Capitolo 19.

Ciò che c'è di pericoloso nell'amore è il fatto che è un delitto nel quale non si può fare a meno di un complice.

- Charles Baudelaire.

Le gambe di Matilde correvano da una parte all'altra della stanza, cercava una coperta calda, un indumento pulito per un'anima in procinto di svanire, spezzarsi in milioni di frammenti. Era rovinata dal sangue, dalle ferite infette e da ematomi violacei in tutto il corpo. Era la rappresentazione umana di una tavolozza di sfumature, somigliava alle foglie in autunno, mentre il fuoco lo divorava tra il calore delle sue fiamme.
Doveva fare presto, Samaele era ancora di sotto ad aspettarla, nascosto nel garage e col petto esposto all'aria frizzante della mattina. I brividi si spargevano in tutta la superficie dell'epidermide, mentre sibili dolci sussurravano il suo nome tra le insenature della scatola cranica.

Arrabattò le poche cose utili e si fiondò verso la serranda, l'aprì del tutto sollevando il pesante metallo arrugginito con le proprie mani. Gli ingranaggi del marchingegno automatico non volevano saperne di funzionare, abituata a lavori pesanti non sentiva più il dolore dei muscoli in tensione.
«Puoi uscire adesso, non c'è nessuno» proferì, avvicinandosi al nascondiglio dietro alle ruote del trattore.

Una timida chioma scarlatta sbucò dalla penombra, il viso era nascosto per metà dalla spessa gomma dura e dalla lamiera. Due occhi verdi come prati in primavera si illuminarono, appena videro la figura di Matilde ritornare con una coperta di tela ancora piegata tra le braccia. Si sporse di poco, poggiando le mani sui grossi cerchioni per darsi la spinta e alzarsi. Le spalle in tensione e il viso sofferente erano un chiaro segno di cedimento. Non riusciva a muovere le articolazioni, l'adrenalina gli aveva mangiato ogni centimetro di fibra, spasmi involontari si riflettevano anche sulle gambe. Tremava come ramoscelli ancora troppo fragili per proteggersi da una gelata improvvisa.

«P-puoi aiutarmi?» balbettò. «Non riesco a uscire, sono troppo stanco». La sua voce somigliava al vento quando si insinuava tra le fughe delle persiane in legno, un dolce sussurro in cui potersi perdere tra una folata e l'altra.
Senza dire altro, Matilde con passi decisi e cadenzati si inginocchiò davanti l'esile figura. Lo avvolse in una coperta usurata dal tempo, piccoli fili di tramatura svolazzavano tra gli strappi. Solleticavano le guance e le ciocche vermiglie del giovane come sottili steli d'erba.

«Vieni con me, devo curarti le ferite. Stai ancora sanguinando» sussurrò gentile, mentre lo aiutava a rimettersi in piedi facendo da appoggio ai suoi bicipiti doloranti. Sentì le mani del ragazzo aggrapparsi con veemenza, come se le sue uniche ragioni di vita fossero quella morbida carne. Le unghie le penetravano l'epidermide, ma non sentiva nessun dolore. Erano istanti di puro piacere in cui immergersi e annegare nelle proprie lacrime. Aveva la convinzione di essere l'unica àncora d'appiglio per non morire tra le onde troppo alte, affogare in un mare di sangue.

Con fatica salirono le scale che portavano all'interno dell'appartamento e gocce di liquido scarlatto colarono sul collo di Samaele, lasciando scie lungo tutto il petto e macchiando di nuvole vermiglie la stoffa ingiallita dall'usura e dagli anni. Il respiro era corto e pesante, gracchiava a ogni passo. Era sfinito dalle torture e dalla vita stessa, forse il giorno in cui lo vide appeso all'albero avrebbe potuto lasciarlo libero di cercare un posto migliore di quello in cui erano finiti. Si era sentita egoista, ma al tempo stesso non aveva la minima idea di lasciarlo morire. Dentro il suo cuore, ormai perso nella cenere e nell'oscurità, aveva percepito uno strano battito, un rimbombo diverso. Ne era rimasta affascinata, fin quasi a volerlo sentire ancora una volta. Lo aveva ascoltato anche nel pomeriggio di pioggia, calde lacrime da assaporare con dolcezza, in cui i loro sguardi e i loro aliti si erano sfiorati per pochi istanti prima di una tempesta imminente, un fulmine a ciel sereno che aveva ferito entrambi alla schiena lasciando segni indelebili e muscoli cardiaci distrutti.

Non appena raggiunsero il bagno, lo fece sedere nella vasca, le mani sporche di sangue e terra imbrattarono di colori caldi il bianco soffocante della ceramica. Pennellate di tramonti mai visti, mai osservati da occhi poco attenti ai dettagli.
Lo lasciò scivolare con la schiena sul freddo giaciglio e aprì il rubinetto per far scorrere acqua calda. I pantaloni si inumidirono, diventando una seconda pelle fino a coprirgli polpacci in tensione e tremori incontrollati. Non se ne curò di toglierli, doveva prima trovare un modo per ricucirgli la ferita sotto al collo.

Prese dell'acqua ossigenata e un po' di ovatta, afferrò un asciugamano e lo arrotolò a formare una specie di corda. Lo portò davanti le labbra di Samaele e non sapendo il motivo di quei suoi gesti la guardò confuso.
«Mordi, ti farà male quando la metterò sulla ferita e non voglio che ti stacchi la lingua per il dolore. Soprattutto, se urli troppo potrebbero sentirci». Lo osservò, mentre le mani erano ancora a sorreggere il pezzo di tela, unico anestetico in mezzo a tanto dolore.
«Non voglio, basta, ne ho abbastanza» abbassò il capo e con cenni lievi di dissenso provò a sorreggere la testa con le poche forze rimaste. Il collo straziato e martoriato era una tavolozza di sfumature rosse e non aveva intenzione di togliersele. «Lasciami qui, non voglio disinfettarla»

«Sentirai più dolore quando i vermi ti mangeranno la carne, quindi fai come ti dico» proferì severa, non tentennava a cedere come se fosse una pedina difficile da buttar giù.
«Forse sarà la volta buona che lascio questo inferno» disse rude e con le ciglia aggrottate. Non aveva il coraggio nemmeno di guardarla negli occhi, si vergognava di farsi vedere in quello stato: un cane bastonato, agonizzate tra i propri liquidi corporei.

Senza nemmeno farlo finire di parlare, con uno slancio felino gli aprì la bocca con l'asciugamano e nell'istante in cui stava quasi per ribellarsi, intinse la ferita di acqua. Lo sfrigolio della carne, la schiuma della pelle morta e di altre cellule in decomposizione urlavano sotto il tocco acido di un liquido dall'odore pungente. Entrava nelle narici e si impigliava nel cervello fino a dare la nausea.

Le urla di Samaele vennero ovattate dalla stoffa, mentre saliva, muco e lacrime si apprestavano a bagnargli le guance. Le prese i polsi, si aggrappò a lei per cercare di sfuggire alle bruciature, una tortura diventata quasi uno spettacolo teatrale per le iridi ambrate di Matilde. Era estasiata dalle bellissime lacrime perlacee, cercò in tutti i modi di non farsi ammaliare per poterlo aiutare il più possibile.
Il sangue in eccesso se ne stava andando e al suo posto erano rimasti lembi di pelle vermigli tagliati da un coltello più affilato di un rasoio. Si meravigliò del fatto che fosse ancora vivo, un altro taglio più profondo e si sarebbe giocato la vita in un solo secondo.
Chi aveva impugnato il coltello sapeva benissimo ciò che stava facendo, mani esperte di macellazione e di come scuoiare animali.

Mise da parte l'acqua ossigenata e tolse l'asciugamano dalle labbra di Samaele. Respiri liberatori si sparsero per tutta la casa come echi lontani, ululati di venti di maestrale durante le notti insonni. Non aveva mai assistito a nulla del genere e il suo cuore scalpitava dentro una cassa toracica, diventata troppo stretta per polmoni ingordi d'aria.
«Finisci di lavarti, io intanto ti porto dei vestiti puliti». Parole fredde e senza sentimento si erano levate per trovare un barlume di conforto a un'anima in pena. Odiava sentirsi dire di no e non poteva fare a meno di agire di testa sua.

Lo lasciò da solo in balia dei suoi pensieri, dei suoi demoni che sussurravano parole sconce, atti di pura follia. Perché lo stava aiutando? Dopo tutto il dolore causatole e i rimorsi rimasti a divorare organi interni era ancora lì a prendersi cura di un fallimento. Era il carnefice delle sue più intime mancanze e nemmeno se ne rendeva conto. Aveva ospitato in casa un abominio, un portatore di morte e discordia.
Non appena la minuta figura uscì dalla porta si tolse i pantaloni e i boxer, restò nudo come un verme strisciante. Il sangue aveva imbrattato la vasca di vortici scarlatti, acquerelli di un sadico pittore.

Si lavò, sentendo il calore bollente carezzargli la pallida carne e le lentiggini sparse per tutto il corpo martoriato. Pianse lacrime amare, aveva toccato il fondo e non sapeva più come risalire, stava annegando nei suoi stessi peccati e nessuno sarebbe mai stato in grado di riportarlo in superficie. Era la maledizione che il fratello gli urlava in continuazione, morire nella disperazione e nell'abbandono di un'esistenza che lo ripudiava dal giorno in cui i suoi primi vagiti vennero alla luce tra le cosce di sua madre in un giorno di pioggia, vento e neve a ricoprire ogni superficie e cristallizzarle in un ghiaccio perenne.

Chiuse la valvola dell'acqua, poco dopo dei piedi veloci scalpitavano sul freddo marmo per tornare a far compagnia a Samaele. Si apprestò a coprirgli il volto con un accappatoio, lo strofinò fino a scompigliargli i capelli.
«Somigli a un pulcino bagnato» lo derise, senza sentirsi in imbarazzo davanti a morbide curve di ossa sporgenti.

«Dai, smettila!» cercò di rimanere serio, ma con scarsi risultati. Per la prima volta provò un appagante senso di leggerezza, come se ogni dolore fosse sparito, portandosi via anche le ferite e gli ematomi. «Fammi uscire da qui, ti prego» tremò. La sola vista del sangue lo faceva rabbrividire, ne aveva perso molto, ma la ferita sembrava stesse già guarendo. La pelle sporgeva dal mento, tirava i muscoli fin quasi a bloccare ogni movimento. Un gesto troppo brusco e avrebbe continuato a spargere rivoli carmini, rappresentazione di fulmini in una notte di tempesta, lungo tutto il corpo fino a gocciolare sul pavimento. Dovevano essere messi dei punti, ma non avrebbe sopportato altro dolore.

«Questi sono i vestiti puliti», indicò una camicia e un paio di vecchi pantaloni di suo padre di quando era più giovane. Sua madre non buttava mai nulla, diceva sempre che prima o poi, un giorno, sarebbero serviti a qualcun altro. Forse Liliana aveva già previsto tutto e nessuno si era ancora accorto della propria imminente fine. «Hai la pelle che sporge troppo» proferì poco dopo Matilde, mentre le dita toccavano con delicatezza il mento sottile e affilato di Samaele. «Sono brava nel cucito, ma non ho mai testato su qualcuno di vivo. C'è sempre una prima volta dopotutto» si avvicinò al viso del giovane, mentre studiava con attenzione ogni lineamento, ogni piccola e intensa sfumatura.

«No, hai già fatto abbastanza» rispose secco, alzandosi di scatto. Rimase con l'accappatoio avvolto intorno alla vita e un altro a coprirgli i capelli rossicci, come se una nuvola grigia avesse offuscato del tutto i raggi solari. Matilde era seduta sul bordo della vasca e lo guardava dal basso in tutta la sua perfezione. Come poteva credere ad affermazioni tanto orrende sul suo passato? Christian credeva a troppe fantasie, la realtà era ben diversa da un libro di magia nera, deliri di pazzi, di visioni mistiche e senza senso. Non avrebbe mai creduto a tali avvenimenti e anche se ci fosse stato un fondo di verità, allora Lucifero non era così cattivo come tutti si immaginavano. Forse il diavolo era proprio l'essere umano, mascherava le colpe accusando l'irrazionale per non avere pesi sulla coscienza.

La giovane sospirò e si alzò con movimenti lenti: «Vestiti, allora. Se sanguinerai di nuovo, non sarò lì a curarti le ferite». Un silenzio calò su di loro aumentando sempre di più le distanze. Non appena vide le cicatrici rosee sbucare da sotto la stoffa del vestito di Matilde, le pupille di Samaele si dilatarono per la paura. Era lì ad aiutarlo e nessuno aveva mai preso la briga di alleviare sfregi di follia estrema, atti disumani su una povera bambola di cera.
«Aspetta», la richiamò con voce incerta, «forse la tua idea non è del tutto da scartare».

Delle lievi increspature sulle labbra e sull'arco di cupido rassicurarono le paranoie di un'anima spezzata. Provava a donarle, nel suo piccolo mondo, un dolce conforto in mezzo a tanta sofferenza.
«Quando hai fatto raggiungimi in camera, vado a sterilizzare l'ago» rispose con un leggero entusiasmo, quasi come se fosse contenta di poter tessere sulla carne intrecci di fili sottili.

Alcuni minuti dopo essere stata a intingere l'occorrente in una piccola bacinella d'acqua e alcool puro, se ne ritornò nella sua stanza e lo vide seduto con la testa china, inclinata da un lato, a osservare il pulviscolo del sole, come se quella vista lo avesse ammaliato per tutto il tempo. I vestiti erano larghi, i piedi nudi erano nascosti dall'orlo troppo lungo dei pantaloni. Se avesse avuto l'opportunità e le capacità, avrebbe dipinto con maniacale realismo ogni dettaglio del suo corpo, dalla postura fino a ricalcare le iridi verdastre in modo da renderlo immortale e far conoscere a tutti la sua bellezza disarmante.

Non appena si accorse di non essere più solo, portò l'attenzione verso la figura minuta alla sua sinistra. Provò ad alzarsi, l'ansia di poter essersi messo seduto senza permesso gli attanagliava le viscere, ma la voce sottile che gli imponeva di restare e calmare le sue preoccupazioni lo sorprese, come se fosse stato scoperto a rubare ciliegie in un campo privato.

«Ci vorrà solo un attimo, non te ne accorgerai nemmeno» disse, mentre prendeva posto accanto a Samaele. Il materasso accolse le loro curve, mentre il sole della tarda mattinata li accaldava fino a rendere i loro colori più accesi del solito. Erano a pochi centimetri l'uno dall'altra e nessuno dei due osava proferire parola. Il silenzio dei loro sguardi, della meccanicità dei gesti e di cicatrici immonde erano le uniche a urlare parole pregne di ricordi, di passati in cui si erano già incontrati, ma nessuno dei due era capace a rimembrare quale corda di canapa li tenesse ancora avvinghiati fino a farli soffocare in un turbine di vuoto e desolazione. Non avevano il coraggio di parlarsi, di chiedersi il motivo della loro strana attrazione verso qualcosa di inconscio. Si riparavano a vicenda senza sapere quali demoni nascondevano entrambi dietro le loro ombre, li seguivano dall'inizio dei tempi e non smettevano di riempire le loro vite di morte e distruzione.

Non appena Matilde mise un filo rigido e nero all'interno della cruna, accorciò ancora di più le distanze, Samaele non osava muoversi di un millimetro, ammaliato dalla scena e dalla maniacale lentezza dei suoi movimenti precisi.

Alzò il mento per aiutarla ad avere libero sfogo sulla sua creatività, strinse le lenzuola stropicciate intorno le dita per attenuare il dolore delle punture e dello spago che si insinuava nella carne. In confronto a tutte le violenze subite quel tocco leggero di dita fragili era il più dolce dolore di tutta la sua miserabile vita. Si rilassò, mentre con la coda degli occhi si impresse ogni angolo del viso, si divertì a osservare sopracciglia leggermente aggrottate, muscoli della mascella intensione e iridi ambrate in continuo movimento. Si erano intrise del suo colore, riusciva quasi a osservare la sua immagine nella trasparenza della cornea, mentre due labbra morbide si schiudevano per la troppa concentrazione e la paura di far sanguinare di nuovo. Un passo falso e avrebbe potuto compromettere vene o arterie vitali, le piaceva il rischio e l'adrenalina di dover fare tutto alla perfezione la eccitava a tal punto da estraniarsi dal resto del mondo.
«Perché stai facendo tutto questo? Non me lo merito» domandò, dopo minuti interminabili di silenzio, mentre i loro aliti accaldavano guance e cuori in piena palpitazione.

«Tutti meritiamo uno scopo nella vita, sono gli altri a togliercelo a causa del loro egoismo». Si fermò a guardarlo dritto negli occhi. Con una forte stretta staccò il filo in eccesso per liberarlo dalla tortura di cuciture troppo rigide: aveva dato lui una speranza di guarire. «Siamo nati per soffrire, Samaele, ma pochi riescono a comprenderne il vero significato. Io nei tuoi occhi ho visto un barlume di vita. Dal giorno in cui ti osservai nel bosco, non riuscivo a pensare ad altro che al tuo pianto, al tuo perenne dolore incastonato in ogni goccia delle tue lacrime». Il respiro si fece affannato dai ricordi di stille perlacee inumidirgli le gote, mentre un senso di strana perversione intensificava le sensazioni mischiate all'interno del suo cervello. Voleva vederlo piangere di nuovo, sentire la sua sofferenza e nutrirsi di quel liquido trasparente in cui poterci annegare l'esistenza.

«Come è possibile che tu sia ammaliata dalle mie lacrime?»
«Perché ho rivisto il mio stesso dolore» sentenziò, dura e senza emozioni.
«Io sono la causa di tutti i tuoi problemi, non lo capisci?» alzò di qualche tono la voce, non voleva trascinarla in un baratro senza via d'uscita. «Non riesco a ricordare, ma qualcosa nel nostro passato è successo. Lo sa mio padre e anche il tuo, ma le nostre memorie sono sfocate e nessuno vuole parlare» ribatté senza pudore, voleva raccontare cosa fosse successo, ma al tempo stesso un muro invalicabile seppelliva nell'oblio un rimpianto troppo doloroso.

«Alberto mi ha tenuta lontana da te per troppo tempo, è ora di riprenderci i nostri attimi perduti e dimenticati» sussurrò, mentre il vuoto intorno a loro si riempì di echi, di sussurri di ventricoli in preda a un'isterica corsa. Rimbombi di tamburi all'interno di casse toraciche, poco spaziose per contenere attimi di una stella in rotta di collisione con un buco nero.

«Matilde, tu non capisci. Devo stare lontano da te, se ci scoprono è la fine» appoggiò le mani sulle spalle della giovane davanti a sé. Il suo sguardo non trapelava neanche un briciolo di ansia, era una statua di marmo scolpita da Michelangelo stesso. Non poteva restare lì, forse avrebbe trovato un posto migliore, ma a casa non ci sarebbe mai tornato. Suo fratello aveva perso del tutto la ragione e non gliel'avrebbe fatta passare liscia per il suo gesto sfrontato. Lo aveva ferito alla mano, facendo penetrare la lama del coltello all'interno del dorso. Aveva sentito la pelle lacerarsi, la carne dividersi al passaggio del freddo acciaio e fibre muscolari staccarsi alla minima pressione. Non aveva esitato neanche per un secondo, il cervello era del tutto annebbiato, come se fosse un semplice spettatore di un macabro delitto. I rimorsi erano svaniti, si stava trasformando in un mostro simile a Michele, colui che ripudiava di più al mondo.

«Allora perché sei entrato nel mio garage? Hai aperto la saracinesca a mani nude, ti sei nascosto tra rottami e ragnatele. Sei venuto da me per una ragione, come negli scacchi le mosse sono sempre calcolate e mai avventate» disse, scostando appena lo sguardo verso la scacchiera ancora in bella vista sopra la scrivania con i pezzi ancora in gioco. Una partita persa dal bianco in cui tutti i suoi diversivi erano stati fermati da una mente esperta.

«Non lo so, non lo so» ripeté più volte, mettendosi le mani tra i capelli a causa del caos all'interno della sua testa. «Volevo solo sparire, trovare un posto in cui poter essere sereno, perché ovunque io vada non ci sarà mai la quiete che tanto desidero, non ci sarà da nessuna parte. Non posso immischiare anche te in questo casino, non te lo meriti.» sibilò, con la voce rotta da un inizio di pianto.

«Se ti affidi a me, potrei aiutarti, ma devi fare tutto ciò che ti dirò senza mai opporti o al primo passo falso salta tutta la partita. Ti farò comprendere il significato della ribellione, della vendetta più empia e appagarci della nostra felicità. Non saremo due anime dimenticate, avremo il nostro meritato posto nel mondo e tutto sparirà.»

Il corpo di Matilde era attratto come una calamita, più la sua voce riempiva la stanza di dolci melodie più i brividi di un intenso piacere danzavano sulla sua epidermide.
«Come posso fidarmi di te?» domandò, perdendosi nel dolce nettare di una resina tanto antica quanto letale. Inglobava prede e le rendeva immortali, creando un macabro gioiello di donne vanitose.
«Ti ho curato le ferite. Dovrebbe pur significare qualcosa, chi mai si interesserebbe alla tristezza del diavolo, se non qualcuno simile a lui?»

Quelle parole lo destabilizzarono, sussultò nel sentirle proferire dalla sua bocca. Erano delle dolci carezze all'anima, il cuore iniziò a bruciare di uno strano piacere, mentre il calore si intensificò in tutte le vene, rendendole più in rilievo sotto il sottile strato che le divideva dall'esterno, fiumi di sangue intenso si apprestavano a incendiare gote e punte delle orecchie.

«Ti distruggeresti, è un dolore che uccide»

«Ne varrà la pena morire per lui»

Un silenzio tombale si propagò in tutta la stanza, gli unici rumori erano il fruscio delle fronde e il garrire delle rondini, insieme a qualche merlo di passaggio. Cantavano canzoni, ignari di cosa stesse succedendo oltre quella finestra divenuta la loro unica porta verso il mondo esterno.

Samaele poggiò con delicatezza i palmi tremanti sulle guance di Matilde. Sentire la temperatura della sua pelle era un'estasi di brividi e scariche elettriche. Le dita si persero tra le ciocche corvine e si intrecciarono in vortici di piume leggiadre.

Le punte dei loro nasi si sfiorarono appena, mentre nella materia grigia della ragazza una strana sensazione fece capolino in mezzo a tutto il miscuglio informe di emozioni. Non capiva cosa stesse succedendo al suo corpo: sentiva caldo, ma al tempo stesso aveva le mani gelide come se avesse mandato in tilt il suo sistema circolatorio.

«Andremo all'inferno per questo, Matilde?» sussurrò a fior di labbra.
«Arriverei a bruciarmi l'anima, pur di sentire di nuovo il calore delle tue lacrime» ansimò, mentre le palpebre si socchiusero, comprimendo il petto sullo sterno scarno di Samaele. Matilde seduceva più di qualsiasi altro essere umano, era impossibile resistere alla tentazione ed entrambi si tuffarono in un vortice di sensualità.

I rumori e i suoni si quietarono, il tempo cessò di ticchettare insieme all'esistenza stessa.

Bocche dischiuse si cercarono l'un l'altra, prima di unire le labbra carnose in un unico sigillo. Si assaporarono la carne morbida, mentre sprofondavano i loro corpi nel materasso. Le dita percorrevano curve, toccavano vene e costole, creando sfumature di un autunno in procinto di fare il suo ingresso e portare via l'estate.

Dita curiose si intrufolarono sotto i vestiti per sentire la morbidezza di fianchi curvilinei, cosce muscolose e sode, nascoste sotto uno strato sottile di un vestito verde scuro simile alla chioma dei pini. I respiri si fecero pesanti, mentre le lingue non smettevano mai di assaggiarsi, succhiarsi come dolci nettari di un succoso melograno. I denti mordevano fin quasi a riaprire le ferite e crearne altre all'interno delle guance. Baci languidi si imprimevano su colli sinuosi, lasciando segni del loro passaggio. Cerchi perfetti, capillari spezzati da una voglia incontrollata di cibarsi a vicenda, cannibali in stato di fame perenne.

Matilde si staccò di poco per aiutarlo a togliere la camicia, osservò con sguardo attento tutte le efelidi, le bruciature di sigarette e le frustate ancora fresche. Disegnò con i polpastrelli scie di brividi sulla superficie delle cicatrici, intinse le labbra su ognuna di esse. La lingua umida si colorò di un intenso liquido scarlatto e un sapore dolce si propagò in bocca. Samaele la osservò, mentre con timido pudore le fece scivolare le spalline del vestito sulle braccia.

«Sembri una bambola di cera, hai la pelle così chiara, riesco a vederti le vene anche sul petto» le sussurrò all'orecchio languide parole di un'anima colma di piacere.
I suoi tocchi si fecero più audaci, il seno piccolo e sodo si lasciò scoprire da movimenti sinuosi di un serpente in mezzo alle foglie morte.
Rimasero seminudi con pochi e sottili strati a dividerli, nascondendo eccitazioni frementi.
«Non voglio esserlo, le bambole di cera vengono perse come tutti gli oggetti. La gente le abbandona in teche di vetro o in scatoloni a marcire e prendere polvere. Io non voglio essere dimenticata.»

La sua collezione di piccoli gingilli trovati nel bosco ne era la rappresentazione lampante di cosa volessero dire le sue parole. Anche le più piccole cose hanno ricordi, Matilde li aveva lasciati da qualche parte rinchiusi in una vecchia soffitta. La presenza di Samaele, però, fece scattare qualche immagine, frammenti di una vita passata. Non sembravano nemmeno i suoi, forse in una seconda vita si erano già incontrati e aspettavano il momento giusto per ritornare a vivere in una perenne e agognata pace.

«Hai raccolto i miei pezzi anche quando non c'era nulla da riattaccare. Ti prometto che non diventeremo anime dimenticate, non più.»

Senza dire altro, si lasciarono trasportare da una foga di passione incontrollata. I loro petti si muovevano all'unisono, mentre le gambe si intrecciavano come steli di edera rampicante. Si impressero profondi e umidi baci sul petto, succhiavano carne, riempivano di tremori gli organi come foglie sottili nei primi giorni di primavera.

Samaele scese col busto arrivando ad assaporare l'interno di morbide cosce, si inebriò dell'acidità di un dolce frutto da mandare in estasi qualsiasi senso. Venne allattato da un mielato nettare, avido di liquido caldo e vischioso, fino a colargli fuori dalle labbra, portando alla follia la sua erezione. Scalpitava nel farla sua, di unirsi a lei senza timore di farle male, di donarle altro dolore. Sapevano entrambi di essere troppo spezzati; la sofferenza che avevano ricevuto superava ogni soglia di tortura.

La stanza si riempì di gemiti, di parole sussurrate a metà. Si ubriacavano di piacere e perverse danze. La guardò incurvare la schiena, mentre le sue dita si perdevano nel fuoco incendiario di ricci capelli.
Braccia nervose percorsero ogni centimetro del ventre fino ad affondare i palmi in soffici curve tonde. Le unghie entrarono nella pelle, bramose di studiare ogni cellula di lembi rosei.

Matilde aveva perso il lume della ragione, era estasiata da tutte le carezze, dai docili baci e dal fuoco incendiario tra le sue cosce. Sembrava di fare l'amore con l'inferno stesso, demoni e diavoli danzavano sulla sua anima e suggellavano sadici patti all'interno del suo sesso.

Lo richiamò a sé, bramosa di sentire ancora quel calore e nell'istante in cui i loro corpi vennero a contatto, lenti movimenti di bacino stimolavano muscoli in tensione e vene esposte. Si stuzzicarono a vicenda finché Samaele non entrò in lei.

Matilde si aggrappò con le unghie sulla sua schiena, lasciando graffi e aprendo altre ferite sanguinolente. Inclinò la testa e dischiuse di poco le labbra per accoglierlo nella melodia del loro concerto. Lo sentiva muoversi, infuocare interni delicati, ma al tempo stesso non voleva smettere di provare quella sensazione. La faceva sentire viva, non era più all'interno di una partita a scacchi contro la vita, tutto era rimasto immutato. Solo i loro corpi aggrovigliati erano l'unica certezza, attimi di puro godimento, in un mare di infelicità.

Spinte decise fecero traballare il letto, ma non riuscivano a sentire altro che i loro respiri affannati, cuori in preda a tachicardie incontrollate. Piansero lacrime perlacee, troppe emozioni fuse insieme in un unico amplesso. Matilde leccò con avidità liquido salato, scivolato sulle guance piene di efelidi di Samaele. Nutrirsi delle sue lacrime fu l'apice di una rara perversione, tanto da aumentare le sue estasi.

Preso da un eccesso di sadica foga, strinse una mano sul latteo collo pieno di morsi e lividi violacei della minuta figura. Sentire il sangue palpitare nella carotide rendeva i movimenti più profondi ed energici, sollecitava i polmoni a incanalare sempre più aria. La vita di Matilde dipendeva da lui; poteva ucciderla in un semplice movimento di pressione, romperle le ossa fino a sentirla spegnersi sotto il suo ventre, ma non lo fece. Era l'unica ragione per cui ancora non aveva fatto la stessa fine di sua madre.

Sussurrarono i loro nomi, mentre i gemiti e gli eccitamenti si facevano sempre più violenti. Scariche elettriche si diramarono in entrambi i sistemi nervosi, finché non arrivarono al culmine, un orgasmo tanto atteso e bramato da troppo tempo.
Sudati e stanchi si strinsero in un abbraccio consolatorio, restando in quella posizione fino a percepire le palpebre cedere per il sonno.
Le mani di Matilde grattarono con leggerezza tutta la spina dorsale del giovane, imprimendosi nella memoria tutti gli angoli del corpo di Samaele.

«Abbiamo sigillato un patto con la morte, non possiamo più tornare indietro» sussurrò il rosso, tra un ansimo e l'altro prima di chiudere gli occhi e nascondere le iridi allocroiche sotto uno strato sottile di pelle.
«Che venga a prenderci» sogghignò divertita a pochi centimetri dalle sue labbra, lasciandogli un ultimo bacio e sprofondare in un oblio senza sogni.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top