Capitolo 20.
Il cigno morente in qualche nordico lago intona il suo canto di morte, sottile e dolce, e come quella musica irrompe nell'aria, già si dissolve per il colle e la valle; così musicale a me pervenne la tua voce, così tremolò sulla tua lingua il mio nome.
-Edgar Allan Poe, Fanny.
«Devi andartene da qui o mio padre ti ucciderà.»
Nudi, stesi su un piccolo letto dalle lenzuola stropicciate, intrise dei loro odori, si accarezzavano la morbida pelle dopo essersi svegliati da una realtà parallela in cui tutto era rimasto immutato. Si lasciavano brividi, stringendosi con le gambe a formare spirali di tempeste, luoghi colmi di lussuria.
Ciocche corvine si perdevano tra la grazia di ricci scarlatti, cenere e fuoco di un rogo mai spento. Samaele la guardava ammaliato, incredulo nell'aver avuto l'opportunità di entrare in un mondo fatto di silenzi, di baci dal sapore di sangue e di movimenti sensuali al limite dell'eccitazione. Avrebbe voluto vivere in quelle quattro mura, sigillare la porta e morire di stenti al fianco di Matilde. Si sarebbero nutriti a vicenda, esistiti finché i loro corpi avrebbero esalato odori di decomposizione: un loculo dove poter riposare le proprie stanche membra, seppelliti dai ricordi e da una felicità mancata.
«Morirei comunque, non posso tornare a casa e non riuscirei a starti lontano. Se devo marcire all'inferno, voglio scegliere almeno come andarmene da questo mondo.»
Al sentire parole così deliranti, la ragazza si mise di scatto a cavalcioni sopra di lui. I loro corpi vibravano a ogni movimento, come se percepissero le emozioni l'uno dell'altra nascoste sotto strati di pelle e muscoli. Matilde lo guardò con le sopracciglia aggrottate e la bocca serrata, avrebbe voluto urlargli quanto fosse infantile a pensare di farla finita, ma si limitò a trovare le parole giuste per spiegargli la retta via da seguire.
«Scegliere come morire?» domandò, facendo saettare le iridi da una parte all'altra per osservare con attenzione dettagli vermigli. Le ferite avevano placato il loro copioso sanguinare, la cucitura reggeva, ma vederlo in quello stato, nudo sotto di sé, lasciava un vuoto incolmabile dentro gli organi. «Non è la mossa giusta far vincere gli altri. Si vede che non hai mai giocato a scacchi». Accennò a un leggero sorriso, mentre una mano solcava onde, avvallamenti di costole in continuo movimento. Se avesse premuto più forte, avrebbe potuto percepire i polmoni riempirsi d'aria sotto i tocchi dei polpastrelli, curiosi di avventurarsi in zone mai esplorate.
«Come dovrei fare, secondo te?» sussurrò, mentre le pupille venivano ammaliate da una bellezza disarmante.
«Lo scopo degli scacchi è quello di intrappolare il re avversario, non devi dare nessuna possibilità di scampo e far perdere la partita al tuo nemico. Si fanno mosse d'astuzia, si creano schemi, inganni e perfino sacrifici», parlò languida, mentre l'indice e il medio si divertivano a camminare sopra il petto di Samaele come due pedine in una scacchiera, mimando mosse in cui poter immergere la propria immaginazione. «Per togliere di mezzo chi ci ha rovinato la vita, non è mettersi un cappio intorno al collo o uccidersi con un proiettile in testa, no...». Fece una pausa di qualche minuto, ripensando a tutte le volte in cui provò la sensazione di tenere la canna della Beretta del padre puntata sulla propria tempia. Anni passati a rimpiangere il giorno della morte di Liliana, dei fiori sparsi sulla sua tomba e non poterla più chiamare mamma. «Se siamo ancora qui, c'è un motivo preciso, non siamo solo nati per soffrire. Da essa nascono le migliori vendette. Abbiamo la possibilità di giocarci una partita e le occasioni non vanno mai sprecate. Li prenderemo uno a uno, faremo loro tutte le violenze subite e ti aiuterò, ma prima promettimi che tornerai a casa. Qui non puoi stare, non ancora. Mio padre non ti vuole e non avrebbe rimpianti a lasciarti un proiettile nel cranio, ma io non posso perderti», sputò le ultime parole con tutto il fiato rimasto in sospeso tra la trachea e l'esofago. Non aveva mai detto nulla del genere nella sua vita, nemmeno a Christian. Qualcosa nel suo cervello scattò e un ricordo simile a un flash di una vecchia macchina fotografica si palesò tra gli ingranaggi assopiti del cervello.
Due ragazzini che si divertivano a correre in mezzo ai campi, ridevano senza pensare a nulla e si tenevano per mano, mentre le gambe nude venivano frustate dagli steli del grano ancora poco maturo, onde verdi in mezzo a campi soleggiati.
Lo aveva già conosciuto, i loro corpi si erano toccati, assaporati molto tempo fa, ma nessuno dei due aveva la piena certezza di cosa nascondesse il passato.
«Quindi il tuo piano è uccidere», sentenziò infine Samaele, mettendosi seduto per imprimere il suo ventre con quello di Matilde. Le accarezzò la schiena piena di cicatrici, dita di un pianista in cerca della melodia perfetta, mentre il silenzio rendeva l'attesa delle parole della giovane sempre più straziante.
«È l'unico modo, Samaele, potremo vivere di nuovo, toglierci il peso della sofferenza per sempre. Saremo liberi da tutte le nostre maledizioni.»
Accarezzò con gentilezza il mento spigoloso, accogliendo nel proprio palmo la morbidezza di zigomi pieni d'efelidi e facendo intrecciare le falangi tra corone solari colme di sangue denso.
«Tu non hai idea di chi io sia, non è vero?» sussurrò, con voce grave come se non volesse far percepire i propri pensieri.
Matilde scosse la testa in senso di diniego, ma il corpo fremeva quando la sua presenza si faceva sentire fin dentro le ossa. «Il mio cervello ha perso dei ricordi dal giorno della morte di mia madre, ma quando i miei occhi ti scrutano ho la netta sensazione di averti già conosciuto. Non so in quale anno o epoca, ma ogni volta che ti osservo, non riesco a smettere di tremare.»
Era la prima volta, dopo anni rimasta a fissare il vuoto, in cui un inizio di sentimento stava uscendo fuori dalle sue labbra. Un lieve bagliore negli occhi d'ambra si riflesse nella cornea, raggi pieni di pulviscolo colpirono i volti dei due giovani, illuminando pelli lattee e gote arrossate.
«Continuano a ripetermi di starti lontano perché ho fatto azioni orribili, l'unica cosa che ricordo era mia madre ricoperta di sangue nella sua vasca. Non ho memoria, ma mio fratello continua ogni giorno a negarmi l'esistenza, si nutre della mia paura per vendicarsi al posto della mamma». Fece una lunga pausa a causa della voce spezzata da un pianto imminente, le parole erano macigni e il peso era insopportabile. «Credimi, qualsiasi cosa io abbia fatto, non sono un mostro». Si scostò da lei per osservarla da lontano, mentre i loro corpi ancora nudi si riscaldavano con il calore del sole. «Guardami, come potrei fare del male? A causa dei miei lineamenti vengo additato per qualsiasi crimine. Qui credono a una storia biblica vecchia di secoli e ancora non capisco di cosa si tratti. Mi sputano addosso sentenze come se fossi il diavolo in persona, ma il mio unico scopo in questa maledetta vita è trovare pace. Non ne posso più di vivere in questo modo.»
Un silenzio assordante calò su di loro, lo sguardo glaciale di Matilde rimase per alcuni secondi a ispezionare ombre rimaste impigliate sotto le palpebre. Con uno slancio quasi felino, si alzò mostrando le curve dei fianchi e dei seni al tepore del pomeriggio. Si mise una vecchia canotta bianca, abbandonata sullo schienale della sedia in legno, non curante degli occhi colmi di estasi di Samaele.
Andò verso la sua borsa dove conteneva oggetti dimenticati, raccolti nel vicino boschetto o durante le ronde di caccia insieme a suo padre. Era pieno di bossoli esplosi, cartucce, oggettini di creta simili a piccoli portafortuna, fischietti per allodole e infine la corda di canapa ancora intrisa dell'odore di morte. L'afferrò con violenza e ritornò verso il giovane incuriosito dal suo strano atteggiamento.
Si fiondò su di lui e gli rimise il cappio intorno al collo. Non fece nessun movimento brusco, era rimasto incantato finché non sentì la stretta presa dell'inferno farsi strada sulla sua pelle martoriata e gonfia.
«Cosa diavolo stai facendo? Perché hai ancora il cappio?» domandò con la voce strozzata e la schiena bloccata dal muro della stanza. Matilde tirava verso l'alto, mentre guardava il nodo scorsoio stringersi come un boa dopo aver catturato la sua preda.
«Ciò che stai dicendo sono le stesse frasi deliranti sputate nell'istante in cui ti ho salvato da morte certa, ma erano più convincenti quando eri sul punto di spirare. Sono parole di uno che si arrende, vuoi essere come tutti gli altri? Piangerti addosso per colpe che hai o non hai commesso non servirà a nulla. Se è ciò che vuoi ti accontento subito, dopotutto volevi morire l'altra volta, sarai contento adesso di andartene da questa maledetta terra.»
Samaele ansimò, mentre il corpo di Matilde si faceva sempre più imponente davanti a sé. «Non vado da nessuna parte senza di te.»
«Punta alle debolezze altrui e fanne tesoro per colpire al momento giusto. Così si ottiene la pace». Deliri di una giovane mente alle prese con i suoi pensieri. Vorticavano come tempeste, tutto stava andando al posto giusto e i suoi schemi iniziavano a prendere vita tra le pieghe della materia grigia, per poter vincere l'agognata partita a scacchi contro l'esistenza.
«Come dovrei fare? Spiegami». Le corde vocali raschiavano la gola, mentre il cappio si divertiva a giocare con la sua vita. Matilde era diventata il suo unico dio, avrebbe decretato lei come sarebbe morto e non avrebbe potuto desiderare di meglio.
«Facendo credere loro che Lucifero è tornato sotto mentite spoglie» sussurrò a fior di labbra, mentre sentiva tra le gambe l'erezione del giovane farsi sempre più invadente.
Erano un misto di lussuria e perversione, vita e morte al tempo stesso. Si amalgamavano come l'acqua e il sangue, mentre le loro anime cercavano in tutti i modi di trovare la propria rivincita. Il dolore e la tristezza li avevano cambiati, resi vittime di abusi psicologici fino a farli cedere nella pazzia. L'unica salvezza era eliminare tutti coloro che avevano osato intralciare il loro cammino. Esistenze interrotte a causa delle malelingue e da azioni involontarie, ricordi sconnessi di un passato ormai perso.
Tornarono a baciarsi con foga, le lingue si cercavano, si amalgamavano una nella bocca dell'altro e suggellavano il loro patto lussurioso. Dita curiose si intrecciavano tra ricci scarlatti e piume di corvo, somigliavano alla brace prima che il fuoco si spegnesse in un eccesso di fumo asfissiante. Nessuno avrebbe potuto intralciare il piano di Matilde, era studiato nei minimi dettagli e la vittoria per lo scacco matto era vicina. Almeno, era ciò che credeva.
Il cappio era rimasto a penzolare sul collo di Samaele e si era sporcato di sangue a causa della ferita sotto al mento. Qualche punto era saltato, ma ormai nulla poteva lasciar libero sfogo a fiotti di sangue vermiglio. Piccole e sottili mani si apprestavano a toglierlo per sempre dalla pelle lacerata e dal bruciore della necrosi ancorata su fili di canapa.
«Questa è meglio se la tengo io» sussurrò Matilde, sfiorando le labbra del giovane con le sue.
«Voglio farla pagare a mio fratello. Deve prendersi ciò che si merita». Sputò fuori velenoso; Michele aveva superato il limite. Era andato oltre il confine della pazzia, aveva reso la sua vita un inferno. Al fianco di Matilde, però, tutto sembrava più semplice perché stava ritrovando la forza di reagire e di non nascondersi mai più dietro pianti sommessi e lenzuola stropicciate.
«Arriverà anche per lui la sua sconfitta, ma per adesso facciamogli credere di avere ancora potere su di te e sugli altri.»
«Farà la stessa fine dei suoi amati maiali?» domandò ironico Samaele, con un sottile sorriso a contornare gli angoli delle labbra.
«Sarà ancora peggio». Una risata gutturale si propagò all'interno delle quattro mura. Samaele era estasiato dalla melodia delle sue corde vocali, non era spaventato, anzi, faceva risalire tra gli angoli bui del suo cervello stralci di ricordi di quando era bambino. Un istante durato un bagliore di una stella cadente, aveva rivisto il volto morbido di una bambina dai capelli scuri. La strada faceva da sfondo con gli alberi rigogliosi di foglie e la calura estiva arrossava le guance. Una piccola Matilde lo studiava con curiosità ed estrema ammirazione, ma non appena spostò in basso il viso, l'ombra della canna di un fucile impugnata salda tra le mani lo ridestò dai suoi pensieri.
«Che hai?» chiese Matilde, vedendolo sussultare. Si stava rivestendo e mentre nascondeva le curve del suo seno dietro veli di un vestito verde smeraldo, gli occhi del ragazzo puntarono dritti nell'ambra più pura.
Batté le palpebre per alcuni istanti, ma non rispose alla sua domanda. Si lasciò sfuggire un sommesso «Niente», per calmare le sue preoccupazioni. Riservò quello strano momento per se stesso, qualcosa dentro di lui si stava risvegliando, ma nulla era paragonabile alla sensazione di morte provata all'interno del petto nel momento esatto in cui vide l'arma tra le braccia. Non era andata in quel modo, Michele si sbagliava e stava mescolando i suoi ricordi come un serpente a sonagli girava intorno alla propria preda per distrarla, ammaliarla con il rumore della coda e attaccare al momento giusto.
Rimase a guardarla rivestirsi e nell'istante in cui Samaele ricompose i suoi pezzi sotto stracci di vestiti, un rombo di una macchina fece eco da dietro le finestre.
Matilde si pietrificò, suo padre era tornato, riusciva a riconoscere il motore del fuoristrada a metri di distanza.
«Nasconditi in soffitta, ti dico io quando puoi andartene. Non ti troverà di sopra, fidati». Lo accompagnò in tutta fretta verso le strette scale in legno nascoste all'interno di una piccola porta bianca. Accese la luce e lo lasciò entrare.
«Tornerai, non è vero?» gli domandò con la paura intrisa nella voce. Aveva il terrore di essere ucciso, Alberto incuteva timore anche al più innocuo degli animali.
«Tilde!» urlò il padre dall'entrata principale. Sentì il legno e la serratura collidere con violenza sotto il tocco rude di mani tozze e callose.
«Io torno sempre» sussurrò e chiuse l'uscio della soffitta a chiave. Avrebbe preso un po' di polvere, ma almeno aveva salva la vita.
Si diresse di sotto, il viso freddo e i movimenti meccanici dei piedi la rendevano quasi inumana. Davanti ad Alberto prendeva le sembianze di una scultura in marmo. Rimase a guardarlo dall'alto delle scale, lasciandola in bilico tra il piano superiore e il salotto. Da quell'angolazione riusciva ad avere un ampio raggio di osservazione.
«Matilde», disse con voce dolce, non appena si accorse di sua figlia ferma sui gradini. «Guarda che cosati ho portato, vieni». Le fece cenno di avvicinarsi, come un buon samaritano cerca di accarezzare un cucciolo rimasto solo.
Con la paura e la curiosità nascoste tra velate rughe sulla fronte, Matilde scese gli ultimi gradini.
«Tomà, aiutami a portarlo in casa» gridò ancora Alberto, scomparendo dietro il muro che separava il salotto dalla cucina. Aveva riaperto la porta d'entrata e dei passi pesanti tornarono imperterriti a farsi sentire, ma oltre alla voce del padre ce n'era un'altra più gracchiante e nasale.
«Attento a non farlo sbattere con la parete o il legno si rovinerà» disse Tommaso, mentre appoggiava l'oggetto celato dentro una custodia in pelle scura.
«Lo riconosci?» indicò con ingenua felicità lo strumento rimasto a terra.
«Sei riuscito a riprenderti il violoncello» sussurrò senza entusiasmo, ma con gli occhi luminosi di letizia nel rivedere tra le mura di casa l'unico lascito di sua madre.
«Tuo padre lo aveva scommesso a una partita a carte, ricordo ancora il giorno in cui Liliana glielo aveva lasciato sotto casa la mattina del suo compleanno, era una brava donna tua madre. È giusto rimanga qui e non in chissà quale magazzino a prendere polvere». Il racconto di Tommaso fece quietare gli animi di un uomo distrutto dalla vita e di una figlia rimasta senza una madre per troppo tempo.
«Grazie, per averlo riportato» aggiunse la giovane, sbalordendo i presenti. Non aveva mai ringraziato in un modo così genuino e spontaneo, come se un briciolo di umanità fosse riapparsa in lei dopo anni nascosta in un buio fatto di amnesie e incubi.
Tommaso si avvicinò all'orecchio di Alberto e prima di andarsene sussurrò parole poco rassicuranti: «Fai in modo che rimanga qui, non tornerò una seconda volta a casa di Matteo per riaverlo indietro. Dovrai sbrigartela da solo d'ora in poi.»
L'amico non rispose, contemplava con occhi malinconici il violoncello e ogni tanto pizzicava le corde per sentire ancora la vibrazione sotto i suoi callosi polpastrelli.
«Lasciami in pace, Tomà, ora voglio solo restare da solo con mia figlia» rispose con l'affanno nella voce e la testa china. La barba incolta gli copriva il collo e la pelle piena di grasso e capillari rotti.
Tommaso salutò la ragazza con un accenno di sorriso e se ne tornò sui suoi passi, chiudendo piano la porta. Il silenzio si impossessò della casa e le orecchie cominciarono a fischiare per quanto riuscisse a essere così ingombrante e opprimente.
«Come hai potuto darlo via», sibilò Matilde, «avrei preferito vedere i fucili sparire invece del violoncello. È come se non ti importasse più della mamma.»
Le sopracciglia folte del padre si aggrottarono, le rughe sulla fronte si fecero più evidenti e il volto si rabbuiò d'ira. Odiava sentirsi dire la verità in faccia, più provava a spegnere i suoi demoni, più tornavano a tormentarlo. Avrebbe preferito essere sparato in fronte invece di sentire parole taglienti, simili alla lama di un coltello che trapassavano muscoli e spezzavano vene.
Si alzò di scatto dalla sedia della cucina e si diresse con furia verso Matilde. Rimase immobile, pronta ad affrontarlo, consapevole di trovare nuove ferite di sadica violenza lungo il corpo. I loro visi erano vicini, ma la presenza dello strumento fece da barriera e salvò la giovane da una violenza imminente.
«Finché sarai sotto il mio tetto, farai ciò che dico io e non ti azzardare mai più a dirmi cosa fare. Sei tu quella che deve ubbidire e non mi sembra tu stia facendo un ottimo lavoro, Tilde. Soprattutto, è ora che inizi a lavorare. Quindi, preparati a dover pulire litri di sangue di maiale ogni giorno, perché sarà quello il tuo futuro.»
Sentire parole così crude e piene d'odio fecero rabbrividire l'anima di Matilde. Venne scossa da tremori lungo tutta la spina dorsale fino ad arrivare alle mani. Spasmi involontari dove albergava un istinto primordiale di uccidere e fare male. Avrebbe voluto vederlo morire agonizzante nel proprio sangue e nel delirio più assoluto. Vedergli perdere l'ultimo respiro oltre alla poca dignità rimasta.
La giovane non parlò, si limitò a far sprofondare lo sguardo in quello di Alberto. Le loro iridi ambrate facevano a gara a chi affondavano per prime nell'agonia. Suo padre era un uomo finito, se n'era andato il giorno in cui vide morire la sua dolce Lilin in braccio con un proiettile conficcato nel ventre. Attimi rimasti indelebili nella mente, nemmeno l'alcool di birre scadenti avrebbe potuto cancellare un dolore così forte da far esplodere il cervello. «Vado a portarlo in camera mia, tu vedi di non disturbarmi» parlò di nuovo Alberto senza aspettare una risposta dalla figlia.
Si incamminò verso la sua stanza e si richiuse la porta alle spalle. Matilde, con una prontezza felina, si precipitò al piano di sopra per tornare da Samaele rimasto rinchiuso in soffitta per tutto il tempo.
Non appena fu davanti la bianca porta, ammaccata dal tempo, un suono cupo, ovattato dalle mura spesse, si propagò nella casa. Alberto era tornato a suonare il suo amato violoncello e la melodia macabra e malinconica colpì i timpani di Matilde. Si ritrovò Samaele accucciato sulle scalette in legno che portavano al piccolo pianerottolo ricolmo di cianfrusaglie. Il gioco di luci e ombre dava sfogo alle intense sfumature scarlatte; prendevano vita come una stella in procinto di esaurire ogni sua composizione chimica di gas e metalli.
«Questa musica, la conosco benissimo. È una vecchia canzone di Don Backy, Tu piangevi» disse a bassa voce Samaele, con le lacrime a fior di ciglia. «Era la preferita di mia madre».
Il mondo iniziò a tremare ai loro piedi. L'esistenza stessa cominciò a diventare una mera illusione. Matilde rimase interdetta, con le labbra semichiuse, mentre lo vide alzarsi e andare via.
«Non può essere, come puoi conoscerla, la mamma ascoltava sempre i suoi dischi in vinile, li aveva addirittura consumati. Mio padre l'aveva imparata anche al violoncello, la suonava sempre quando era triste» proferì titubante, senza farsi scoprire da Alberto.
«Tutti noi nascondiamo segreti, forse non era così tanto devoto a tua madre come lui va raccontando.»
Parole mefistofeliche si librarono nell'aria e con le stesse movenze del diavolo se ne andò non lasciando alcuna spiegazione, ma solo una verità raccontata a metà.
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