccontava sempre di Les Âmes Oubliées, era una favola inventata per non farmi sentire le urla dei miei genitori. Tu eri troppo piccolo per ricordartela. L'aveva raccontata così tante volte, da iniziare a credere che ci fossero davvero delle anime senza pace. Bruciavano al solo tocco e si amavano in segreto perché l'odio, l'avidità umana le avevano rese sbagliate» fece una pausa, provando a scorgere Matilde e Samaele rimasti dentro al fienile, nudi e addormentati in mezzo a coperte di paglia mischiati ad abbracci intensi. Si nascondevano dal mondo prima di tornare a vivere. La finestrella dai vetri spaccati dava un piccolo assaggio di ciò che si celava all'interno di quelle quattro assi di legno.
«Sai», continuò, «non ho mai capito perché mia madre non me ne avesse mai parlato. La conosceva bene quella fiaba, nostra nonna gliel'aveva raccontata da piccola, ma voleva tenersela tutta per sé. Si era invaghita del potere che assumeva nelle menti di gente ingenua. Lei raccontava delle Anime dimenticate e le persone venivano da lei pensando fossero maledette, volevano dei figli e così aveva iniziato a interessarsi dei riti. Io la seguivo in ogni mossa, studiavo di nascosto la sua bocca morbida pronunciare quelle parole» si toccò le labbra con le dita, quasi a voler ancora assaporare quel momento. Osservava il vuoto, persa nel passato oscuro di una bambina che voleva solo essere notata dai suoi genitori.
«Era diventata la strega del quartiere e io volevo essere come lei. Quando aveva iniziato a viaggiare per lavoro ho voluto provare le sue stesse capacità. L'effetto era quasi immediato, la storia si diffondeva a vista d'occhio e tutti gli abitanti di Monteluna iniziavano a essere vittime di questo sortilegio, si dilagava come l'olio, ma niente di tutto questo è mai successo».
«Quindi la danza delle streghe alla fiera e il sabba erano solo delle coperture?» chiese, cercando una ragione per le follie della sorella.
«Per rendere reale una storia bisogna sempre fare attenzione ai dettagli. Anche al più insulso, come il foglio strappato da Christian. Era talmente accecato dal sapere da credere di aver trovato il vero manoscritto in biblioteca. Erano solo illustrazioni di Gustave Doré, ma con una mia piccola aggiunta. Qualche appunto in francese e il gioco è fatto. Quel giorno gli ho solo raccontato un pezzo della fiaba, nel libro non c'era nessun riferimento» si avvicinò alle labbra di Eros, pallide come la morte. La sua lattea pelle lo rendeva simile alla luna, l'albinismo lo portava a essere unico nel suo genere, ma come Samaele era visto come un diverso, un malato da tenere lontano. Usciva poco per non restare troppo al sole e le lingue affilate delle megere sui balconi giudicavano senza conoscere.
«Sei davvero perfida, sorellona» disse scherzoso, beandosi della bellezza di Marie.
«Non è tutto merito mio, ho fatto delle ricerche e c'è un nome per tutto questo. Si chiama Effetto Mandela. Siamo tutti persuasi dai ricordi, vogliamo avere sempre ragione senza mai vedere, ma nella realtà non è mai accaduto. Odiamo avere torto, il nostro orgoglio non ce lo permette e siamo vittime dei nostri stessi pensieri». Marie osservava suo fratello con gli occhi sbarrati dall'euforia e dall'eccitazione di aver creato un sadico divertimento.
«Le loro azioni sono frutto di falsi ricordi» sentenziò il fratello, comprendendo finalmente le parole della sorella.
«Essi plasmano, creano memorie differenti e si aggiunge o toglie qualcosa fino a renderlo insignificante, inutile, come un granello di sabbia» aggiunse subito Marie. «Siamo così fragili, ci feriamo con le nostre stesse mani e curiamo le ferite dimenticando il passato, lasciando solo spazi vuoti negli instanti di paura. Cerchiamo la luce, ma mai il buio» rispose con tono sereno, tranquillo, distogliendo lo sguardo da Eros e puntandolo verso l'orizzonte.
La notte si era fatta presto regina del mondo e l'alba sarebbe sorta di nuovo, continuando un ciclo perpetuo, senza mai una fine. La vita sarebbe tornata a prevalicare sull'oblio, gli uccelli avrebbero cantato alle prime luci del giorno e la gente si sarebbe alzata per andare al lavoro, per piangere i loro morti, ricominciare a camminare verso una solitaria e lenta esistenza. Gli abitanti di Monteluna erano lo specchio di un passato in decadenza, non sarebbero stati più gli stessi, ma le strade erano di nuovo colme di silenzio, di storia nascosta tra le ombre delle case e delle mura medievali.
«La vita e la morte non si fermeranno mai, ci metteranno sempre alla prova. Una non può esistere senza l'altra, vanno oltre i ricordi, loro non verranno mai dimenticate». Una lacrima scivolò silenziosa tra le guance candide di Marie Sophie, ripensando alla sua esistenza fatta di solitudine, di speranze spezzate e di voglia di riscattarsi.
«Voglio chiederti solo una cosa, sorella» sussurrò Eros, mentre osservava anche lui il cielo denso di stelle. «Perché hai voluto fare tutto questo?»
«Per comprendere quanto siamo vulnerabili, portare fuori la parte oscura di noi stessi e combattere faccia a faccia i nostri demoni. Non c'è mai stato un paradiso o un inferno, perché esistiamo in un mondo in cui tutto questo vive solo nella nostra testa».
Marie smise di parlare, rimase a guardare lo spettacolo del buio, delle luci dei lampioni e delle lampade dentro minuscole case. Sembravano zampilli incandescenti di un fuoco artificiale.
Dei passi in lontananza facevano vibrare le foglie secche, Samaele e Matilde erano usciti fuori dal loro nascondiglio. I corpi ancora caldi erano in fermento e la notte li coccolava in un bagno d'oscurità. Si presero per mano, lasciandosi alle spalle quel mattatoio, spalancarono la porta per far fuggire i maiali una volta risvegliati dai primi raggi caldi.
Si diressero al furgone ed entrarono per trovare riparo, nascondersi dai propri peccati.
«Sei sicura che non ci verranno mai a cercare?» domandò il giovane, mettendo in moto il motore dell'auto.
«Non abbiamo niente che ci lega a questo paese, siamo liberi di andare dove vogliamo». Matilde si sistemò sul sedile passeggero, un po' spaventata per le scarse capacità di Samaele nel guidare una macchina. Era l'unica cosa che gli aveva insegnato suo padre, un ultimo ricordo felice rimasto tra le pieghe del cervello.
«Allora, in quale luogo vuoi ritornare a vivere?» Samaele era in fermento, si era promesso di diventare migliore di Matteo, una persona diversa e di vivere al fianco di Matilde anche dopo la morte. Avrebbe trovato un lavoretto e non avrebbe mai fatto mancare nulla all'unica persona che lo aveva salvato dai suoi deliri.
«C'è un posto in cui voglio stare. È solitario, imponente e libero. È lì che voglio andare, portami al mare» sussurrò, senza togliere lo sguardo dal finestrino.
Se ne andarono in silenzio, tra le strade deserte di campagna a cercare la via più breve per sentire l'odore di salsedine nelle narici, inebriarsi di felicità e lasciare alle spalle il sangue che scorreva ancora nelle loro mani. Nascondevano atti impuri, volevano negare la verità con altre bugie, con convinzioni dettate dalla sopravvivenza, dalla legge del più astuto.
Samaele appoggiò una mano sulla coscia di Matilde, si guardarono per un istante, ma in quell'attimo videro nuovi sogni, speranze a cui aggrapparsi.
L'oscurità aveva donato loro la bellezza di un misterioso infinito.
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