Capitolo 25.

"Tutti dobbiamo morire, tutti quanti, che circo!
Non fosse che per questo dovremmo amarci tutti quanti e invece no, siamo schiacciati dalle banalità, siamo divorati dal nulla."

- Charles Bukowski

⚠️ Attenzione, scene forti ed esplicite ⚠️

Una triste e sofferente musica si librava nell'aria da una finestra aperta, circondata da mattoni rossicci. La melodia faceva da sottofondo alla pioggia scrosciante, cadeva sui tetti, bagnava fognature, la leggera nebbiolina nascondeva i lineamenti aguzzi e austeri di Monteluna all'orizzonte. Il vento cullava le fronde dell'albero di noce, quasi come se stesse danzando in una specie di macabro ballo a ritmo del violoncello.

Alberto era seduto a guardare fuori, piangeva e suonava con trasporto. Le tozze dita a contatto con le corde sottili diventavano aggraziate, delicate e gentili.

Il volto di Liliana non smetteva di tormentarlo, i ricordi erano coltelli affilati e non aveva nessun rimedio per occultarli in un luogo in cui solo sua figlia ne aveva avuto la capacità. Matilde era una tabula rasa, forse qualche ricordo era incastrato tra le pieghe della sua materia grigia, ma quegli occhi così vuoti erano il frutto di un destino crudele. Non era riuscito ad arrivare in tempo a salvarle, Liliana era già morta quando arrivò sul posto, la cullava sulle sue braccia come se dovesse farla addormentare. Il sangue a corrodere la pelle candida e gli occhi spalancati erano rivolti verso la sua piccola figlia. Era rimasta a guardare, a imprimersi per sempre il dolore e la sofferenza negli occhi. Lo sguardo freddo e morente della madre si era aggrappato a quello di Matilde, diventando il suo incubo ricorrente e la fine delle proprie emozioni.

Era successo tutto per colpa della lussuria, di un amore proibito che avrebbe recato solo dolore e discordia. Sapevano entrambi di sbagliare, ma nessuno dei due faceva a meno l'uno dell'altra. Amare qualcuno non era mai facile, ci si poteva bruciare di una brama psicotica, il calore entrava negli organi e spezzava ossa, fino a lasciare solo un mucchio di cenere sul terreno. Nessuno si sarebbe ricordato di quell'affetto, tranne chi aveva avuto la sfortuna di diventare fuoco e morte. Era un dolore sempre presente, non rendeva liberi e si perdeva il senno della ragione, consumando azioni violente senza un briciolo di rimorso.

La passione ossessiva rendeva malvagi chiunque, anche il più docile degli esseri umani.

La musica riempiva le orecchie di Alberto, provava a quietare i dolori, i tormenti più profondi dell'anima. Suo padre gliel'aveva insegnato, era un musicista e avrebbe voluto una vita migliore per suo figlio. Durante la seconda Guerra Mondiale, il violoncello era stato la sua unica salvezza da un orrore ancora peggiore della morte. Suonava nei locali e nei ristoranti per far piacere a maiali ingozzati d'orgoglio, di vittime sulle spalle e di sadico divertimento. Gli aveva insegnato il violoncello per essere libero, andarsene in un luogo migliore e non essere catturato come sua madre.

Quello strumento era stato un lascito importante e un ricordo doloroso in cui annegare il proprio pianto, immergersi nelle note per uscire da una realtà spietata. L'inferno lo aveva visto con i suoi occhi da bambino e ancora era presente dopo tutti quegli anni. Quando si passava troppo tempo in mezzo ai diavoli, si diventava peggio di ogni orrore esistente.

Avrebbe voluto seguire le orme di suo padre, ma la vita aveva altri progetti. La sopravvivenza era più importante e trovare un lavoro come musicista non era facile, soprattutto se si veniva da una famiglia umile. Ritrovatosi a vagare da solo, aveva abbandonato un futuro da violoncellista per avere qualche soldo, un pezzo di pane e un tetto sopra la testa.

Si facevano sempre scelte difficili e sofferte pur di vivere un altro giorno in più. Quando la tristezza e la solitudine si facevano ingombranti, si rifugiava nella musica. La sua anima moriva per un breve periodo di tempo, trascinata da un vortice di cupe melodie che suo padre gli aveva insegnato.

Liliana era arrivata nella sua vita come una tempesta, in tempi difficili aiutava i partigiani e creava camicie con la poca stoffa rimasta o con vecchi teli di paracadute strappati, non più funzionanti. Per le strade di Monteluna, veniva riconosciuta da tutti, era una persona importante e non si tirava indietro a nessuna difficoltà.
Era la sua unica ragione di vita, riusciva ancora a vederla sotto l'effetto allucinogeno della musica. Era in casa, la sua presenza era viva e impregnava le pareti dell'odore di sapone fatto in casa, della cenere del fuoco e della lana pulita ancora da cucire.

Aveva perso tutto, si era lasciato trasportare tra le braccia di qualcun'altra e Liliana sarebbe per sempre rimasta all'oscuro di tutto, si era sacrificata per la pazzia dell'essere umano, per la boria di voler ottenere una vita diversa. Eva l'avrebbe pagata cara, se mai si fossero ritrovati all'inferno, si sarebbe vendicato per aver ucciso a sangue freddo la sua amata, la sua dolce Lilin.

Gli occhi colmi di terrore, il lento e denso liquido scarlatto sull'asfalto caldo del pomeriggio erano gli ultimi ricordi prima dell'oblio. Le margherite cadute a terra e il cesto di vimini erano impregnate di un rosso intenso, simile al colore cremisi dei capelli di Samaele. Tutti erano presenti, nessuno aveva battuto ciglio. Michele aveva un'espressione compiaciuta, la sua stazza si stagliava imponente anche a quell'età. Si era chiesto molte volte da chi avesse ereditato quel corpo così massiccio. Eva e Matteo erano sempre stati molto gracili, ma col passare degli anni si era stufato di cercare risposte, vivendo così nell'ignoto per tutta la vita.

«Mi manchi così tanto, mia piccola Lilin» sussurrò, gocce salate gli rigavano il viso gonfio d'alcool e dalla barba incolta. Le mani non smettevano di suonare, alcune sbavature nelle posizioni delle dita rendevano le note poco orecchiabili, ma i tremori erano insistenti col passare degli anni. Il cuore stanco e affaticato cercava di tenersi stretto le forze rimaste.

Poco prima di finire il brano, una strana presenza si materializzò alle sue spalle. Non si curò di guardarsi attorno, voleva soltanto terminare quella triste musica, ma forse nella sua mente era giunto il momento di andarsene.

D'un tratto, dei passi veloci si fermarono dietro di lui e una violenta onda d'urto gli spaccò quasi il cranio. La musica si fermò di colpo, stonando le ultime note. L'archetto cadde a terra, insieme al violoncello, facendo un rumore sordo, quasi simile a un animale sofferente, mentre lo spirito di Liliana sbiadiva sempre di più.

Alberto cadde dalla sedia, il pavimento tremò sotto i piedi per la sua imponenza, i vetri di una bottiglia di birra erano volati per tutto il perimetro del salotto. Del sangue fuoriuscì dalla nuca, sporcando i capelli brizzolati e la tempia sinistra.

«Come ci si sente a essere la vittima?» domandò una voce giovane e squillante, si avvicinò al suo corpo inerme a terra, mentre con un piede impresse la suola delle scarpe sulle guance di Alberto. Sentiva le forze cedergli per il dolore alle meningi, cercò di girarsi, ma con la coda dell'occhio vide il volto spigoloso, smagrito del giovane e i capelli inumiditi dalla pioggia facevano gocciolare acqua sulla schiena. «Visto che ti piace tanto sfogare la tua frustrazione su tua figlia, su qualsiasi cosa respiri, voglio farti provare ogni tipo di dolore. Non mi fermerò se chiederai pietà» sussurrò l'ultima frase, piegandosi verso lo sguardo stanco dell'uomo. Si sentiva un animale in gabbia, un orso ferito, privato di ogni dignità.

«Come osi entrare in casa mia e prenderti queste libertà. Matilde è mia figlia e la educo come voglio. Tu non sei nessuno per dirmi cosa devo fare» urlò, provando ad alzarsi, ma la sua goffaggine e le piastrelle macchiate di sangue rendevano l'impresa più difficile del previsto.

«Sono l'unico che può salvare Matilde dalle tue follie. Tu l'hai rovinata, la tua boria e il tuo adulterio hanno portato via ogni cosa. Il vero mostro, qui, sei solo tu». Christian cercò di trattenere le lacrime, le iridi chiare come il ghiaccio si circondavano di capillari gonfi di sangue e d'ira repressa. «L'hai fatta vivere nella paura, nell'orrore di vedersi un padre ubriaco fradicio. L'hai presa a schiaffi, frustata fino a farle sanguinare la schiena e questo lo chiami voler bene a qualcuno?» domandò, con tutto il fiato che aveva in corpo. Le vene del collo e della fronte si ingrossavano, riempiendosi di sangue bollente.

Alberto non poteva sentire quelle velenose parole ancora per molto. Ritrovò le forze e con slancio, afferrò la caviglia di Christian e tolse il suo piede dal viso, facendogli perdere l'equilibrio. Cadde di schiena sul pavimento, il dolore al coccige era atroce, Alberto si rialzò, imponendosi con tutta la sua massa fatta di grasso e muscoli.

Prese l'archetto e dei forti fischi si librarono nell'aria. Il legno percuoteva le ossa, infiammava la pelle e apriva ferite, finché non si ruppe del tutto. «Non hai capito niente della vita, Christian. Tua madre ti ha fatto vivere in una bolla di cristallo, non sai cosa significa il rispetto. Ti ha dato troppe libertà, non conosci cosa sia la vera sofferenza». Gridò con tutto il fiato in corpo, la sua voce era gracchiante e cupa al tempo stesso. Somigliava al verso di una bestia feroce, prima di avventarsi sulla preda.

Il giovane si rialzò di scatto, tenendosi un braccio dolorante con l'altra mano. Le ossa non erano rotte, ma le ferite bruciavano come brace ardente. Scappò dall'ira imminente, sapeva di non avere scampo, ma la paura e l'adrenalina facevano fare scelte affrettate. Corse via dalla follia funesta di Alberto, si diresse verso le scale, cercando di sfuggire più volte a unghie dure come il marmo e dita forti simili a morsi di denti famelici.

Gli girava la testa, i passi pesanti e incerti procuravano una precaria stabilità di un corpo troppo pesante. «Vieni qui, bastardo» urlò un'ultima volta al ragazzo, fiondatosi verso l'uscita il più veloce possibile.

Fece in tempo a scendere un paio di scale, i piedi inciamparono sul marmo scivoloso e in quel momento la forza di Alberto si azzerò del tutto. La gravità lo afferrò con tutta la sua forza, come se volesse accoglierlo al suo interno fatto di fuoco e lava. Cadde con violenza sul duro pavimento spigoloso, sentì spezzarsi le ossa, strappare i muscoli e il sangue si propagò ovunque, gocciolando da un precipizio all'altro. Frenò la sua corsa quasi ai piedi di Christian, il volto tumefatto, i denti spaccati e il dolore impresso negli occhi di un uomo distrutto. Aveva compreso di essere in fin di vita, ormai la redenzione l'aveva persa il giorno in cui Liliana era morta tra le sue braccia.

«Guardati, sei patetico. Puzzi di alcool e sangue, non sei altro che un essere inutile. Non meriti di essere il padre di Matilde e non lo sarai mai». Christian si avvicinò all'uomo prendendolo per il colletto della maglia, i loro occhi si scrutavano colmi di lacrime e di rimpianti. Erano sguardi di disprezzo e vergogna, avrebbero fatto orrore anche al peggiore dei demoni. Si torturavano a vicenda con i ricordi e le delusioni scavate all'interno dei loro cuori. Si ferivano con parole peggiori della morte. «Non hai fatto altro che bere, violentare e umiliare gli altri. Dovresti guardarti allo specchio ogni tanto, per vedere che padre di merda sei stato» continuò il giovane, imperterrito a renderlo ancora più indifeso.

«Non sai niente» sussurrò Alberto, sputando grumi di sangue e pezzi di molari. «Non dovresti metterti in mezzo agli affari degli altri, tuo padre non te lo ha mai insegnato?» domandò sarcastico anche davanti alla sua condanna. Ormai non aveva più possibilità di scampo, il corpo urlava dal dolore, il peso del grasso lo soffocava e il cuore cedeva ogni secondo all'inesorabile oblio.

Christian si mise a ridere, sghignazzava come un pazzo uscito dal manicomio. Non si sarebbe fatto ingannare di nuovo, suo padre anche se era un uomo freddo e vuoto d'affetto gli aveva fatto comprendere il rispetto e cosa significasse amare con tutto se stesso. Niente lo avrebbe fermato a compiere atti atroci, solo per assaporare labbra e immergersi nell'ambra più pura. «Mi ha insegnato molte cose, rispetto a te. In compenso, mi hai fatto capire una cosa» rispose, prendendo il fucile dal piccolo armadietto nascosto tra il corridoio delle scale e la porta d'entrata. «Uccidere è un'arte, Alberto», caricò l'arma con alcuni proiettili, mentre altri ne lasciò all'interno delle tasche dei pantaloni. Il peso del metallo e del legno pieno metteva in tensione tutti i muscoli delle braccia. La preda diventava cacciatore e si sarebbe vendicata del suo carnefice. Avrebbe fatto di tutto pur di vederlo soffocare nel suo stesso sangue. «Ti dimostrerò cosa è la vera arte macabra. Ti farò rimpiangere di essere nato» ringhiò a denti stretti, puntando la canna mozza sotto al mento barbuto e flaccido di Alberto.

Afferrò delle pesanti corde di canapa appoggiate fuori vicino al garage, dovevano servire per caricare il fieno nel camion e portarlo agli allevamenti vicini. Quegli spessi filamenti non si sarebbero mai più impregnati del profumo dell'erba, del forte odore della pelle di mucche e maiali. Avrebbero assorbito lacrime, urla di dolore, liquido cremisi e carne in putrefazione. Alberto non fiatò, lasciò che il tempo trascorresse come un fiume in piena, osservò il cielo pieno di nuvole, anche la pioggia fermò la sua corsa verso terra. La natura era spettatrice di un crudele e spietato sadismo di un'anima diventata folle. L'amore accecava la ragione, Matilde lo aveva stregato, ammaliato, ma sapeva di non valere neanche un briciolo di fiducia per sua figlia.

«Tilde, mia piccola dolce bambina, perdonami per tutto ciò che ho fatto» piagnucolò al vento, mentre Christian lo trascinava di peso verso il tronco del secolare noce. Alberto provò ad alzarsi, ma il dolore alle caviglie lo fece urlare come un animale finito tra le grinfie di una trappola soffocante. Stava morendo, lo sentiva nelle sue vene e negli organi rovinati da ossa rotte e bile nera.

«Avresti dovuto dirglielo molti anni fa» urlò il ragazzo, legandolo stretto all'albero. Il grasso di Alberto infuocava i muscoli e soffocava i polmoni, diventando avidi d'aria. Lo sforzo era inumano, ma l'adrenalina in corpo lo rendeva immune a ogni fatica, sopportava in silenzio per dare forma alla propria opera come un sadico scultore.

«Fammi parlare con mia figlia un'ultima volta» implorò di essere liberato. Le aderenti corde gli graffiavano la pelle, comprimevano il petto e facevano uscire sangue sulle ferite aperte. Un filo di bava rossastra colò sul mento, fino ad arrivare a terra con una lentezza irreale, come se anche l'esistenza stessa avesse fermato ogni fruscio, per godersi lo spettacolo goliardico della morte.

Uno sparo si librò nell'aria, Christian aveva perforato un polpaccio ad Alberto. Le urla erano strazianti, la bocca spalancata e le gengive infuocate erano la rappresentazione umana dello struggimento: un martire che scontava la sua pena col dolore. La terra si era imbrattata di schizzi vermigli, l'aria sembrava quasi irrespirabile per l'odore forte di carne bruciata. «Hai già avuto il tuo tempo» lo rimproverò sadico nella voce e feroce nell'anima. Avrebbe avuto la sua vendetta e Matilde sarebbe stata libera di provare ogni emozione esistente. Lui l'avrebbe salvata dal passato e dall'amore incondizionato che lo accecava di incontrollata follia.

«Ti prego, basta» gracchiò, pieno di muco e sofferenza. «Perché lo stai facendo?»

«Amo Matilde più della mia stessa vita, non posso vederla soffrire ancora una volta. Quelle cicatrici sulla schiena, quel dolore impresso sul volto» ansimò colmo di adrenalina, «è solo colpa tua. Le ho fatto una promessa e la manterrò fino alla fine, la proteggerò da ogni male del mondo a ogni costo» rispose con la disperazione segnata nel volto.

Una risata soffocata, mischiata a colpi di tosse uscì dalla labbra di Alberto. «Matilde non ti sceglierebbe nemmeno se fossi stato l'unico uomo sulla terra. Vive anche senza dite. L'essere umano non è stato cacciato dall'Eden per una semplice mela, ma per un tradimento, per un amore non corrisposto. Siamo condannati perché abbiamo preferito il dolore alla pace e così sarà per l'eternità. È ciò che ci spinge a commettere atti immondi, è questa la nostra maledizione. Nessuno può spezzarla, neanche tu. Vivremo con i nostri peccati fino alla fine dei tempi». Gli occhi sgranati, parole deliranti e urla disumane erano il ritratto della follia. Alberto delirava e umiliava il suo carnefice per renderlo partecipe di una crudele realtà.

Christian gli puntò la doppietta sulla fronte, stava quasi per sparare, ma con la coda dell'occhio vide delle taniche di benzina vicino al motore del trattore. La sua dipartita sarebbe stata troppo breve se gli avesse tolto la vita con così troppa facilità. Lo avrebbe fatto soffrire il doppio di tutte le torture subite da Matilde.

«Sai una cosa? Hai ragione» rispose, mentre si allontanava per andare a prendere le pesanti bottiglie sporche di fango e polvere. «Siamo tutti peccatori, uccidiamo, violentiamo, creiamo realtà immaginarie fin quasi a crederci. Facciamo proprio schifo» rise sarcastico, svuotando il liquido freddo dall'odore pungente su tutto il corpo di Alberto. L'uomo possente divenne una semplice preda da uccidere, come la lucertola in quel vicolo stretto e solitario. Ricordava ancora le sue membra sul suo palmo, la sigaretta gli disintegrava organi e squame. Imbrattava la pelle di sangue e catrame, si sentiva come se avesse la vita e la morte in una sola, tremolante mano.

«Voglio farti una domanda» continuò, prendendo l'accendino dalla tasca dei jeans. La fievole fiammella illuminò le iridi di un un mare ghiacciato, in cui navigavano mostri nascosti sotto il pelo dell'acqua. Alberto chiese ancora pietà, alzò il volto verso un illusorio infinito dove cercare perdono nelle preghiere e un Dio sadico che assisteva alle atrocità di uomini folli. «Ti sei mai chiesto com'è l'inferno?»

Osservò il fuoco sulle sue mani, il calore iniziava a essere insopportabile, ma era talmente ammaliato da non provare nessun tormento. Lo cullava come una madre teneva al caldo il proprio figlio vicino al camino durante le sere d'inverno, gli mancavano così tanto quei momenti, ma sapeva di non poterli più riavere indietro.

«Dio, perdonami per tutto ciò che ho fatto» piagnucolò, scosso da tremori e violente palpitazioni al petto.

«Smettila di frignare, non c'è nessun Dio, ha perso le speranze già da molto tempo» gridò, avvicinandosi sempre di più alla figura imponente davanti a sé. «Porgi i saluti da parte mia al diavolo, perché è lì che marcirai. Possa Lucifero divorarti per l'eternità»

«Ti prego, no! Matilde!» gridò di disperazione un'ultima volta, chiamando a squarciagola sua figlia, senza riceve una risposta.

Il fuoco si animò sui vestiti fradici di benzina, divampò come un rogo ardente, il corpo si dimenava, provava a sfuggire al calore incessante, ma in mezzo alle fiamme i diavoli banchettavano con la sua carne. Il fumo nero soffocò le foglie del noce, innalzandosi verso l'alto e in una frazione di secondo Alberto era un tizzone ardente, la pelle bruciata si staccava dal suo corpo; urlava, strepitava per il dolore.

Uno sparo inatteso si protrasse nell'aria fino ad arrivare a colpire in pieno la fronte dell'uomo. Schizzi di sangue, resti di cervello, si sparsero sul tronco dell'albero e altri andarono a finire sul pallido volto di Christian. Le sclere uscivano quasi fuori dalle orbite, si girò di scatto per studiare la traiettoria del proiettile. Quando vide Matilde col fucile in mano e le iridi iniettate di sangue, il suo cuore si fermò per qualche secondo. Restò a guardarla con lo sbigottimento nel volto, la rabbia della ragazza la si poteva leggere nelle sopracciglia affilate, nella mascella contratta e le labbra serrate. La canna dell'arma ancora calda e fumante, era puntata su di lui e seguiva i movimenti compulsivi del respiro affannato di Matilde.

«Che cosa hai fatto a mio padre?» gridò, con la voce spezzata da singhiozzi e un pianto imminente. Si avvicinò al suo carnefice, all'opera d'arte di un macabro pittore. La puzza di bruciato feriva le narici e pezzi di vestiti si libravano nell'aria come foglie morte incandescenti. La cenere si appoggiava gentile sulle guance accaldate e sui capelli corvini di entrambi.

«Ti ho liberata, Matilde. Ho fatto ciò che volevi, ti ho vendicata» rispose con un'isterica ilarità.

Matilde sentì la terra tremare, come se anche la natura si fosse inorridita a tale martirio. Non doveva andare in quel modo, Christian aveva rovinato ogni cosa. Era diventato una mina vagante, un pedone isolato pronto per essere sacrificato. Il sangue le ribollì nelle vene, voleva porre fine alla sua miserabile vita, ma il volto irriconoscibile del padre divenne l'ultima immagine prima di perdere il controllo delle sue azioni e dei suoi sentimenti.

Corse con tutte le forze rimaste, non si sarebbe mai perdonata una disattenzione del genere. Era stata incosciente a lasciare in disparte Christian, aveva perso del tutto la testa e non avrebbe mai perdonato un atto così meschino. Doveva essere lei a doversi vendicare della propria vita, tolta dalle mani di un mostro, di un padre violento e senza scrupoli. Era il suo unico genitore, sangue del proprio sangue e avrebbe dovuto premere lei il grilletto per porre fine a tutte le sue sofferenze, non renderlo un martire. Christian doveva solo essere il suo strumento per togliere ogni traccia, ogni ricordo di un passato atroce.

Si avventò su di lui, facendogli perdere l'equilibrio, il suono sordo dei fucili caduti a terra divenne l'inizio di una lotta senza sosta di due diavoli pronti a distruggersi a vicenda.

«Non avevo bisogno del tuo aiuto, non sei mai servito a niente» disse con tutto il fiato che aveva in corpo, ringhiò rabbiosa, mentre le sue emozioni prendevano il controllo delle sue azioni.

Christian cercò di proteggersi dai suoi schiaffi, dalle percosse e dalle lacrime bollenti. Si sentì sprofondare nelle viscere della terra, non doveva andare in quel modo. Non riusciva a prendere fiato, a parlare con lucidità, era perso in un mondo fatto di silenzio in cui anche i rumori più piccoli erano ovattati.

La afferrò di peso e la scaraventò a terra, mettendosi a cavalcioni sopra di lei, mentre Alberto continuava a bruciare sopra le loro teste.
«Ti ho protetta, Matilde. Ho fatto in modo che tu non vivessi più nel terrore, tuo padre ti ha rovinata e continui a difenderlo? Ha anche rubato i soldi a Matteo solo per sperperarli in alcool e scommesse»

«Mio padre lavorava il grano insieme a Tommaso, ti sei mai chiesto perché mi portavi il pane senza riceve un soldo? Ha sempre aiutato e il tuo caro babbo lo pagava con qualche lira in più per mandare avanti un altro mese. Matteo gli dava una miseria, ma non ha mai toccato un soldo. Ti sei fatto abbindolare senza saperlo, avresti potuto dirlo a Tomà invece di frignare perché non ti ha mai dato le attenzioni che cerchi»

Si presero a pugni fin quasi a sanguinare, gli occhiali di Matilde si ruppero in mille pezzi, una scheggia di vetro le graffiò la guancia, mentre strappava ciocche ricce con le unghie fino a entrargli nel cervello. Con un movimento veloce del piede, si liberò dalla presa e lo colpì alle parti basse facendolo indietreggiare.

La giovane si rialzò, prese la tanica di benzina rimasta e lo annegò nel liquido giallastro, alcune gocce andarono a finire dritte in gola e provò a rimettere per togliere l'amaro dalle labbra secche. Fili sottili di saliva dondolavano ai lati della bocca, cercando di placare il calore all'interno della trachea.

«I-io non lo sapevo», balbettò, provando a scusarsi. «Resta comunque un bastardo, sono stato vicino a te più di qualsiasi altra persona. Ho visto come ti guardava, come ti trattava e non meritavi tutto l'orrore che hai dovuto subire. Ho fatto una promessa la notte che ho dormito da te: Possa io bruciare all'inferno, se decidessi di non voler più restare al tuo fianco. Voglio portarti via da tutto, renderti felice come non lo siamo mai stati. Essere solo io e te». Si fermò a guardarla in ginocchio per alcuni istanti, lacrime trasparenti si mischiarono col volto umido di liquido infiammabile. «Io ti amo. Ho provato a dirtelo in qualsiasi modo, ti ho dimostrato che posso proteggerti e darti tutto ciò che vuoi. Dimmi che provi lo stesso per me e possiamo lasciarci tutto questo alle spalle, ricominciare insieme».

Le ultime parole fecero sbigottire gli occhi di Matilde, il cuore gli massacrò il petto fin quasi a sentirei tremori sulle scapole e sui polmoni. Non percepiva le stesse emozioni quando Samaele pronunciò quella fatidica frase, era in mezzo a un tizzone ardente e doveva scegliere se spegnerlo o continuare a bruciare. Non voleva ascoltare più nessuna supplica, per Christian non c'era posto nel suo eterno palpitare.

Ritornò inespressiva, le braccia lungo i fianchi e il vento a carezzarle i capelli si impregnarono della sua crudeltà. «Io ti odio, Christian. Non sei altro che un'utile pedina, un pezzo in più della scacchiera. Ti volevo bene come una persona fidata, con cui potermi sentire almeno un briciolo simile a un essere vivente normale e con una vita monotona. Hai rovinato tutto, ti odio dal più profondo del mio cuore». Ripeté quella frase più e più volte, fino a urlarlo a squarciagola. La rabbia si era impossessata dei nervi, di tutta la spina dorsale e iniziò a tremare dalla furia imminente che lacerava ogni organo interno per uscire fuori.

In quel momento il tempo si fermò, Christian rimase impassibile, immobile come una statua. Ogni sua emozione era morta nell'esatto momento in cui Matilde lo aveva ripudiato, aveva fallito, ogni suo sforzo era stato vano. Marie Sophie aveva ragione, non poteva più cambiare lo scorrere del tempo, ma solo prolungare l'attesa della sua morte.

Era arrivato al limite, non avrebbe mai retto un'esistenza senza Matilde. I ricordi si fecero insistenti nella mente, rivide due ragazzini intenti a correre per i campi sotto il sole e la pioggia, i pianti, le carezze, le partite a scacchi sotto le lenzuola stese, con una torcia a illuminarli di una fioca luce. Tutto divenne cenere e come ultimo atto disperato si alzò, mettendosi davanti a Matilde che respirava a fatica. Aprì le braccia, come se volesse spiccare il volo, un angelo a cui erano state spezzate le ali e dietro le spalle il fuoco divampava su tutto il noce, l'inferno aveva aperto le porte al mondo terreno.

«Se in un'altra vita dovessimo incontrarci, ti prego, non farmi mai innamorare di te».

Indietreggiò con una lentezza disarmante, il fuoco lo prese con sé tra le sue braccia e come Adamo bruciò per essersi fidato di una donna senza scrupoli, preferendo Lucifero al posto di vivere una vita felice, così fece Christian. La sua pelle ardeva e il calore entrò dentro gli organi, sciogliendoli come burro. Gridò di dolore e disperazione, morì tra le più atroci sofferenze, il suo cuore urlava ancora una volta il nome di chi lo aveva spezzato in un milione di pezzi. Così sarebbe stato per l'eternità, erano destinati a morire ogni volta, a distruggersi nel fuoco di un'amore non corrisposto.

Matilde restò immobile, osservava con la testa piegata da un lato la bellezza della dannazione. Era ammaliata dall'atto più atroce e doloroso che un uomo potesse fare nel nome dell'amore. Le lacrime di Christian erano un piacere per gli occhi, mentre ogni cosa, anche le sequoie vicine zampillavano di luce ardente.

In qualche modo provò a toglierlo dal fuoco, come un riflesso nervoso non dettato dalla sua mente. Sentì uno strano vuoto nel petto e gocce salate fuoriuscirono dalle caruncole. Lo prese per un braccio, ma si ustionò solo una mano, la pelle insieme a quella della vittima si erano fuse come cera di candela. Era rimasta da sola, la natura aveva smesso di cantare, il crepitio lugubre del fuoco, l'odore insopportabile di carne bruciata e sangue in ebollizione divennero lo scenario macabro di un'opera d'arte in cui veniva rappresentata la fine di tutti i peccatori: corpi arsi da fiamme perenni, con i rimorsi a ricoprirli di cenere e terra.

Matilde indietreggiò di qualche passo, finché il rumore del motore di una macchina non sfrecciò verso la fonte della nube di fumo.
La ragazza spaventata dalle conseguenze corse via, imbracciando i fucili e raccogliendo le cartucce.
Si nascose dietro al grande lavatoio, dalla Bianchina azzurra vide uscire Tommaso e urlare come un ossesso per l'orrore di aver perso un figlio, insieme al suo amico più caro.

«'Stian, che cosa hai fatto» gridò al corpo in decomposizione del figlio, provando a spegnere il fuoco con una bacinella d'acqua riempitasi di gocce di pioggia. Lo prese tra le sue braccia e senza sentire il calore dell'epidermide lo cullò come un bambino appena nato: una pietà di un sadico Michelangelo.

Vide le mani del padre tremare come una foglia, senza sapere cosa fare. Provò a guardarsi intorno, la stava cercando, lo si poteva osservare dal dolore stampato nei suoi occhi e dai forti singhiozzi strazianti. Un genitore non dovrebbe mai assistere alla morte di un figlio, perché era uno dei dolori più atroci di qualsiasi tortura infernale: vivere col rimorso di non essere riuscito a salvare il sangue del suo sangue.

Matilde se ne andò, corse per la collina dietro la sua vecchia casa. Voleva dimenticarsi di quel posto, di suo padre e sua madre ormai ritornati ad abbracciarsi dopo una lunga agonia. La morte li aveva riuniti, ma avevano lasciato una figlia in balia della malvagità della vita.

L'erba alta le graffiava i polpacci scoperti, il peso del fucile si faceva sentire a ogni passo. Lo buttò a terra, non le sarebbe più servito. Se ne andò, lasciando la sua adolescenza a bruciare come tizzoni ardenti. Il cielo divenne spettatore di una spietata malvagità, mentre anche lui si colorava di un rosso intenso, avvampando di calore anche le nuvole. Era un tramonto fatto di morte e distruzione, di rimorsi mischiati alla vendetta, di musiche di violoncelli scordati. Il perdono era solo per chi aveva bontà d'animo, ma Matilde non lo era mai stata. Si diresse verso l'allevamento intensivo, per avere un tetto sopra la testa e per chiedere aiuto a qualcuno che non sarebbe mai arrivato a salvarla dal suo delirio, perché il caos lo aveva già divorato all'interno di un vecchio garage.

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