Capitolo 2.
Tra le fughe nere delle piastrelle color perla, leggermente ingiallite dagli anni, e il buio della stanza, si nascondeva un quadro di una bellezza rara. Era illuminato solo dai candidi raggi del sole estivo, i quali, se visti da una certa angolazione, creavano una sottile tenda simile al pizzo, dove all'interno si potevano ammirare esili filamenti di polvere. Volteggiavano leggiadri in mezzo alla tenue luce e sbucavano da una piccola finestra in alto, chiusa da una grata in ferro battuto; era la raffigurazione pittorica dell'universo stesso. Appena incontravano l'oscurità dell'ombra, sparivano inghiottiti dall'abisso perenne e dimenticati da occhi poco attenti.
Sotto il gentile bagliore, una vasca bianca come la neve si estendeva su tutta la parete opposta alla porta in legno scuro, rimasta socchiusa. Delle onde di fumo danzavano nell'aria, come panni stesi al sole in una giornata di vento. Tra il mischiarsi del calore dell'acqua trasparente e degli assonnati raggi, una testa piena di ricci rossi faceva capolino sul bordo laccato, reso scivoloso dall'umidità, insieme alle ginocchia sottili e scheletriche.
Completamente nudo, cullato dall'affetto di un'acqua dolce, soporifera, Samaele cercava conforto nell'abbraccio apparente del torpore simile al liquido amniotico che nessuno, a parte quegli attimi di pura solitudine, riusciva a donargli. Se ne stava nascosto, curve morbide abbandonate sul fondo, con le palpebre semichiuse e le labbra violacee tremanti, ad alleviare i suoi dolori, a guarire gli ematomi ramificati sul magro petto, sulle delicate braccia da sembrare nebulose, agglomerati di polvere e vene spezzate. Le efelidi riempivano il volto come una galassia in miniatura, si diffondevano fino alle spalle rendendogli l'epidermide imperfetta. Il suo candore e i brividi della carne non sprofondata nell'acqua calda si mimetizzavano con l'ambiente, se non fosse stato per la sua chioma carminia, dello stesso intenso colore del sangue, sarebbe sparito tra l'intonaco e le piastrelle. Forse avrebbe solo alleviato le sue sofferenze, la sua perenne tristezza in cui era sprofondato. Non poteva morire in quella tinozza, non voleva essere trovato dalla sua famiglia e guardare la soddisfazione impressa nei loro volti. Voleva andarsene da solo, in un posto dove nessuno sarebbe andato a cercarlo. Gli unici testimoni sarebbero stati il vento, trasportatore di urla strozzate, e i vermi, mangiatori insaziabili di carne in putrefazione.
Però, non era quello il giorno.
Delle carezze naturali arrossavano le gote delicate di Samaele, perso in qualche angolo remoto del suo cervello. Gli occhi chiari sotto le palpebre sottili si muovevano a destra e a sinistra, come se stessero guardando un film troppo cruento. Non dormiva la notte a causa delle urla assordanti di un uomo, la cui voce avrebbe fatto gelare il sangue anche al più insignificante angelo caduto sulla terra, mischiate con la puzza d'alcool stagnante da impregnare le stanze di un fetore putrido.
Quella mattina era troppo tranquilla, si era alzato con un fischio sordo nei timpani. L'ombra oscura del padre nelle prime ore del giorno non vagava per i corridoi, era andato insieme a suo fratello maggiore a uccidere selvaggina e gestire l'allevamento di polli e maiali poco più a valle. La puzza di sterco entrava nelle narici già a chilometri di distanza, odore di morte e urla strazianti di animali innocenti. Non riusciva a entrare in quel posto, pizzicava la gola del suo sapore di sangue raffermo e della malsana aria consumata, fienili stracolmi di esseri viventi.
Avrebbe voluto restare lì per sempre, fermare il tempo, imprigionare tutti in un loop continuo, solo per essere lasciato in pace. Si passò una mano bagnata sugli occhi per cercare di svegliarsi dal torpore dolce e ammaliante. Le unghie mangiucchiate e scheggiate formavano dei piccoli semicerchi sopra le dita lunghe e affusolate, evidenziando il rossore dei polpastrelli. L'acqua si increspò leggermente, creando piccole onde superficiali da espandersi fino alla punta dei piedi. Voleva far smettere l'incessante movimento dei suoi pensieri, dei suoi ricordi più tristi, ma dentro di lui regnava il caos più totale, un buco nero pronto a far esplodere ogni organo vitale.
Spalancò le palpebre per far uscire allo scoperto il candore delle sue sclere. Occhi verdognoli con milioni di sfumature tendenti al giallo e al marrone. Nessuno riusciva a capire di che colore fossero, un misto di tempere le quali non si sono mai mischiate tra di loro, formando chiazze cangianti da renderle più evidenti sotto la luce diretta del sole. Erano magnetici, grazie al suo sguardo allungato quasi come quello di un cervo, riusciva a catturare tra le sue ciglia lunghe e chiare, una coltre di piccoli atomi di polvere amalgamati a gocce microscopiche da sembrare rugiada: brina sciolta da bagliori cocenti.
Sospirò più volte, sentiva le lacrime pizzicargli i nervi a causa del sale maledetto da ingrossare radici capillariche di un fiore morente. Con un colpo di spalle fece scendere la testa sott'acqua, bagnandosi la soffice coltre di seta rossa. Un corallo raro, da poter osservare solo in un determinato ambiente. Impercettibili bolle d'ossigeno si unirono con le efelidi del volto, scoppiettando o muovendosi verso la superficie, come piccoli pesciolini curiosi.
Chiuse gli occhi di scatto, in mezzo ai raggi caldi estivi, la sua mente vagò formando brevi istanti sfuocati, tra il rossore delle palpebre e le vene infiammate dalla luce solare.
C'era sangue ovunque, sul pavimento, sulla parete, sul tappeto del bagno. Riempiva la vasca di icore carminio, usciva a fiumi tra le crepe dei suoi polsi. Lui era lì, di fianco al corpo senza vita di sua madre a urlarle di fermarsi, di non lasciarlo da solo. Le vene rotte e scoperte della figura femminile, stanca di una vita in cui non avrebbe mai potuto essere felice, si abbandonavano finalmente alla pace eterna.
La colpa era solo sua, un bambino nato diverso, un frutto del male, di una fattura alla quale non si poteva porre rimedio. Le sue piccole mani si imbrattarono di liquido denso, simile al colore dei suoi capelli. Cercò di fermare torrenti in piena con correnti troppo violente da contrastare solo con due palmi di mani innocenti. Urla isteriche di un padre diventato maligno, per delle accuse infondate su di lui. I pianti e l'odio di suo fratello nei suoi confronti, gridandogli di essere figlio di Lucifero stesso. Sua madre si era macchiata di uno sbaglio a cui non era riuscita a porre rimedio, si sacrificò per non assistere alla disfatta. Lei era fedele alla Chiesa e non avrebbe voluto crescere un figlio malato già dalla nascita.
Anche il suo nome era la reincarnazione stessa del male. Tutto riportava, i suoi genitori non avevano dimostrato affetto verso una creatura disumana, neanche il sangue del suo sangue.
A un tratto, come un lampo a ciel sereno, la scena che lo perseguitava da anni svanì per lasciare spazio a una casa in mattoni rossi. Era lontana qualche centinaio di metri, ma quell'immagine rimase impressa tra l'oscurità delle sue pupille e le iridi allocroiche. Sentiva un pizzicore diverso, non era rabbia o l'odio represso per essere stato abbandonato a se stesso, qualcosa scorreva nelle sue vene, ma non riusciva a comprenderlo.
Dopotutto erano i suoi vicini, perché mai avrebbe dovuto ricordarsi qualcosa di inutile? Purtroppo però, non ebbe risposte. Delle mani goffe e sporche di fango lo presero per le spalle e lo tirarono su come un corpo morto. L'acqua si riversò sulle mattonelle del bagno, allagando tutto, anche i suoi pensieri. Si risvegliò di colpo e i suoi occhi si scontrarono con quelli marroni, scuri, del fratello maggiore Michele. Una paura improvvisa si impossessò del suo animo quasi da tremare per il freddo, non solo per il fatto che fosse completamente nudo, vulnerabile, ma per le parole taglienti e rudi di labbra sottili a formare un ghigno compiaciuto.
«A quanto pare Malpelo si sta facendo il bagnetto, cosa ci fai ancora qui? Verme.», lo afferrò di peso per portarsi il viso di Samaele a pochi centimetri dal suo. Il petto scoperto, gocciolante, del ragazzo si alzò e si abbassò ripetutamente a causa del terrore entratogli nelle arterie, mentre parole pesanti si propagarono in tutta la stanza. Non riusciva a parlare, lo guardava come se avesse visto il male in persona, spaesato e inorridito dalla figura possente davanti a sé. Si portò le mani tra i genitali, vergognoso di essere stato scoperto in tale stato.
Michele era il doppio di lui, spalle larghe e bicipiti da lavoro pesante. Le sue mani callose impressero solchi profondi nella carne del giovane dai capelli color rame «Hai perso la parola per caso? Vestiti o sarà meglio per te che nostro padre non ti veda ancora qui» lasciò la salda presa, facendo cadere il corpo tremolante di Samaele. Scivolò come un'anguilla al suolo, si coprì svelto la sua nudità con l'asciugamano rimasto lì, nell'angolo tra il wc e il lavabo, a osservare una scena pietosa.
Lo guardò per un'ultima volta con sguardo di ribrezzo, le sopracciglia nere aggrottate e la barba scura da coprirgli gli zigomi. Se ne andò lasciando dietro di sé il rumore degli scarponi da lavoro sporchi di terra e sangue raffermo.
Samaele rimase per qualche istante ancora a terra, cercando di far asciugare l'acqua rimasta aggrovigliata tra i suoi capelli e sul pavimento. Appoggiò la testa al muro e provò a rassicurare il suo animo, scioccato dalla strigliata improvvisa. Non voleva affrontare un'altra giornata pesante, avrebbe dovuto badare alla casa e iniziare a tagliare le erbacce del campo vicino per preparare il raccolto autunnale.
Prese le sue quattro ossa e con la poca forza delle gambe si issò come le vele di un albero maestro, prima lentamente, poi tutto in una volta per essere trasportato dalla velocità del vento. Afferrò i pochi vestiti puliti che aveva e, dopo essersi asciugato la coltre di ricci con un panno asciutto, si incamminò verso la cucina, dove ad aspettarlo c'era la figura imponente di Michele, con le braccia conserte e una tazza di caffè fumante poggiata sul tavolo in legno scuro.
«Perché non hai preparato la colazione?» domandò con un certo astio nella voce, arricciando il naso per l'irritazione. Samaele non riusciva a parlare, qualsiasi cosa dalle sue labbra proferisse, per suo fratello erano solo menzogne e inutili bugie. Si limitò a guardarlo negli occhi, quasi come a fargli capire il suo dispiacere solo con movimenti impercettibili del volto. Sclere piene di capillari iniziarono a infuocare il bianco perlaceo e i bordi delle palpebre «I-io, l'avrei preparata appena uscito dal bagno, non credevo sareste arrivati prima» farfugliò una scusa, poco credibile per la mente piccola di Michele, il cui scopo era quello di renderlo inutile e inetto al resto del mondo. Avrebbe voluto rendergli la vita un'inferno, non lo avrebbe mai perdonato per ciò che aveva fatto a sua madre. La sua voce soave e leggera avrebbe ingannato anche il peggior scettico esistente sulla terra. Samaele era la tentazione in persona e avrebbe cercato, anche con l'aiuto del Signore stesso, di renderlo insignificante.
«Quindi il nostro Malpelo pensa prima alla sua igiene personale che alla famiglia, vedo» proferì ironico, mentre un ghigno sinistro si impresse sulle sue labbra sottili, immerse in una barba scura, tagliata solo qualche giorno prima. I bicipiti erano scoperti per metà a causa della maglietta a maniche corte e si potevano intravedere le vene uscire fuori dalla pelle: rivoli sotterranei di sangue e veleno.
«No, non è vero» ribatté Samaele, aggrottando le sopracciglia rosse e folte; formavano dei lampi di fuoco in mezzo a un rogo perenne, da contornargli la fronte.
Sussultò appena, dopo aver compreso l'atto involontario di essersi ribellato alle parole fredde del ragazzo davanti a sé. Abbassò il capo, cercando di perdersi tra le fughe delle mattonelle in cotto della cucina e l'oscurità degli angoli, dove la luce del sole non era ancora arrivata.
In una sola falcata, Michele si fiondò con tutta la sua possanza davanti alla gracilità di suo fratello minore; un'eclissi solare completa, in cui i raggi non potevano penetrare in mezzo alla massa di carne e muscoli «Siamo in ottima forma, visto che hai la faccia tosta di ribellarti. Vuoi fare l'uomo, eh?» l'alito acido di Michele spostò qualche ciocca carminica, mentre il volto del povero malcapitato si girò di scatto, per non affrontare di petto lo sguardo affilato di due occhi marroni, da poterci precipitare dentro. Ciocche nere e lisce si mischiarono con quelle sanguigne di Samaele, formando un gioco di chiaroscuro, da poterci incendiare una foresta intera «Ti faccio vedere io come si diventa un uomo, vieni con me» aggiunse e con una presa a morsa, denti affilati di un serpente a sonagli, agguantò il polso sottile del fratello e lo portò con sé, fuori dalle quattro mura intonacate di bianco, soffocanti come un cappio al collo.
«Ho altre faccende da sbrigare» alzò il tono della voce, per farsi sentire a causa dei passi pesanti di Michele. Le falcate erano veloci e decise, non riusciva a stargli dietro. Doveva correre per non farsi trascinare al suolo. Sentiva le unghie sporche di mani callose entrargli dentro la carne costernata di puntini scuri.
«Non mi interessa, tu vieni lo stesso» si impuntò come i muli, i quali non volevano camminare per il troppo peso sulle spalle. Se si infuriava era cento volte peggio, lo aveva provato a sue spese, mentre gli ematomi sul suo corpo pizzicavano a ogni contatto. Lo picchiava per stuzzicarlo, per sfogo personale, per ripicca solo per essere nato sbagliato. Errori di genetica visti come un presagio di sventura e morte, infatti dopo la nascita di Samaele tutto era andato a peggiorare. Problemi di calcolo di un Dio maldestro e sadico.
Appena le iridi verdastre, di occhi pieni di tempere dalle sfumature calde, si immersero nella luce afosa in un giorno di mezza estate, presero a illuminarsi in milioni di pastelli digradanti. Passavano da un colore all'altro ogni volta che il sole lo squadrava da un'angolazione diversa. Picchiettava come piccoli aghi sulle sue gote, iniziando ad arrossare centinaia di minuscoli nei dispettosi, da farsi la guerra a vicenda. Sembrava lo volesse accogliere a braccia aperte tra la bellezza della vita, della natura sconfinata, ma il motore del furgone di Michele riempì l'aria di fumo e benzina bruciata. Ancora non riusciva a capire il motivo per cui quel rottame si ostinava a stare in piedi, impaurito anch'esso dall'essere dimenticato in una discarica.
Samaele si coprì il volto con il dorso della mano da lampi di luce pungente, mentre le scarpe si inebriavano dell'odore dell'erba, immerse nel prato poco curato del piccolo spiazzo, davanti la soglia di casa. Guardò l'immagine imponente avvicinarsi, ma prima di essere portato via, alzò velocemente gli occhi oltre la siepe da recinzione, per osservare la piccola collinetta in cui era posizionata la sua casa. Non appena si accorse della casa in mattoni rossastri, situata leggermente più in basso, il suo cuore ebbe un soffio da farlo tossire istericamente. Come se la sola vista di quelle mura lo rendesse ancora più indifeso, si sentiva strano anche a causa delle grandi finestre, aveva l'impressione di vederle sempre aperte verso la sua direzione. Un proiettile in canna pronto a sparare dritto al suo muscolo cardiaco pieno di arterie e vene.
«Bella statuina, datti una mossa o ti prendo di peso come i maiali» gli urlò irato dalla lentezza del ragazzo con milioni di efelidi. Sentì il suo sguardo magnetico riempirgli il sangue del male nel quale sguazzava il suo animo. Si era fermato a metà percorso per cercare di incutergli timore anche da lontano. Come risvegliato da un sogno apparente, le quattro ossa fragili e rossicce si precipitarono a entrare nel furgone arrugginito del padre.
«Dove stiamo andando?» chiese titubante, mentre apriva la portiera anteriore del passeggero.
«Tu che dici? Ti sembro uno da passeggiata bucolica?» rispose con un'altra domanda schietta e piena di astio, mentre sprofondava il suo corpo nel tessuto logoro e bucherellato. Gli ammortizzatori sussultarono al contatto del suo peso, Samaele rimase paralizzato sia per la paura di dover entrare lì dentro, sia per aver preso coscienza di dove si sarebbero diretti. Avrebbe preferito essere seppellito sotto tre metri di terra, al posto di andare in quel luogo fatto solo di morte e urla isteriche.
Preso dal terrore, indietreggiò di poco e scosse la testa in senso di diniego «Mic, mi dispiace, ma non ci vengo» un lungo silenzio si propagò tra il rumore gracchiante del motore acceso e il frenetico volo delle rondini nel cielo.
Le mani rugose e tozze di Michele iniziarono a picchiettare il volante a un ritmo troppo calmo, un avvertimento di un uragano in arrivo.
«Non era una richiesta» una risata breve e nervosa uscì dalle labbra nascoste dai peli della barba scura.
Samaele rimase a guardarlo, due occhi iridescenti esploravano i fondali più oscuri di un pozzo troppo profondo per poterci entrare senza rompersi l'osso del collo. Le ciglia folte e scure del moro si aggrottarono, da formare solchi profondi sulla fronte. Il respiro si era fatto più pesante, poteva quasi notare la pelle secca delle gote arrossarsi dalla rabbia.
Senza dire nulla, Michele si alzò di scatto dal sedile e si diresse verso il ragazzo «Tu vuoi proprio farmi incazzare» gli poggiò le dita tra i capelli rossi, tirandoli così forte da far inarcare la testa di Samaele all'indietro.
«Entra in quel maledetto furgone» gli sussurrò nell'orecchio, serpe velenosa pronta a iniettare liquido marcio dai suoi denti. Lo prese per la vita e lo alzò di peso, come uno spaventapasseri pronto per essere piantato in mezzo al campo di mais. Il ragazzo urlò di non farlo entrare, di non voler andare in quel posto, lo supplicò di avere pietà. Si dimenò senza sosta, gli occhi chiari si annebbiarono di lacrime cristalline, da arrossargli ancora di più il viso per quanto erano bollenti.
«Guarda che teatrino patetico.» proferì Michele dopo averlo finalmente sistemato dietro il porta carichi «Le tue urla sembrano quelle della scrofa di stamattina, a cui ho tolto i suoi maialini» aggiunse sporgendosi sull'apertura posteriore, mentre un sorriso beffardo si impresse sul suo viso: un ghigno maligno al quale anche il peggior nemico avrebbe avuto paura «Faceva i tuoi stessi versi» rise di gusto, ma prima che potesse distogliere lo sguardo, l'ira funesta di Samaele prese possesso del suo corpo. Si avvicinò di poco e gli sputò in mezzo agli occhi. Il cuore iniziò a battere velocemente, fino a sentirlo arrampicarsi nell'esofago per cercare di uscire il prima possibile e non assistere alla scena da film dell'orrore.
Michele si pulì la fronte con il dorso della mano e guardò la saliva trasparente asciugarsi tra le cellule della sua epidermide. Con uno scatto veloce, se l'asciugò sui suoi jeans come se avesse paura che all'interno del DNA di quella fiamma umana si trovasse il demonio ad attenderlo per trascinare la sua anima all'inferno.
«Te ne pentirai di averlo fatto» sibilò, assottigliando i piccoli occhi scuri.
Montò nel furgone e si diressero a velocità sostenuta verso l'allevamento intensivo a pochi chilometri di distanza dalla loro dimora. Si trovava a fondovalle, nascosto tra l'alta vegetazione di fronde attorcigliate, edere rampicanti da riempire ogni centimetro di foglie verdi e rigogliose.
Samaele aveva il mal d'auto, sballottato da una parte all'altra del furgone, a causa delle curve fatte troppo velocemente, sentì il vomito brontolargli all'interno delle stomaco. Bile verde e acida da corrodere anche l'anima.
Appena furono arrivati, il ragazzo, lasciato come un pezzo marcio di carne, appoggiato con la schiena al finestrino dietro il poggiatesta di Michele, saltò giù senza forze. Lo sguardo truce del fratello vide la scena dallo specchietto e si precipitò a prenderlo dal colletto per portarlo dentro insieme alle bestie.
Il cortile era pieno di terra bagnata a causa della pioggia della sera prima. Aveva riempito le buche di pozzanghere profonde, sporche di fango e sangue raffermo. Alcune zone colpite dai raggi pungenti del sole si erano asciuganti formando milioni di macchie come quelle che aveva sul viso.
Due mani pesanti aprirono l'enorme fienile, la puzza di sterco e piscio riempì le narici di due anime nere, entrate solo per deridersi a vicenda.
«Guarda bene, è questo il posto che ti meriti» si portò il viso di Samaele vicino al suo per incutere terrore e gli occhi chiari, pieni di sfumature, si riempirono di paura; non riusciva a capire cosa volesse fare. La sua mente stava cercando una spiegazione, sinapsi impazzite per comprendere una psiche malata e disturbata.
«Voglio andare via» sussurrò, mentre due lacrime perlacee colavano sul suo viso e il muco a uscirgli dalle cavità nasali, mischiandosi col liquido trasparente fino ad arrivare sotto al mento glabro.
«Perché mai? Abbiamo appena cominciato» rise di gola, un rumore gutturale da mimetizzarsi con i grugniti dei maiali.
Aprì una gabbia non poco lontana e ce lo infilò dentro con un calcio sferrato dietro le natiche scheletriche. Samaele cadde a terra sporcandosi di fango, di broda e qualsiasi altro escremento rimasto lì a essiccare. I suoi capelli rossi come il sangue furono riempiti dalla polvere e dall'aria rafferma, stantia.
«Lo sai di chi era questa gabbia?» domandò al pezzente, chiudendolo dentro sbarre unte in mezzo alle urla di povere bestie indifese «Era di Mr. Oink, lui sì che era un bravo maiale, dolce e socievole. Non grugniva quasi mai, silenzioso come pochi.» fece una lunga pausa, mettendosi poi il grembiule blu putrido e sporco.
Le gambe scarne di Samaele, coperte da un pantalone leggero, tremolarono come piccoli rami appena nati, sotto il forte vento di una tempesta in arrivo «Michele, per favore, lasciami andare. Non ho fatto nulla di male» cercò di convincerlo a mandarlo via, si guardò intorno per vedere se ci fosse qualcun altro ad assistere a quella scena pietosa, ma nessuno si fece vivo. Dio si stava godendo la visione del suo film, come un regista sadico all'interno della sua cinepresa.
Michele andò avanti con il suo discorso malato, senza provare pietà nei confronti dell'immagine piccola e indifesa in mezzo a tutti gli altri maiali «Mi ricordava te, che te ne stai sempre in disparte a trovare il modo per distruggere la mia vita e quella di nostro padre, come hai fatto con la mamma.» lo guardò pieno di astio e ribrezzo, da sentire l'ira prendere forma in mezzo a loro, come un'ombra maligna piena di denti per assaporare la carne di ognuno di loro.
Scosse la testa a destra e a sinistra energicamente, come a voler fargli capire che non era stata colpa sua, dopotutto cosa aveva fatto per meritarsi quel trattamento?
Dalla tasca anteriore del grembiule estrasse un oggetto argentato «Lo sai cos'è questa, vero?» si rigirò tra le mani la pesante arma, di cui Samaele non conosceva l'uso, ma dentro i suoi muscoli, ogni cellula cercava di nascondersi dall'imminente atto di completa follia. Aveva perso la testa. Lo guardò con gli occhi sbarrati e aggiunse: «È una pistola a proiettile captivo, l'ho usata proprio 'sta mattina a Mr. Oink. Non si meritava quella fine, ma per il bene della comunità si è sacrificato. Lui ha avuto il suo scopo, il tuo invece qual è?» appena finì quella frase puntò il foro del pistone contro la testa di suo fratello.
Avrebbe voluto urlare, ma così facendo sarebbe solo stato preda del sadico gioco di Michele. Lo osservò, mentre gli poggiava il freddo ferro sulla fronte, da schiacciare qualche ciocca rossa contro la pelle piena di efelidi. Le sue ginocchia chiedevano pietà per non essere soffocate dalla terra umida e sporca, tremava come la fiamma di un rogo. Se quella fosse stata la sua fine, avrebbe accettato lo stesso di morire in mezzo a maiali urlanti, rimasti scioccati dalle grida e dalla cattiveria dell'essere umano. Non avrebbe voluto vivere un altro giorno in più. Le iridi verdi e arrossate, nascoste da sopracciglia affilate da formare un angolo acuto, puntarono dritte lo sguardo pieno d'ira del fratello, in quel frangente avrebbe maledetto tutti per essere stato accusato ingiustamente, per essere soltanto il divertimento di menti malate e deviate. Forse lo era anche lui e ancora non se ne rendeva conto, a volte l'essere umano poteva diventare più spietato di un semplice demone.
Improvvisamente qualcuno entrò di corsa, sentendo le grida dei maiali e le parole marce di un uomo, il quale aveva perso del tutto la ragione.
Non appena comprese la situazione si precipitò nel prendere la pistola e allontanarla dalla testa riccia di Samaele. Diede una forte spinta a Michele per scuoterlo e riportarlo al mondo terreno «Si può sapere che cosa ti è saltato in mente?» la sua voce roca e rude si propagò in tutto il fienile; un'eco potente da far contorcere anche le budella «Fortuna che hai trovato me, non tuo padre» gli sibilò con la bocca nascosta dalla barba e un grugnito a fior di labbra.
«Era solo un gioco tra fratelli, guarda è scarica» gli fece notare, con voce gentile e innocente, ma appena il vecchio guardò il terrore impresso nelle pupille del ragazzo imprigionato dentro la gabbia, i suoi occhi sottili e ambrati si aggrottarono per rappresentare il ribrezzo di un gesto inumano.
«Vattene via, sarà meglio per te» gli intimò, facendo valere i suoi chili di troppo su di lui. Senza fare storie, indietreggiò con le mani alzate in segno di resa e sorrise a Malpelo, come per dirgli che non aveva ancora finito. Se ne andò ciondolante nel retro a tagliare la carne e a insaccare budella.
L'uomo grosso e barbuto aprì la gabbia e rese libero il povero malcapitato «Ti riporto a casa io, di tuo fratello mi fido di meno» sentenziò con voce dura e priva di emozioni.
«L-la ringrazio...» balbettò, mentre ricompose le poche ossa e rialzarle subito dopo. Sgattaiolò fuori e si guardò intorno. Il sole gli picchiò di nuovo la testa piena di ricci imbrattati di fango «Dov'è mio padre?» chiese alla figura di mezza età, mentre si dirigeva verso il suo fuoristrada dalle ruote infangate per metterlo in moto.
«È andato in città per portare la carne alla sagra di stasera» rispose ad alta voce e con un cenno gli intimò di salire.
Senza farselo dire due volte, si abbandonò sul sedile passeggero e rimase in silenzio per tutto il tragitto. Pensò alla festa, si svolgeva sempre verso la metà di agosto e ricordò che in tutti i suoi vent'anni di vita, gli era stato imposto di rimanere a casa. Suo padre non voleva renderlo preda degli occhi maligni della gente, la quale puntava sempre al suo colore di capelli simili alle fiamme dell'inferno. Si vergognava addirittura di portarlo con sé durante le commissioni. Sapevano la loro storia e come bravi trovatori cantavano gesta, cambiando ogni volta lo svolgimento della storia, aggiungendo o togliendo particolari. Quella sera però sarebbe stato diverso, ormai non gli importava più nulla dopo aver assistito ad atti di pura malignità di suo fratello. Aveva in programma di togliersi la vita e i suoi ultimi istanti li avrebbe trascorsi come voleva lui. Una felicità apparente la quale si sarebbe spenta l'attimo dopo.
Qualche chilometro più tardi, l'auto si fermò davanti al cortile di casa e nel vederla fece un grosso sospiro, come se avesse ritrovato il coraggio di incanalare l'aria tra i suoi polmoni secchi, rimasti paralizzati dallo sgomento. Prima di scendere, guardò un'ultima volta iridi di un marrone chiaro, da incutere timore «Posso sapere il suo nome?» domandò, con voce sottile, ma dalle labbra di quell'uomo non proferì alcuna risposta.
Abbassò il capo e uscì fuori all'aria aperta, ma appena fece un passo per allontanarsi, sentì un nome uscire dalla bocca rugosa di un essere gentile, per averlo salvato dalle grinfie di un pazzo sadico. Gli sarebbe stato riconoscente a vita, forse non tutti avevano la coscienza sporca come il resto dell'umanità.
«Alberto...» fece una piccola pausa, per riavere l'attenzione del rosso «Mi chiamo Alberto.»
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