Capitolo 22.

E lasciami alla malinconia,
e lasciami a me stesso
che sono il mio
spietatissimo carnefice.

-Giacomo Leopardi

⚠️ Attenzione, scene violente ed esplicite! ⚠️

Il grugnito dei maiali riempiva la stalla di rumori animaleschi, mischiati a latrati di cuccioli indifesi in cerca della propria madre per succhiare avidi il latte. La puzza di fango e sterco pizzicava le narici di odori nauseabondi. Lo scalpiccio delle zampe sulla terra umida, bagnata di umidità e urina si divertiva a far zampillare gocce scure sui corpi delle bestie gonfie di cibo, affaticati dal peso del grasso. Erano segregati in piccoli spazi costretti a rimanere per intere ore. Le sbarre erano celle unte di polvere e terra, primitive gabbie per non farli disperdere, mentre le mosche banchettavano sulle loro schiene. Erano fastidiose, il rumore delle piccole ali si insinuava prepotente nei timpani e svolazzavano vicino agli occhi e nelle orecchie, facendo irritare e scrollare di nervosismo i corpi pieni di pelo irto.

Michele se ne stava seduto a fumare una sigaretta, indossando il suo solito grembiule blu macchiato di sangue e grasso. La pistola a proiettile captivo si intravedeva dalla protuberanza della grande tasca porta oggetti. La teneva sempre con sé al lavoro, la sua unica fonte di sfogo verso le avversità della vita.

La testa era inarcata verso l'alto, abbandonata all'indietro fissava nel vuoto. Osservava il legno marcio del tetto e la precarietà delle enormi assi inumidite dalle intemperie. Quel posto era così vecchio da cadere a pezzi, suo padre non riusciva a trovare i soldi per restaurarla e Michele non era affatto intenzionato a sborsare neanche una lira per una catapecchia del genere. «Finché dura, fa verdura» diceva sempre Matteo, accompagnando la frase con un leggero sorriso di soddisfazione verso i suoi avi, per aver costruito una solida struttura.

«Che posto di merda» replicò ad alta voce, mentre spingeva dentro i suoi polmoni tabacco bruciato e nicotina. La sigaretta gli pendeva dalle labbra, un fumo grigiastro si innalzava apatico con movimenti lenti e sinuosi verso l'alto. La cenere si disperdeva nell'aria, mentre qualche piccolo e timido raggio di sole giocava a nascondino tra le fughe delle piccole finestrelle. Ululava il vento e dalle fessure entravano piccole colombe per rifugiarsi la notte, un posto sicuro per nascondersi da cacciatori assetati di brama e voglia di uccidere, soddisfare il proprio sadismo su animali innocenti.

Michele era annoiato da tutta quella tranquillità: i maiali accaldati dal sole pomeridiano restavano fermi per non sprecare le poche energie rimaste, altri invece dormivano beati attaccati alle sbarre, lasciando che i loro ventri gonfi e pieni di capezzoli sporgessero oltre i recinti in ferro.

Si alzò di scatto per sgranchire le gambe prima di ritornare nella cella frigorifera a spaccare ossa e tagliare corpi appesi, privi di vita.
Dalla tasca anteriore dei jeans cadde una foto piegata a metà. Era rovinata, consunta dal tempo e sporca di sangue rappreso. Non appena si accorse di averla persa, la riafferrò con lentezza da terra e mentre ritornava sui suoi passi, si soffermò a guardare il sorriso gentile, immutabile di Eva.

«Ciao, mamma. Vedo che anche oggi sei in gran forma» sussurrò cupo, con le folte sopracciglia aggrottate a sottolineare le rughe di rabbia repressa impresse sulla fronte. La schiena incurvata verso il basso rendeva la sua stazza ancora più imponente, una bestia in procinto di scatenare il caos.

Eva se la portava sempre con sé, non la lasciava da sola neanche per un secondo. Quell'immagine era l'unica cosa rimasta di sua madre, dei suoi occhi verdi come i prati in primavera e dei suoi capelli biondi simili al grano bruciato dal sole. Aveva vissuto l'intera adolescenza senza di lei, combattendo con la solitudine, con i rimorsi e le ingiustizie di un fratello che avrebbe dovuto far uscire la verità dalle sue labbra, invece di nascondersi dietro il volto di un animale ferito e innocente. Lo odiava per non averle impedito di suicidarsi, incolparsi di un crimine non suo, ma pur di salvare i propri figli si arrivava anche a sacrificare la vita.

«Non avresti dovuto salvarlo» sibilò con voce rotta da un pianto imminente. Michele non aveva più versato una lacrima, annebbiava il cervello con l'alcool, col fumo e macellava maiali per non farsi preda dei ricordi. Li aveva dimenticati in un angolo buio e sotterrati su uno strato di terra dura e sadica. Le sue perversioni erano cresciute a dismisura, a volte doveva nascondersi per non farsi vedere mentre si masturbava davanti al sangue, alla violenza perversa. Provava un piacere disumano nel vedere i volti contratti di spavento, come se davanti a loro si fosse mateerializzata la morte in carne e ossa. Quel cavaliere tanto temuto, amato da pochi, ma osannato come un angelo per portare con sé anime sofferenti e ignare della cattiveria umana.

Samaele era nato in pieno inverno, in una notte così fredda da congelare anche le tubature esterne delle caldaie. Non ne voleva sapere di uscire, sua madre in preda alle contrazioni urlava fino a staccarsi le corde vocali. Michele era lì a guardarla soffrire, mentre suo fratello la torturava dall'interno. Una volta uscito nel mondo esterno, Matteo aveva notato i suoi colori rossicci, i suoi delicati lineamenti e senza fiatare era uscito dalla stanza per sfogare una furia incontrollata. Aveva avuto il timore di avere davanti un figlio non suo.

Una leggenda popolare di Monteluna raccontava di figli del diavolo dalle sembianze simili a Lucifero, nati da soprusi e violenze o con incantesimi di magia nera. I capelli rossi erano una caratteristica principale, oltre a portare discordia nella famiglia in cui sarebbe cresciuto. Forse Eva si era affidata troppo alle cure di quella strega francese, il seme di Lucifero non portava mai buon auspicio. L'aveva ingannata con parole gentili, con la sicurezza che Dio le avrebbe esaudito tutti i desideri di una vita. Invece quell'essere invisibile non le era mai stato accanto in nessun evento, nemmeno nel dolore di una donna in preda allo struggente desiderio di volere un secondo figlio: accontentare i capricci di un marito assente. Era stato cresciuto con disprezzo e disinteresse, sua madre si vergognava di portarlo in città, la gente del paese lo guardava come se fosse un abominio. Piangeva notti intere, le malelingue trafiggevano più di una lama: dilaniavano l'anima e strappavano il cuore senza pietà. Eva cercava conforto in Dio, nella preghiera e nell'attesa di un giorno migliore, ma dalla nascita di Samaele tutto divenne grigio e spento: i suoi colori accesi avevano cancellato ogni sfumatura del mondo. Aveva portato via anche il sorriso spensierato di Eva dalle labbra, al suo posto c'erano sguardi persi nel vuoto, deliri notturni e profonda depressione.

«Perché la mamma non sta bene?» chiedeva in continuazione il piccolo dalla chioma cremisi, con la sua acuta voce confusa e gli occhi grandi simili a una civetta.
«Si stanca molto presto, sai, ormai non ha la stessa forza di noi due» rispondeva spesso il maggiore per proteggerlo dalla verità, ignaro di star accudendo colui che avrebbe istigato la madre al suicidio.
Michele aveva capito troppo tardi di cosa fosse capace suo fratello. Si era fatto abbindolare dalla dolcezza, dai modi languidi di toccare, dire e fare qualsiasi cosa. Aveva la capacità di entrare nelle profondità più nascoste del cervello e scavare a fondo nei ricordi. Le parole tagliavano come arnesi da macellaio, più affilati di un rasoio da barbiere.

Si era preso cura di lui, stavano bene insieme, ma il giorno dell'incidente aveva visto il male uscire fuori da quel minuscolo pezzo di carne. Ricordava gli spari, il volto sconcertato di Eva e il sangue grondare sulla strada come rivoli di rugiada sciolta al sole cocente di un'estate macchiata di un crimine atroce, distruggendo così la vita di Matilde e di Alberto.

Il colore scarlatto era diventato la sua ossessione, lo vedeva grondare sui polsi di Eva, sul pavimento del bagno, tra le mani del fratello e infine imbrattava le pareti della cella frigorifera in cui si divertiva a scuoiare maiali, a sminuzzarli come se fossero burro.
Al tempo aveva quasi diciotto anni e doveva trovare al più presto lavoro, non era mai andato bene a scuola. Il mestiere da macellaio gli si addiceva e dopo l'ennesima bocciatura alle superiori, si era fatto assumere dal padre. Giocare con le anime innocenti, inermi e deliranti lo eccitavano così tanto da godere nel vedere il sangue fuoriuscire da colli pieni di arterie e capillari. Osservare la vita scivolare via da occhi di ossidiana, tondi e lucidi diventava ogni giorno l'unico modo per non pensare.

In quel momento, però, la testa di Michele era in sovraccarico di ricordi, i muscoli si tesero come corde di violino e le mani cominciarono a tremare. La foto scivolò di nuovo a terra, mentre portò le dita sporche di fango e cruore tra i capelli per far smettere gli orribili ricordi di avvelenare le cellule del corpo.

«Basta, basta, basta! Esci dalla mia testa!» ripeté sempre con più intensità, fin quasi a sentire l'eco della voce rimbombare per tutto l'allevamento. Diede un calcio a un secchio di metallo pieno d'acqua, facendo spaventare alcuni maiali che urlarono come bambini capricciosi.

«Nessuno ti vuole, Samaele, non ti hanno mai amato né la mamma, né nostro padre, ma sei riuscito a rovinare la vita a tutti lo stesso. Mi hai fatto diventare la feccia che sono, dovrei essere felice per questo?» le corde vocali tremavano all'interno della gola, strappandosi fino allo sfinimento. Le lacrime sgorgavano impazzite sulle guance, aveva innescato una reazione a catena devastante, non riusciva più a capire cosa gli stesse succedendo. La ferita sul palmo della mano pulsava come un secondo cuore sotto le bende sporche. Non aveva più il controllo delle proprie azioni, parlava a se stesso e a suo fratello come se potesse sentirlo da qualche parte di quel paese abbandonato da Dio. Gridava al vuoto, al marcio in decomposizione della sua anima, camminava senza una meta come un ossesso. Ansimava col cuore in fiamme e tutta la rabbia distrusse ogni briciola di sanità mentale. Fece uscire un urlo liberatorio, accasciandosi a terra «Sei uno schifo, un rifiuto umano, mio padre la pagherà per questo. È colpa sua! Sua e soltanto sua!»

Gli occhi si iniettarono di sangue, capillari esplosi e pupille dilatate dall'eccitazione, dall'ira che aveva preso possesso degli organi e del cervello. Dentro Michele non scorreva più fluido scarlatto, ma liquido simile alla pece si era dissipato all'interno delle vene.
Le urla sofferenti si propagarono fin oltre al fienile e le tortore erano sparite dalla circolazione. Nessun battito d'ali, solo grida di un uomo delirante e piagnistei di animali dalla voglia di scappare da una mente precaria.

«Non sto bene, padre. Non lo sono più da tempo, non sono più il tuo angelo custode. Gli hai tarpato le ali, l'hai ucciso con le tue stesse mani. Non ti bastavo io come figlio? Perché ne hai voluto un altro, perché non mi hai mai voluto bene?. "Nessuno ti vuole, sei solo merda che cammina, sei una vergogna, la disgrazia più grande che mi sia capitata insieme a tuo fratello". Solo questo riuscivi a dirmi, maledetto!»

Non aveva più fiato per gridare, ma le sclere sbarrate facevano colare rivoli caldi lungo le guance, la bocca aperta piena di dolore e saliva mista a lacrime lasciava ragnatele sottili tra i denti. Si muovevano a ritmo dell'aria espulsa dai polmoni e dalle grida.

Pianse per la mancanza della madre, per una vita buttata nella monotonia, nella noia di un'esistenza insulsa. Voleva solo vivere felice, ma tutti gli avevano insegnato a stare nell'ombra. Si divertiva a fare del male, a torturare coloro che non si meritavano l'esistenza.

«Io ho il diritto di vivere più di tutti gli altri, manderò all'inferno chi ti ha fatto del male, mia dolce madre» disse ancora ad alta voce, mentre si rialzava e osservava con occhi pieni di disprezzo le povere bestie. «Inizierò proprio da te, babbo. Ti porterò via ogni cosa, non solo i tuoi amati maiali, ma anche la vita» la voce si tramutò in una risata isterica, gutturale e con maestria di un sadico cacciatore prese la sua pistola e sparò.

Un colpo.

"Bravo, bambino mio. Distruggi qualsiasi cosa ti ostacoli." La voce di Eva riempiva i suoi timpani come una melodia di violini dalle corde tese.

Un secondo.

"Dio avrà pietà di te, perché sei nel giusto. Devono pagare per tutta la sofferenza, il dolore e il tradimento rimasto a mangiarmi l'anima." Sussurri mefistofelici accarezzavano con dolcezza le guance rigate dal pianto di Michele, mentre con occhi spalancati e i polmoni avidi d'aria si apprestava a uccidere ancora, senza mai un sentimento di rimorso.

Un terzo.

"Uccidili tutti, tesoro mio. Vendicami perché sei l'unico che può riuscirci. Fammi trovare la vera pace. Tuo padre ne pagherà le conseguenze." Le parole ronzavano come mosche, non smettevano di divorare sinapsi e cervello fino a rimanere un ammasso informe di carne in putrefazione. Michele aveva perso del tutto la ragione, i ricordi venivano a galla come vecchi resti di antiche navi, oggetti smarriti in un angolo della propria casa. Si sentiva dimenticato dal resto del mondo, ma prima o poi avrebbe avuto anche lui la sua ribellione.

Tremarono le mura come se anche loro stessero tenendo dentro una bomba pronta a esplodere, gli animali cadevano come mosche avvelenate dai diserbanti. Alcuni si dimenavano con spasmi di dolore, come a chiedersi il perché di quella strana mattanza. Altri si erano accasciati con le bocche aperte e un rivolo di sangue lungo la fronte.

La pistola si fermò subito dopo, aveva finito i chiodi e la gettò a terra, mentre il silenzio tornava a impossessarsi del suo territorio.
Michele aveva le labbra serrate, ma il respiro pesante e la paura di povere bestie impresse nelle iridi scure rendevano la sua presenza un demone appena uscito dall'inferno.

«Tocca a te, caro padre, sto arrivando» sussurrò con un pizzico di ironia nella voce e un sorrisetto sarcastico impresso sulle labbra. Uscì dall'allevamento con ancora gli indumenti sporchi di liquido denso e vermiglio. Si diresse verso casa, mentre i deliri si confondevano con l'aria e laghi di cruore si spargevano a vista d'occhio sotto i suoi piedi. La foto di Eva era rimasta a terra, impregnandosi la carta di sangue innocente, proprio come successe quel pomeriggio di un'estate ormai dimenticata da molti.


Matteo se ne stava all'interno del fienile vicino casa, sistemava le corde per unire zolle di fieno e grano in grossi mazzi per poi portarli all'allevamento il giorno seguente. Il pomeriggio stava pian piano spegnendosi, i colori accesi del cielo terso iniziavano a imbrunire e le nuvole cominciavano a vestirsi dei loro abiti da sera fatti di sfumature rossicce, aranciate, come piccole pesche ancora poco mature.

Il vento faceva muovere le fronde degli alberi, i giochi di luce tra le foglie e i raggi solari si riflettevano sulla terra o sui tetti delle case, dando l'impressione di essere popolato da una marea di minuscole formiche in preda alla loro irrefrenabile corsa, per sfamare colonie intere tra cunicoli di fango secco.

In quei momenti di solitudine Matteo poteva ricordare con spensierata nostalgia le giornate intere passate con sua moglie a raccogliere il grano d'estate, a preparare le passate di pomodoro da vendere in paese o da conservare per l'inverno. Le faticose giornate sotto gli ulivi a raccogliere i frutti per poi portarle al frantoio e condire cibi poveri con delicati sapori fruttati erano attimi di pura felicità. Spensieratezza apparente di un odio nascosto tra le rughe del viso. Restava incantato a guardarla ridere, bearsi delle sue risate durante i pomeriggi afosi o le notti a coccolarsi sotto le coperte erano momenti che non avrebbe mai più rivissuto. Non si era più sposato dalla morte di Eva, viveva per inerzia, andava avanti senza più un motivo per restare ancora in vita. Lei era l'unico raggio di sole nella sua buia esistenza, nonostante le avversità. Ancora non riusciva a perdonarla per la folle azione, lasciarlo da solo con due diavoli da accudire.

A rovinare, profanare la sua purezza era stato Alberto, mentre metteva le sue sudice mani tra le cosce di Eva; la faceva eccitare nel suo letto e senza pudore continuava a riempire di sperma il ventre della compagna più di una volta. Li guardava dall'uscio della porta, il ricordo era così vivido nella testa da riuscire a sentire ancora i gemiti di entrambi nelle orecchie. Erano ancora lì, in mezzo alla paglia e alla polvere: nudi e senza pudore. Gli occhi di Matteo si erano riempiti di lacrime, la rabbia aveva accaldato il sangue nelle vene, voleva prendere il fucile, ma lo aveva lasciato all'interno del portabagagli. Aveva urlato fino a strapparsi le corde vocali, Eva si guardava intorno spaesata, con lo spavento impresso nel viso e con ancora l'eccitazione in corpo era fuggita via portandosi con sé i suoi due figli.

Voleva scappare da lui già da molto tempo, era la punizione per averla picchiata, umiliata e denigrata a causa dei capricci, delle voglie di avere un secondo figlio ed essersi fidata di una strega: la rovina della sua famiglia. Samaele non poteva essere suo figlio, il demonio si era preso gioco di lui e della sua ingenuità. Godeva nel vederlo soffrire e un figlio dai capelli rossi, dal carattere più oscuro della notte era la sua pena terrestre. Lucifero aveva eretto il suo regno nel mondo, nessuno avrebbe avuto il perdono. L'essere umano non meritava di andare in paradiso. Si nasceva peccatori finché la morte non avrebbe fatto l'amore coi suoi amati cadaveri pieni di vermi e fluidi corrosivi. Bocche spalancate, rigide come statue di marmo, a simulare gemiti di piacere strozzati, urla soffocate dal dolore della carne che si staccava dalle ossa.

«Maledetta» gridò, un raptus d'ira gli fece perdere il controllo di sé. Prese una cassa di legno e la scaraventò dall'altra parte di quella bettola, le mani si riempirono di schegge e graffi sanguinolenti. Gocce salate rigarono le gote di scie umide fino a bagnare la barba incolta, perdendosi tra peli brizzolati. Si sistemò gli occhiali dalla montatura rotonda sul naso, mentre un rumore sordo si propagò in tutta la stanza.

La porta si spalancò e la luce del sole contornava la figura imponente del figlio. Michele non era più il suo piccolo scarabeo, era stato mangiato da ragni, avvelenato da vipere e spogliato della sua ingenuità da atti di pura follia.
«Come sta il mio scarabeo?» chiese con voce divertita in ricordo dei vecchi tempi, mentre i suoi occhi color del miele si incastravano in quelli colmi di rabbia del figlio.

«Prova ancora a chiamarmi con quel nomignolo e giuro che ti lascio un trapano nel cervello». Corse con lunghe falcate verso l'artefice del suo inferno. I muscoli delle braccia in tensione, scattanti come fionde pronte a sganciare colpi mortali. Era una macchina di distruzione, una bomba nell'attimo prima di esplodere. Era cresciuto con un ex soldato, la sua esistenza girava in schiaffi, impugnare fucili e nascondere le proprie emozioni. Era stato plasmato per quel momento, la bestia si stava ribellando al creatore.

«Cosa vuoi, allora? Perché hai ancora i vestiti sporchi dell'allevamento? Dio, puzzi peggio delle carogne». La sua faccia contratta a causa dell'odore insopportabile di sangue incrostato sull'epidermide e carne morta si scontrava con il viso aggrottato, sadico di Michele.

«Mi è venuta un po' di nostalgia di quando ero piccolo. Ricordi quando mi facevi giocare al groviglio di corde? Era così bello, sembrava quasi di volare» parlò con finta nostalgia, avvicinandosi di qualche centimetro da Matteo.

«Certo, me lo ricordo, ma non sei un po' troppo cresciuto per questi giochi?» chiese il padre, con il dubbio impresso nelle rughe della fronte e il sopracciglio destro alzato. Si tirò su le maniche, una sua abitudine prima di prendere qualsiasi decisione.
«Chi ha detto che voglio divertirmi?» sorrise sarcastico. «Questa volta tocca a te, babbo». Sottolineò l'ultima parola scandendo ogni sillaba, come se volesse prendersi gioco di lui.

Non fece in tempo a replicare, sentì solo un forte colpo alla testa causato dal calcio della pistola. «Ci siamo arrugginiti, non è vero? Devi prima chiudere gli occhi» rise il figlio di gusto nel vedere il padre perdere i sensi e cadere a terra sbattendo la testa sul terreno polveroso.


Il corpo tirava, le viscere si contraevano, gli organi urlavano di essere slegati e i polsi sfrigolavano a causa delle funi arrotolate strette fin quasi a sanguinare. Fibre di canapa entravano nella pelle e fermavano litri di sangue nelle vene. Poteva sentire il cuore pompare forte nelle tempie, si dimenava come un condannato a morte. Il suo carnefice si era divertito a legarlo durante lo stato di incoscienza, aveva creato un abominio e non avrebbe mai avuto il perdono per tutte le colpe commesse. Aveva fallito e tutto ciò che poteva fare era aspettare la sua morte.

«Che diavolo hai intenzione di fare, Michele?» ringhiò rude, mentre cercava di liberarsi. Più si muoveva, più le corde appese alla trave di legno del tetto si stringevano attorno a lui, era in trappola e poteva solo osservare la pazzia del proprio figlio rivoltarsi contro di lui. Vedeva la sua mano fasciata grondare liquido vermiglio, tremava per il dolore, ma gli occhi iniettati d'odio trasmettevano solo follia e ribellione.

«Ben svegliato, sono ore che attendo. Non preoccuparti, ho solo cambiato un po' le regole» rispose il giovane, mentre girava attorno alla figura paterna, studiandolo come un maiale al macello. «Non avrai mica paura del tuo caro figliolo» lo schernì.
«Giuro che ti prendo a mazzate, slegami subito!» urlò Matteo in preda al panico.

«Come ci si sente a essere in trappola? A restare ancorati tra le quattro mura di casa solo per l'ego smisurato di un padre che ha deciso il futuro del proprio figlio già dalla nascita» sputò velenoso a pochi centimetri di distanza dal volto del padre.
«Non addossare a me la tua vita di merda, avevo altri progetti per te» si sforzò di ribattere, ma il dolore delle funi ancorate al suo corpo appeso erano strazianti.

«Progetti? Tu volevi solo due braccia in più che ti servissero per lavorare, non sei mai stato presente e non ti sei mai preso cura della mamma». Michele gli puntò la canna di una beretta sulla tempia: un vecchio cimelio risalente agli anni della guerra ancora del tutto funzionante. L'aveva trovata tra le armi da caccia nel piccolo armadietto vicino all'entrata di casa. Si era fiondato lì prima di cercare la sua vittima e rendere fine ai suoi giorni sulla terra.

«Non parlare di tua madre, non sai come sono andate realmente le cose. Io l'amavo più di qualsiasi altra persona al mondo» cominciò a piagnucolare, guardando dritto nelle iridi scure di Michele per cercare un barlume di pietà, ma oltre al buio dell'inferno non vedeva nient'altro.

«L'amavi fino a picchiarla, a urlarle della sua inutilità tutte le volte che tornavi a casa la sera ubriaco fradicio. Ti sei sempre sentito superiore agli altri, l'ho visto anche quando hai minacciato Stefano». Riprese fiato per alcuni istanti prima di continuare. «Tu ci godi a vedere la gente soffrire, come hai voluto far soffrire me e la mamma. Soprattutto obbligandola ad avere un altro figlio, perché uno non ti bastava». Avvinghiò una grossa mano sudicia tra le ciocche, facendogli alzare la testa e stringendo ancora le corde su di lui: una dolce tortura da osservare fino alla fine. Gli sferzò un pugno allo stomaco, una lotta impari di vigliacchi senza gloria. Matteo sentì le costole incrinarsi e gli occhiali sfuggirgli dalle tempie, cadendo come foglie in autunno sul pavimento. I vetri delle lenti si ruppero in mille pezzi e la vista divenne sfocata sia dalla paura sia dagli anni troppo pesanti da portare sulle spalle.

«Eva non era una santa come tu credi» sbraitò dal dolore. «Il giorno dell'incidente quando ha cercato di portarvi via l'ho trovata a letto con Alberto. Vi ha manipolati a suo piacimento, non puoi non averlo capito»

«Stai mentendo! Ci stava portando via da te, perché sapeva avresti rovinato la vita a entrambi. Si era presa anche Samaele, pur essendo un figlio non voluto, ma solo un tuo stupido capriccio». Gli sputò in viso, come se fosse solo un pezzo di carne in putrefazione.
«Non ti ha detto la verità» sibilò adenti stretti a causa del dolore insopportabile alle costole.

«Invece mi ha detto tutto, è l'unica che mi abbia compreso, amato. Si è presa cura di tutte le mie malattie. È anche colpa tua se la mamma si è tolta la vita, tu l'hai trascinata nella pazzia, Samaele ne è un esempio. Tu mi hai fatto vivere un'infanzia di negazioni, di torture psicologiche e te ne sei sempre fregato di tutto». Vomitò parole come cascate dopo una tempesta: acqua sporca di terra e fango si trascinava con veemenza verso valle sotterrando tutto ciò che incontrava. «Non mi hai voluto bene, non sei mai stato fiero di me neanche una volta. Sono stato in silenzio per troppo tempo, mi hai fatto diventare ciò che sono e da una parte dovrei ringraziarti perché non provo nessun rimorso. Anzi, ci godo a vederti appeso come un salame con una pistola puntata alla testa.» ridacchiò sadico. Non aveva nessuna pietà, glielo si leggeva tra le sclere colme di capillari incandescenti, pupille dilatate da prendersi quasi tutta l'iride, un buco nero di emozioni diventate cenere.

«Eva ti ha proprio fatto il lavaggio del cervello. Ti ho sempre ripudiato perché hai il suo viso impresso nei lineamenti, lo stesso modo di parlare, l'identica corporatura. Tu non sei mio figlio, sei nato da una perversione malsana». Si fermò per riprendere fiato e osservare lo sgomento impresso negli occhi del figlio. «Vuoi sapere la verità? Non sono mai stato tuo padre e mai lo sarò. Sei l'esatta copia di Alberto, quando ti vedo mi ricordo ancora i suoi gemiti da animale sopra di lei. Mi fai schifo quasi quanto lui». Scoppiò in una risata triste e colma di lacrime amare. «Ha rovinato la vita a tutti quel maiale. Alberto non lo sa, ma l'incidente di Liliana non era casuale. Tua madre aveva già intenzione di farlo da molto tempo.»

Un silenzio glaciale penetrò fin dentro le viscere e le sclere sbigottite di Michele si fecero lucide come specchi. La faccia colma di sudore, di grasso rimasto negli angoli del naso e i bicipiti in tensione erano la rappresentazione dell'incredulità.

«Come fai a saperlo?»

«La prima volta che li ho scoperti è stata quando ti ha concepito. Ero appena tornato da lavoro, tua madre era sempre fredda e distaccata. Non mi diceva neanche più di amarmi. Non la riconoscevo, non era la Eva che avevo sposato.» Tirò su col naso. «La famiglia di Alberto era il prototipo della perfezione per lei, se ne stava a guardarli dalla finestra col binocolo sempre tra le mani. Si era fatta amica Liliana per arrivare ad Alberto, si amavano di nascosto fin quando non li avevo trovati a letto. Qualche settimana dopo il tradimento, tua madre aveva scoperto di essere incinta. Provavo ogni giorno a perdonarla, ma dentro di me sapevo che era sbagliato. Lei era triste con me, mi odiava pur dandole tutto il mio affetto, ma l'alcool faceva uscire tutta la rabbia repressa e mi sfogavo. Ci scopavo quando ero ubriaco e lei non voleva, lei non urlava di piacere, mi gridava di fermarmi, ma volevo un figlio mio e non un bastardo, per questo qualche anno dopo è nato Samaele. Non avrei mai voluto farle del male.» Si contraddiceva come un pazzo scappato da reparti psichiatrici, i ricordi erano vividi nella sua mente fin quasi a essere insopportabili. «Cercavo di volerti bene quando sei nato, ma poi iniziavi ad assomigliare sempre di più ad Alberto. Lui ne è sempre rimasto all'oscuro, ma lo vedo quando ti osserva al lavoro. Prima o poi i sospetti e i dubbi arrivano per tutti». Ansimò rabbioso, con la bava che gli scendeva dalla bocca.

I corpi di entrambi tremarono di fronte a un'assurda verità, un moto perpetuo di eventi già accaduti altre mille volte. Dopotutto le leggende avevano sempre qualche fondo di verità.
Una fragorosa risata rimbombò per tutto il capannone, facendo tremare le assi di legno. Gli uccelli rimasero in silenzio e il vento aveva smesso di ululare tra gli spifferi. Michele era divertito dalle rivelazioni appena ascoltate, non avrebbe mai dato retta a un padre che non sapeva donare affetto neanche a un figlio non suo.

«Che spettacolo patetico, la storiella delle Anime dimenticate non è più credibile. Mi vergogno di averti avuto come padre, non sai prenderti le tue responsabilità. Sei tu la feccia dell'umanità, peccato che la tua morte sia così scenografica. Meriti di essere divorato dai vermi e fatto a pezzi peggio delle carogne.» Alzò il braccio puntandogli la canna della pistola in fronte.

«No, aspetta, fermo non farlo!» urlò per l'ultima volta Matteo, dimenandosi come un forsennato. Le corde stringevano così forte da non sentire più la circolazione sanguigna, soffocava nel suo stesso peccato.
«Marcisci all'inferno» sussurrò freddo, senza più emozioni in corpo, ma con le guance rigate da un pianto strozzato.

Sparò senza pietà.

La terra tremò sotto i loro piedi, la natura quietò il suo gentile canto e l'aria si riempì di un'eco assordante. Un colpo andò a segno nel cranio di Matteo, la testa rivola verso l'alto, la bocca spalancata per l'urlo di dolore, di disperazione, ma nessuno era arrivato a salvarlo. La morte si era presa la sua anima; aveva lasciato che resti di cervello, lacrime e pezzi di carne si sparpagliassero sui muri, sulle corde spesse e su tutto il corpo. Era un bagno di sangue, una statua di un angelo ribelle dalle ali fatte di fibra di canapa, intrappolato nel suo stesso dolore.

Michele buttò a terra la pistola e osservò la sua creazione con devota ammirazione. Toccò il sangue sul viso del padre, si leccò le dita con avidità assaporando liquido denso e vischioso, un sapore quasi idilliaco. Imbrattò il viso del padre di sangue, per poi accarezzarsi le guance: un affetto mancato arrivato soltanto dopo la morte. «Tutto questo disgusto mi eccita. L'essere umano pur di salvarsi arriva a sputare tutta la verità, sperando di essere perdonato. Mio caro padre, non sai con chi hai a che fare. Che gli angeli ti tengano in cielo» disse sarcastico con l'adrenalina ancora in corpo e l'erezione stretta nei pantaloni.

Aveva ucciso il proprio carceriere, poteva sentire le voci mefistofeliche di sua madre congratularsi con lui. Era diventato il suo eroe, la sua pedina preferita. Non era mai stato suo padre, lo aveva cresciuto all'oscuro di tutto, una menzogna diventata verità e per redimersi aveva messo in gioco tutte le sue carte.

Pianse e rise al tempo stesso, si portò le mani tra i capelli per far smettere il caos dentro i suoi organi. Il cuore aveva smesso di battere per alcuni istanti, i polmoni richiedevano aria in continuazione e la vista iniziava ad annebbiarsi. «È tutto così sbagliato» sussurrò, ma al tempo stesso si sentiva appagato senza alcun ripensamento. L'inferno era entrato dentro di lui e i diavoli avrebbero banchettato con i suoi peccati.

Se ne andò barcollante, lasciando la macabra opera d'arte in esposizione al resto del mondo e il sangue a gocciolare, macchiare la terra di un peccato dalle sfumature cremisi, come un orologio dal ticchettio sinistro.

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