Capitolo 26.

Il mondo cambia, noi invece no.
Ed è proprio questa l'ironia che alla fine ci uccide.

-Anne Rice, Intervista col Vampiro.

2 Agosto 1967

Sette anni prima.

Il caldo era estenuante, le finestre erano aperte e le tende erano animate dal leggero vento estivo. I grilli e le cicale frinivano senza sosta, riempiendo le orecchie di striduli acuti fino a non sentire più i pensieri.
La luce del sole filtrava nelle stanze vuote, nella solitudine di un'esistenza in cui l'essere umano si crogiolava per avere un istante di pausa, di sonno leggero prima di tornare ai propri doveri. La cucina era stata da poco pulita con maniacale accuratezza, le lenzuola appena cambiate in ogni camera e un profumo di lavanda si insinuava per i corridoi e tra le narici di chi aveva il coraggio di passare a piedi nudi sul pavimento appena lavato.

Da dietro una portafinestra si poteva scorgere la figura di Eva, seduta su una sedia in vimini situata sotto al portico principale della casa. La gamba destra era in preda a spasmi di ansia, tremava in un repentino su e giù. I muscoli dei piedi contratti, si vedevano i tendini sotto pelle farsi sempre più evidenti.

I biondi capelli corti fino ai lobi delle orecchie le carezzavano dolci il viso magro, gli occhi di un verde intenso si apprestavano a guardare con minuzia ogni particolare dell'orizzonte. Stava cercando qualcosa, un filo d'erba, una pianta storta, un vaso rotto, un elemento fuori posto per rimetterlo alla sua naturale posizione. Era irrequieta, i suoi figli erano con Matteo, sarebbero dovuti arrivare a breve, ma ci stavano mettendo troppo tempo. Immaginò scenari in cui avrebbero perso la vita, si mordeva le unghie fino a sanguinare. I denti graffiavano, divoravano piccoli lembi di pelle morta ai lati delle falangi. Suo marito sarebbe dovuto già arrivare da dieci minuti, il ticchettio dell'orologio in cucina non smetteva di martellarle la testa. Ogni secondo scandito era una tortura, si arrabbiava di continuo per i suoi ritardi, aveva altro da fare, da ordinare, sistemare e riposizionare.
Scese le scale del portico.

Uno.

Due.

Tre.

Quattro.

Contò a mente gli scalini, come tutte le volte dovevano sempre essere quattro. Il prato le solleticava la pianta dei piedi nudi, si guardò attorno sperando di trovare la macchina di Matteo in lontananza o la voce di uno dei suoi figli. Il lungo vestito estivo le fasciava le curve spigolose, il seno piccolo si intravedeva dalla lunga scollatura e la pelle lattea si arrossava a contatto con i raggi intensi del primo pomeriggio.

Un fruscio di passi si avvicinò verso di lei, lunghi steli si abbassavano al peso di un essere umano intimidito a guardare una figura angelica tra i cespugli vicini.

Eva si girò di scatto, le pupille erano puntate come fori di fucile verso lo strano suono. Non era un animale, riconosceva ogni movimento, forse era un solito scherzo di Michele, ma il difetto del suo respiro forte non vibrava nell'aria. C'era qualcuno lì con lei, aveva troppa paura di ricadere nel vortice della lussuria in cui era stato vittima molti anni prima.

«Chi c'è? È inutile che ti nascondi, ho sentito i tuoi passi» disse Eva, alzando la voce per farsi sentire. Le parole fluivano nelle orecchie dell'osservatore come anestetizzante sulle ferite.

Qualche altra falcata e la figura imponente, muscolosa di Alberto affiorò da dietro le siepi. Si guardarono per alcuni attimi, mentre i loro occhi sbigottiti non facevano altro che scrutare ogni sfumatura e ombra di corpi frementi. La poca distanza a separarli sembrava una fossa in cui precipitare sotto metri di fango e vermi, non potevano stare insieme, ma nessuno dei due era intento ad andarsene.

«Vattene via, non puoi stare qui» proferì rude, mentre si allontanava per tornare in casa e aspettare il tanto atteso ritorno della sua famiglia.
Alberto la rincorse e con veloci falcate le prese il polso. «Aspetta, ho bisogno di parlarti. Non possiamo ignorarci per tutta la vita».
«Lo abbiamo fatto dal giorno in cui Michele è nato, possiamo farlo ancora per molto tempo» rispose fredda, velenosa fino a fargli male al cuore.

Dire quelle parole erano un'arma a doppio taglio, era costretta a farlo, ma al tempo stesso avrebbe voluto una vita con Alberto. Non si sentiva felice, era segregata in un'esistenza piena di paura, terrore e sottomissione. Qualche volta lo osservava dalla sua stanza, col binocolo tra le mani, mentre baciava, amava un'altra donna che non fosse lei. Era un pensiero egoista, ma la sua esistenza non era perfetta e questo la faceva stare male. Si sentiva come gli oggetti usati e mai rimessi al loro posto, dimenticata in un luogo a prendere polvere.

Dopo la difficile gravidanza portata a termine tra atroci sofferenze, non sentiva lo stesso amore materno su Samaele. Il gelo gli aveva ghiacciato il cuore, rendendolo impenetrabile. Quando per la prima volta aveva visto i suoi capelli scarlatti avrebbe preferito morire, invece di crescere un figlio del demonio. Sperava solo, in un giorno lontano, di poter essere perdonata al cospetto di Dio. Erano le conseguenze di un adulterio e di essersi fidata di una donna misteriosa, promettendole di poter avere un secondo figlio solo se avesse seguito le sue direttive. Le aveva fatto bere brodaglie di qualsiasi tipo, mangiato carne cruda, cuori e cervelli di maiale ancora sanguinanti e caldi, solo per aumentare le speranze. Non sapeva a quale patto immondo stesse andando incontro.

«Non puoi dirmi questo, proviamo gli stessi sentimenti entrambi, lo sai bene. Lo vedo dal tuo sguardo, dai tuoi occhi quando si illuminano. Resta con me, Liliana non lo saprà mai» sussurrò a pochi centimetri dal viso pallido di Eva, i raggi e le ombre delle foglie dell'edera rampicante formavano giochi di luce sui loro volti.

«No, no, no!» urlò la donna, inoltrandosi in casa. Voleva sparire, essere aria per poter andarsene da quella situazione sgradevole. L'ansia risalì nelle vene, se Matteo l'avesse vista in sua compagnia avrebbe perso il lume della ragione. Sentiva il cuore batterle tra le costole, lo percepiva salire fino in gola. Si confondeva con la bile, logorato dagli acidi e dall'isteria. «Basta promesse, non voglio più vivere di illusioni»

«Non lo sarà stavolta, te lo prometto» rispose Alberto senza ripensamenti. Tutte le particelle del suo corpo erano attratte da lei, non riusciva a staccarsene, era un pensiero fisso ogni giorno. Sperava di incontrarla in paese, di poterci scambiare qualche parola, ma non avevano mai nulla da dirsi. Avrebbero causato altro chiacchiericcio tra le vie piene di pettegole pronte a creare storielle di quartiere, rovinando la vita a chi cercava di voler trovare un'effimera felicità.

Una lacrima scese tra le guance di Eva, si portò le mani sul volto per la disperazione. Si era ritrovata in un punto in cui le decisioni da prendere sarebbero state delle coltellate al cuore e all'anima. Odiava restare nell'ignoto, non voleva aspettare e i suoi figli non l'avrebbero mai perdonata.

«Perché sei tornato, mi mandi a soqquadro la testa e rimettere a posto qui dentro», si indicò con l'indice la tempia, «è più difficile di quanto tu creda. Non so gestire una cosa del genere, ma sei come una calamita. Ci siamo incontrati troppo tardi, eravamo già entrambi sposati e non possiamo fare nulla per cambiare. Se andiamo avanti con questo gioco perverso, non ci porterà nulla di buono in ogni caso. Soffriremo entrambi come cani.»

Si muoveva per la cucina, non lo guardò neanche per un secondo. Era preoccupata a mettere a posto nello stesso ordine, con precisione millimetrica, tutti i mestoli e le posate. La meticolosità maniacale era intrisa nel suo DNA, tutto doveva essere perfetto e ciò che non lo era la rendeva folle.

Con le persone non era facile trovare un punto d'incontro, con Matteo pensava fosse davvero l'amore migliore di qualsiasi altra relazione. Quando Alberto arrivò nella sua vita tutto era andato in disordine e la sua esistenza venne travolta da un camion in corsa.

«Tu piangevi sempre per me,» iniziò a cantare con voce profonda e gutturale, era lenta e dolce al tempo stesso, molto più intima. Trasportava la mente nei ricordi felici. «Ma ora che son qui, accanto a te, son felice perché son tornato da te...»

«Smettila con quella canzone, non riesco più a sopportarla, non mi convincerai mai in questo modo» strillò, tappandosi le orecchie. Si guardarono per alcuni istanti, mentre Alberto continuava a cantare. Era una delle sue melodie preferite, gliel'aveva dedicata una sera d'estate, il suo violoncello era ammaliante fin quasi a entrare dentro le viscere. Riusciva a comunicare ogni emozione con solo il tocco di dita su quattro corde.

Eva provò a uscire dalla stanza, ma l'uomo la strattonò per un braccio e con slancio le rubò un bacio tra le morbide labbra. Non aveva mai assaporato tanta dolcezza in vita sua, Liliana era sempre indaffarata ad aiutare gli altri, restava poco in casa, come se volesse scappare da lui. Sentiva tutto l'affetto perduto negli anni e un forte calore lo pervase sottopelle, percepiva le vene gonfiarsi e il cervello veniva inebriato dal profumo di lavanda. Eva provò a divincolarsi, ma alla fine si lasciò di nuovo trasportare dalla foga di un amore malato. Non riusciva nemmeno a dirgli la verità, si sentiva sporca, sudicia per nascondergli una realtà troppo ostile. Matteo lo aveva capito, per questo urlava di voler a tutti i costi un figlio suo, ma alla fine Michele gli voleva bene più di qualsiasi altro essere umano. Si convinceva che fosse suo, ma lo sguardo mentiva sempre. Non c'era nulla negli occhi del primogenito a ricordargli il legame di un padre e di un figlio. Si sentiva in gabbia eppure avrebbe rifatto quell'errore più e più volte.

Restare tra le braccia di Alberto era un luogo sicuro, una coperta calda durante le fredde notti invernali. Le sue carezze erano fuoco puro, sapeva i suoi punti deboli e la faceva eccitare quasi allo sfinimento. Sentiva le dita scorrere lungo la schiena fin sotto ai glutei. Presi di nuovo da una foga di lussuria si affrettarono a entrare in camera da letto e iniziarono a spogliarsi di ogni indumento. Restarono nudi sotto gli occhi attenti del sole e dei suoi raggi. Riscaldavano epidermidi incandescenti, muscoli in tensione e gemiti strozzati da baci feroci.

Rimanevano estasiati uno dai sospiri dell'altro, dai morsi famelici i quali lasciavano voglie rossastre attorno ai seni e su colli sinuosi. Si avvinghiavano fino a diventare un corpo solo, le spinte erano decise e piene di libidine. Le lenzuola si stropicciarono al contatto delle loro schiene, le mani si intrecciavano e gli ansimi aumentavano fino ad annebbiare il cervello. Si ritrovarono quasi all'apice del piacere, la schiena di Eva sfregava sul ventre di Alberto, le mani le comprimevano il collo e i fianchi colpivano i glutei con movimenti sempre più veloci. Il calore all'interno divenne scariche elettriche e lo sentiva crescere dentro di sé fino a farle perdere il lume della ragiore.

«Mamma» un'innocente voce si propagò in mezzo al caos provocato dal piacere illecito, dal dolce sapore di liquidi caldi.
Eva si scostò subito da Alberto, erano nudi di vergogna e pregni di un peccato al quale non avrebbero mai più rimediato.

Samaele era davanti all'uscio della porta con le lacrime agli occhi, le sue piccole mani tremavano come foglie. Quello non era suo padre, Matteo era fuori a sistemare la macchina in giardino, voleva fare una sorpresa a sua madre, ma i suoi occhi allocroici si intinsero di una visione proibita.
«Tesoro, aspetta, non piangere» provò la donna a rassicurare il ragazzino, immobilizzato dalla paura.

«Stammi lontana» rispose con furia Samaele, mentre correva dal padre per raccontare ogni cosa. Venne subito fermato da Matteo, sbucò all'improvviso dietro di lui e notò la scena raccapricciante di due corpi caldi, ancora frementi di voglie incontrollate.
L'uomo non disse nulla, guardò Alberto con aria di sfida, da sotto gli occhiali tondi si scorgevano le sopracciglia farsi sempre più arcuate. I capelli lunghi gli ricadevano scomposti sulla fronte e sopra la montatura.

«Sei un lurido maiale» gridò infine, scagliandosi contro il traditore. Anche se era più basso di qualche centimetro, gli tirò un pugno sulla tempia così forte da tramortirlo a terra. Sbatté la testa sul pavimento e un piccolo rivolo di sangue imbrattò le piastrelle.

Eva urlò loro di fermarsi, ma dentro la sua testa qualcosa scattò all'improvviso. Si rivestì di fretta, prese Samaele per la mano e lo portò fuori. Cercò di salvarlo dalla violenza immonda di due tori impazziti.
Le urla erano atroci, la sua voce acuta perforava i timpani. La luce del sole era accecante e bruciava qualsiasi cosa sotto la sua imponenza. Delle gocce di sudore le scivolarono lungo le tempie.

«Smettila di fare i capricci» gridò, «Michele, vieni qua. Sali in macchina» aggiunse infine, mentre il primogenito guardava sbigottito la scena senza comprendere cosa stesse succedendo, sentendo rumore di vasi e cocci rotti all'interno della sua dimora.

Aveva ipotizzato che Samaele ne avesse combinata una delle sue, forse era così grave da aver fatto impazzire la mamma. Provò a chiedere spiegazioni, ma venne strattonato anche lui nella Fiat del padre. Erano appena tornati da una battuta di caccia, si erano divertiti al lago a pochi chilometri di distanza, avevano passato una giornata meravigliosa finché vennero catapultati di nuovo nella realtà come uno schiaffo in pieno viso.

I due fratelli presero posto nei sedili posteriori e la madre, con le lacrime a rigarle il viso partì a tutta velocità verso una destinazione ignota. «Andiamo a farci un altro giretto ragazzi, che ne dite?» domamdò con la voce spezzata dal pianto e le sclere arrossate, intente a osservare la strada sterrata costeggiata da piante e rampicanti.

«Fammi scendere, ti odio!» urlò Samaele, mentre provava a divincolarsi dalla presa ferrea del fratello. Michele lo teneva stretto a sé, prese calci, pugni sul ventre e sulle gambe a causa di un forsennato che aveva perso il controllo di se stesso.
«Stai fermo, Malpelo, che diavolo succede?» provò a chiedere, ma come risposta Samaele gli morse l'avambraccio e un grido di dolore si propagò per tutto l'abitacolo.

«Smettetela subito!» urlò Eva in preda al panico. Le sue mani tremavano e non riusciva a tenere stabile l'auto. Si sentiva in trappola, senza via d'uscita dal baratro imminente. Voleva solo sparire, annegare nei suoi peccati e morire senza essere trovata.

«Ho scoperto la mamma a letto con un uomo, ma non era papà» sentenziò infine il giovane dalla chioma più rossa del fuoco, i ricci scarlatti inglobavano piccole particelle di polvere illuminate dai raggi del sole.
Michele lasciò la presa, riuscì a stento a credere alle parole di Samaele. Rise di gusto e per provocare Eva si lasciò sfuggire parole aberranti: «Mamma, dimmi un po', quanto ce l'aveva grosso?»

Inchiodò sul ciglio della strada a una velocità troppo alta e le ruote sgommarono sulla breccia irregolare. Una di esse scoppiò, facendo sussultare tutti. Eva si tolse la cintura e una volta fermata l'auto, aprì lo sportello e si fiondò sui suoi figli. Li prese a schiaffi, li riempì di percosse per aver detto frasi al limite dell'impuro.

«Come osate rivolgervi a vostra madre in questo modo, invece di preoccuparvi di come sto, vi sentite in dovere di deridermi senza sapere cosa sia successo» disse col fiatone, senza mai fermarsi a schiaffeggiare Samaele. «Siete dei mostri, figli del diavolo. Avrei dovuto uccidervi appena nati» sbraitò.

Uscì fuori dall'abitacolo e si sistemò i capelli imperfetti, rivolti verso la fronte. I ragazzi colmi di dolore non fiatarono per nessuna ragione. Rimasero immobili, doloranti, mentre i loro occhi colmi di lacrime e la pelle infuocata erano messaggi silenziosi di traumi futuri.

«Venite fuori in silenzio, dovete avere più rispetto per vostra madre o volete essere come vostro padre? Cerca sempre un colpevole senza mai osservare se stesso, non potete capire quanto faccia schifo come persona» ringhiò, le ciglia bagnate da gocce salate e il respiro affannato in cerca di un'aria che non arrivava mai erano la rappresentazione della perdita del senno.

«Scusa, mamma» sussurrò Michele, credendo allo sconforto di Eva, del dolore interiore di una condannata a soffrire per l'eternità.
Samaele invece non fiatò, ma alzò solo lo sguardo in segno di sfida, di vendetta e il suo orgoglio lo rendeva cieco della follia della madre. Si osservarono per alcuni istanti, le loro bocche erano serrate, ma nascondevano futuri incerti e dolori strazianti.

«Te ne pentirai un giorno di essere ancora vivo su questa terra, Samil» sibilò velenosa, come se sapesse già il suo destino. Nessuno le avrebbe mai creduto, ma quegli ultimi istanti furono l'inizio di un vortice al quale nessuno ne sarebbe mai più uscito.

Si diresse verso l'abitazione più vicina per cercare aiuto e cambiare la gomma forata. Samaele si mise seduto per terra, sporcandosi di polvere e terra i pantaloncini, mentre Michele camminava intorno all'auto senza un apparente motivo. Non si parlarono per alcuni minuti, nascondevano le loro paure, l'ansia di ammettere i propri errori, affogandoli nel silenzio.
«Samil, ti va di giocare ai soldati?» chiese con l'innocenza a riempirgli gli occhi di un desiderio bambinesco.

«Non credo sia il caso» rispose Samaele, asciugandosi gli occhi con il dorso delle mani. Le efelidi somigliavano a milioni di macchie di caffè su un candido panno. Costellazioni di stelle rappresentate in negativo su un foglio bianco. Alcune mosche e insetti gli svolazzavano attorno, posandosi di tanto in tanto sulle ginocchia e sulle braccia. Non si degnavano di prestar loro attenzioni come se il ronzio e il solletico delle piccole zampe non creasse alcun fastidio. Erano abituati a giocare a nascondino nell'allevamento del padre e anche se una zanzara o una vespa li avesse punti, per Samaele e Michele era un comportamento normale. Continuavano a riempirsi di punture senza mai sentire la stanchezza e il dolore.

«Dai, vieni, prima che torni la mamma» disse Michele, incoraggiandolo ad alzarsi. Con un movimento fulmineo aprì il bagagliaio per vedere se Matteo avesse tenuto i loro elmetti ancora lì dentro. Qualcos'altro, però, tentò la loro attenzione. Il fucile del padre era rimasto incustodito a causa della foga con cui era ritornato a casa. Si era dimenticato di rimetterlo in garage e in quel momento divenne proprietà di Michele.

«Accidenti, non pensavo fosse così pesante» proferì il giovane, mentre i suoi occhi scuri si illuminavano di stupore per avere la possibilità di tenere tra le dita uno strumento di morte.

«Babbo ha detto che non dobbiamo giocarci con quello» rispose con la voce rotta da una paura crescente dentro al suo piccolo e magro petto. Il cuore gli martellava le costole e le pupille si allargavano sempre di più a causa della sgradita sorpresa.

In quel momento nel cervello di Michele, qualcosa di oscuro scattò all'interno delle sinapsi. Un sorriso maligno si intravide ai lati delle labbra, mentre con uno scatto fece abbassare la canna per inserire le lunghe cartucce. Due colpi bastavano per stendere un animale selvatico, uno poteva uccidere anche un essere umano.

«Cambiamo le regole», sussurrò con voce grave, inserì i proiettili e la caricò mettendo la sicura. «Tu scappi e io non devo prenderti». Gli puntò l'arma contro, mentre Samaele si alzava da terra e indietreggiò provando a rientrare in macchina, ma senza riuscirci. Eva l'aveva chiusa a chiave e in quel momento non riconobbe più suo fratello. Non lo avrebbe mai fatto, ma avere il potere di uccidere annebbiava la ragione, soprattutto dopo essere stato picchiato dalla propria madre per una situazione creata da un marmocchio con la lingua lunga.

«Sei impazzito? Non voglio fare questo gioco» provò a persuaderlo, lo implorò di mettere giù la doppietta, ma non ebbe il tempo di proferire altro. Qualcosa nel bosco si stava muovendo e non erano rumori normali.
Si girarono entrambi verso la direzione di passi veloci, di risate isteriche, mentre i loro corpi rimanevano impassibili alla vista di due ragazzi della stessa età di Samaele.

Da lontano, dietro ad alte fronde si intravedevano delle lunghe gambe correre verso di loro. Una bambina con un vestito di un celeste così intenso da far invidia al cielo, era intenta a prendere i lembi della camicia del giovane davanti a sé, ma le sue falcate erano talmente veloci da non riuscire a stare al suo passo.

«Tanto non ci riesci» urlò il ragazzo dai capelli corvini, più ricci e scompigliati della lana delle pecore. Il vento animava i loro indumenti e la terra impolverava ogni superficie, compresa la pelle. Il sudore colava lungo le tempie, ma per quanto si divertissero non sentivano il bruciore dei muscoli in tensione.

Michele fece un fischio per richiamare l'attenzione dei ragazzi, voleva far partecipare due esseri innocenti, intrappolarli dentro a un oblio fatto di terrore e disperazione. «Volete venire a giocare con noi?».

Si affrettarono a raggiungere i due fratelli, mentre Samaele era incantato dalla bellezza di una figura esile e silenziosa. Le guance rosee, il respiro affannato erano sintomi di stanchezza, di gioia nel vivere un'esistenza semplice.

«Chi siete?» domandò Matilde, con l'innocenza e la curiosità nascosta nella voce. Li scrutava con i suoi grandi occhi ambrati, li ammaliava senza nemmeno accorgersene. Gli occhiali erano di una taglia più grandi e spesso rimetteva al suo posto la montatura al di sopra della curvatura aquilina del naso.

«Io sono Christian, lei è Matilde» prese parola il giovane magro e snello. Aggraziato e dalle movenze flessuose, ammorbidite dalle maniche larghe in cui faceva passare l'aria fresca. Erano stropicciate, sporche di fango e sudore. Aveva aiutato la sua amica a portare il pranzo ai contadini nei campi; Liliana insieme ai suoi genitori portavano il pane, cucinavano piatti semplici per uomini indaffarati a lavorare la terra e a raccogliere i frutti di tanta pazienza, una perseveranza che pochi potevano sognare. L'odore dei pomodori arrosto inebriava le narici, insieme alle bruschette imbevute d'olio. Correvano con cesti pieni di pietanze, enormi bottiglioni d'acqua, solo per non far sentire la sete e la fame a gente umile. Vivevano di semplicità, ma quello bastava per resistere in una realtà crudele e meschina.

Michele e Samaele restarono in silenzio, cercavano di parlare, ma erano incuriositi dall'energia vivace dei due. Erano uno la nemesi dell'altro, ma al tempo stesso non smettevano di cercarsi l'uno con l'altro. Stavano mettendo le pedine sulla scacchiera senza nemmeno rendersi conto con quale sfidante stessero giocando.

«Ciao, Matilde» sussurrò timido Samaele, accennando un impacciato saluto col palmo della mano e le dita aperte. Se la riportò dietro la schiena subito dopo, abbassando il capo a causa dello sguardo penetrante della ragazza.

«Smettiamola con i convenevoli, è ora di giocare. Io farò il cacciatore e voi dovete nascondervi per non farvi acchiappare» rise di gusto, mettendo in mostra il fucile per cercare di farli spaventare.
«Chi lo ha deciso? E se volessi farlo io il cacciatore?» lo sfidò Matilde, mettendosi le mani ai fianchi.
«Sono il maggiore, decido io le regole» ringhiò.

«Non credo proprio. Farò la conta e chi viene indicato per ultimo sarà colui che prenderà in mano il fucile» rispose con spaventosa tranquillità. Aveva piena fiducia in se stessa, un sorrisino leggero si fece strada tra gli angoli delle labbra. Voleva tergiversare, far cedere un animale rabbioso a tranquillizzarsi e buttare via l'arma. Matilde sentiva nel profondo che non sarebbe finita bene, se avessero continuato quel sadico gioco.

«Maledetta, non puoi farlo!» urlò, spazientito dall'impertinenza di Matilde.
«Allora prova a fermarmi» si mise davanti a lui e iniziò a canticchiare una filastrocca. Puntò ognuno dei presenti, ma prima di dire l'ultima frase Michele alzò il fucile e lo puntò verso di lei.

«Smettila subito, non mi farò prendere ordini da una ragazzina». Tolse la sicura e appoggiò l'indice sul grilletto. La figura dai corti capelli corvini non si scompose, il cuore le martellava nel petto, aveva paura, ma doveva vincere una battaglia non sua: combattere con i demoni interiori di qualcun altro.

Christian rimase immobile e spaventato dalla follia di un giovane uomo, alle prese con uno stupido gioco diventato la loro condanna a morte. Era pietrificato dalla paura, gridò di fermarsi, ma nulla smuoveva quella bestia dalla sua sadica rivolta.
Samaele, preso dall'adrenalina del momento, si avventò sul fratello facedogli perdere l'equilibrio e senza preavviso, un colpo partì.

Il rumore era così forte da far fischiare le orecchie dei presenti, il proiettile andò a conficcarsi su un tronco di un ramo vicino, senza ferire Matilde o Christian. Si accucciarono per lo spavento e delle grida di paura si librarono nel vento, arrivando dritte nei timpani di Eva a poche centinaia di metri di distanza.

Sentì il frastuono e corse la strada a ritroso, lasciando la donna a cui stava chiedendo aiuto interdetta e preoccupata. Urlò il nome dei suoi figli e quando vide Samaele a terra col fucile tra le mani, il suo cuore si fermò di colpo. Non poteva credere ai suoi occhi. Anche Michele era intento a tenere a bada il fratello e senza nemmeno un briciolo di rimorso mentì per la prima volta nella sua vita.
«Mamma, Samaele stava per sparare a Matilde» piagnucolò, con finte lacrime e una voce di illusoria innocenza.

Eva girò lo sguardo verso la ragazza e quando le sue iridi si persero in quelle color del miele di Matilde, rivide il volto di Alberto da giovane. Era identica, non poteva essere lei. Forse da qualche parte c'era Liliana a tenerli d'occhio e non era un buon segno. Si sarebbe preoccupata, avrebbe fatto domande come suo solito e sfoggiato il suo sorriso migliore per cercare di calmare le acque. Odiava quella donna, le aveva preso la sua vita, il suo ideale di esistenza perfetta. Era di intralcio per tutti quanti, se non fosse esistita sarebbe stato molto meglio.

«Non è vero, è stato lui a iniziare. Ditelo anche voi, lo avete visto» provò a far venire a galla la verità, ma tutti erano pietrificati. Non riuscivano a dire una parola, traumatizzati dal frastuono e dal mal di testa.

«Matilde!» una voce melliflua si insinuò nelle loro teste. Stava arrivando, Liliana era vicina. In risposta al richiamo la ragazza si girò per cercarla all'orizzonte. La strada si rimpiccioliva e la natura si faceva sempre più fitta, fece qualche passo in avanti per vedere se riusciva a scorgerla, ma non si notava nemmeno la sua ombra.
«Non è successo nulla di grave, mamma. Stiamo bene» gridò la piccola per rassicurare la madre preoccupata dal rimbombo minaccioso del fucile.

Qualche secondo dopo la sua chioma folta sbucò dalla curva, camminava con passo svelto e una cesta di vimini piena di fiori appoggiata sulle braccia. Lo teneva stretto al ventre, un riflesso rimasto dopo la gravidanza. Proteggeva le sue creazioni con maniacale cura.

Un vestito a fiori le accarezzava le curve, i sandali scalpicciavano sulla ghiaia e si affrettava per raggiungere sua figlia. I piedi erano pieni di ferite e graffi causati dalla terra arida e arbusti secchi più affilati dei rasoi. Si conficcavano nella carne e rendevano vulnerabile la pelle esposta ai raggi del sole. Liliana camminava fiera del suo lavoro, di essere utile nella società e di aiutare chi ne aveva più bisogno. Era più indipendente di qualsiasi altra donna di Monteluna, ma al tempo stesso non era ben vista di buon occhio. Le sue idee non piacevano a tutti, erano d'intralcio e la sua stessa presenza incuteva timore per il suo sguardo indecifrabile.

«Samaele, dammi il fucile» ordinò Eva, la sua voce risuonò criptica. Un brivido si diramò sulle schiene dei giovani, ignari di cosa stesse per accadere.
«Dai, che aspetti? Ridaglielo» lo canzonò Christian, vedendolo confuso sulla scelta da prendere. Quella frase fu l'inizio della discesa verso l'inferno.

Samaele ripose l'arma e l'appoggiò sul cruscotto della macchina. Le mani sottili tremavano per lo sforzo, lo sguardo si rabbuiò e rimase in silenzio a osservare sua madre con gli occhi sbarrati di pazzia. L'ansia gli divorava le viscere, aveva paura del suo raziocinio smarrito in chissà quale universo. Si era persa e nessuno l'avrebbe mai più salvata, nemmeno Alberto si sarebbe fatto carico di prenderla per mano e di fuggire insieme in un posto in cui nessuno dei due era mai stato. Ricominciare a vivere senza più paura e Dio avrebbe dato loro tutto ciò che desideravano.

Nel cervello di Eva stava accadendo la rivoluzione, delle voci maligne gli ordinavano di riprendersi la sua esistenza, di eliminare gli intralci nel proprio cammino. Liliana si avvicinava e a ogni passo sentiva la rabbia implodergli nel fegato, la bile ribolliva nello stomaco, ma provava in tutti i modi di quietare le urla all'interno della sua mente.

Ribellati, Eva. Riprenditi ciò che ti spetta di diritto.

Sussurri mefistofelici continuavano a punzecchiarla, a divorarla dall'interno come vermi affamati di materia grigia.
«Eva, che piacere vederti» proferì Liliana, mentre si affrettava ad arrivare, salutando tutti con movimenti gentili della mano destra.

Delle lacrime calde bruciarono le gote della donna, gli occhi verdi come i prati in primavera si accerchiarono di capillari gonfi e rossi di sangue. I demoni avevano preso il controllo, la dolce e devota Eva non esisteva più, finché non ebbe tra le mani la doppietta.

Il tempo si fermò, tutto andò al rallentatore, nessuno dei presenti ebbe la lucidità di comprendere cosa stesse succedendo, la loro ingenuità divenne il rimorso di tutta una vita.
Il vento quietò la natura circostante, i grilli smisero di cantare e i timpani ovattarono qualsiasi rumore.
«Perdonami, Padre, perché ho peccato» sussurrò con la voce smorzata dal pianto.

Uno sparo si librò nell'aria, il fucile cadde a terra per il troppo rinculo e il proiettile si conficcò dritto nel petto di Liliana. Restò immobile, paralizzata dall'atroce dolore all'interno delle costole, schizzi di liquido scarlatto imbrattarono i candidi petali delle margherite, il viso spigoloso e il vestito si macchiarono di un nero intenso. La gravità si fece più pesante e il cesto cadde sulla strada insieme al corpo privo di vita di Liliana. Era morta senza salutare sua figlia, senza dare un ultimo bacio ad Alberto. In quei secondi di esistenza rimasti comprese la verità e si sarebbe vendicata su tutti coloro che l'avevano tradita, lasciata da sola in balia del proprio tormento. I suoi occhi rimasero aperti, vide Matilde con gli occhi sbarrati, colmi di lacrime pietrificate sugli zigomi.

Le aveva portato via sua madre per sempre e la scena sarebbe rimasta a cancellare ogni traccia del suo passato, dei suoi sentimenti più puri e un alone di oscurità calò su di lei. Urlò a causa dell'atrocità subita, si accasciò a terra e si impresse per sempre il volto inespressivo di Liliana. Venne portata via di peso da Christian, la salvò da quella scena straziante, ma non si sarebbe mai dato pace per aver detto quelle ultime parole. Cercò di cancellarsele per sempre dalla mente, dicendo di aver fatto la cosa giusta, ma il tarlo sarebbe rimasto sempre a divorargli l'anima.

Eva sparì, si allontanò senza essere vista, corse dentro il bosco e lasciò a suo figlio Samaele il fardello della colpevolezza. Se non fosse stato per lui a rovinare tutto, a restare in silenzio, non sarebbe mai arrivata a tanto. Michele si girò verso il fratello e da quel momento in poi sarebbe stato il suo divertimento sadico. Aveva fatto esasperare la loro madre, non poteva aver premuto il grilletto di proposito, giustificava sua madre per le bugie dette da Samaele, per non averle creduto. Da quel giorno, la felicità svanì in un soffio di vento, si immersero nell'oscurità più pura: cecità fatta di violenza e morte. Il cuore di Matilde si rinchiuse in una barriera di ghiaccio, un oblio freddo e disumano. Lo struggimento l'accolse nei sogni, svenne tra le braccia di Christian. L'avrebbe tenuta stretta sempre, si sarebbe fatto carico di una promessa più grande di lui, ma non sapeva quanto veleno scorresse tra le vene di quel corpo esile e dormiente.

Poco dopo, Alberto si precipitò nel luogo dell'incidente, Matteo era rimasto ferito e non aveva più le forze per rincorrerlo. Si erano picchiati fin quasi a volersi uccidere a vicenda, ma Eva aveva già pensato a tutto per rovinare le vite di entrambi.

Le urla di un uomo distrutto nell'animo inquietarono i presenti venuti a soccorrere Liliana, ma i loro volti facevano intuire le vane speranze. La portò tra le sue braccia, si imbrattò del suo sangue, portandosi una mano ancora calda sul viso, come se chiedesse un'ultima volta una carezza gentile. Cercò di svegliarla, di farla rimanere nel mondo reale, ma ormai la morte se l'era presa con sé e non sarebbe mai più tornata indietro.

«Mi dispiace, Lilin, mi dispiace così tanto» singhiozzò il marito, abbracciandola un'ultima volta e baciandole le labbra dal sapore amaro di cruore vermiglio. La cullò tra le sue braccia in un tentativo disperato di quietare l'avvilimento e i rimorsi di non averla amata più di quanto meritasse. Era morta per l'invidia dell'uomo, per i capricci di un'esistenza troppo effimera e trovò conforto nel buio eterno. L'anima di Alberto si spense quel giorno, annegò il suo passato nell'alcool e divenne il mostro nascosto nei suoi incubi notturni. Si era rintanato in una bolla fatta di solitudine dove non esisteva più la felicità.

Tra i rami del bosco, una giovane fanciulla dai lunghi capelli color del grano si beava della bellezza dell'odio, del rumore dei cuori spezzati e di urla di pianti isterici. La storia delle anime dimenticate era solo all'inizio e si sarebbe divertita a raccontarla ai posteri come anche sua madre aveva fatto con tutti i suoi clienti a chiederle di essere fertili. Tutto aveva un prezzo e l'illusione delle menti era la miglior ricompensa che si potesse avere. Corse via, riferendo tutto alla propria genitrice, come un bravo segugio di un sadico cacciatore.

Quella stessa notte il cielo era ricoperto da un manto nero, non si riuscivano a vedere le stelle e la luna era nascosta dalle nuvole. Il paese era avvolto da un alone di nebbia e putrefazione.

Tra le mura bianche di una solitaria casa, Eva era intenta a rilassare le sue nude membra nella vasca. I corti capelli si erano attaccati alla fronte e alcune ciocche si erano arricciate sulle tempie. Si lavò le mani più e più volte, ma il sangue che scorreva sulle sue dita non smetteva di fuoriuscire. Non comprendeva cosa fosse reale, vedeva ancora impresso tra le pupille il peccato commesso. Aveva peggiorato le cose, non poteva vivere con un rimorso del genere.

All'improvviso la porta si aprì e Samaele comparve sull'uscio. Voleva scusarsi con lei, rimediare ai suoi sbagli, ma rimase pietrificato dalla quantità d'acqua scarlatta in cui era immerso il corpo della madre.
«Mamma, cosa stai facendo?» si avvicinò al bordo, provando a tirarla su. La prese per i polsi e scorse le profonde ferite ancora fresche. Tempera cremisi usciva a fiumi dai suoi avambracci. Disegnava rivoli di paesaggi immaginari, di un inferno imminente. Sarebbe annegata nel suo stesso sangue e la sua anima non avrebbe mai trovato la pace eterna.

«Non preoccuparti, bambino mio» gli accarezzò la testa, imbrattando i capelli e la canottiera leggera di denso nettare rossastro. «Ho fatto una brutta cosa e ora ne sto pagando le conseguenze. Avrai una vita difficile, piccolo mio, ma fammi solo una promessa» sussurrò, abbassando sempre di più le palpebre.

«No, mamma, ti prego non mi lasciare. Farò tutto quello che vorrai» la implorò fino allo sfinimento, ma ormai non c'era nulla da fare. Eva stava sprofondando nel sonno perenne e si sarebbe liberata una volta per tutte di una vita non sua.

«Non farmi dimenticare. Guarda il cielo ogni volta che vorrai e io sarò lì a osservarti. Mi dispiace, Samil. Cercami, sempre». Pianse lacrime salate e le palpebre stanche si chiusero un'ultima volta in un mondo utopico in cui era impossibile entrarci.

«Non te ne andare, resta con me» gridò, ma venne strattonato all'improvviso dalle mani forti di Matteo. Venne portato via da tali atrocità, quella scena sarebbe rimasta nella sua mente a uccidere i suoi sogni. Matteo lo rinchiuse a chiave in camera, ma ormai le carte erano già scoperte. Sua moglie era morta per il dispiacere, per tentare un'ultima via di fuga verso qualcosa di migliore. L'aveva distrutta, fatta a pezzi come i suoi maiali all'allevamento. Non l'avrebbe mai perdonata per averlo lasciato solo con due figli da accudire. Provò a risvegliarla, a tamponare le ferite, ma i tagli erano profondi e impossibili da ricucire. Il cuore di Eva si fermò, non aveva più sangue da pompare e restò immobile ad aspettare il suo decadimento, come un muro che si sgretolava dopo anni di usura.

La tempesta fatta di morte e violenza era solo all'inizio.

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