Capitolo 15.

Una frustata.

Un'altra.

Poco dopo anche una terza.

Fruscii di cinghie sferzavano l'aria, pelle contro pelle, mentre urla di sofferenza rimbombavano tra le mura spesse di una dimora complice di atti disumani, animaleschi: un padre diventato folle. Aveva perso il senno nell'istante in cui i suoi occhi videro da lontano una figlia intenta a disobbedire.

Al suo risveglio dal riposo pomeridiano, scrutò il binocolo posato sulla piccola isola della cucina. Non si sarebbe mai sognato di lasciarlo incustodito, ma non appena notò l'assenza di Matilde si precipitò alla finestra. Iridi scure scrutarono l'orizzonte fatto di pioggia e nuvole grigie cariche di tuoni, mentre calibrava con attenzione un punto preciso per metterlo a fuoco. Le lenti di ingrandimento catturarono due giovani intenti a correre in mezzo al campo, spensierati e zuppi d'acqua fino ai piedi. Non appena si fermarono, Alberto ebbe quasi un infarto nel vedere sbucare tra la coltre di ciocche corvine della sua unica primogenita, miscugli innaturali di onde sanguigne.

Matilde doveva imparare la lezione, una bambina ribelle si metteva in riga solo con le maniere forti. Il demonio appariva in qualsiasi forma, ma Samaele era la raffigurazione della sventura, una maledizione che doveva essere fermata sul nascere.

La schiena della giovane, accasciata in ginocchio davanti l'unica foto di sua madre, divenne la tela bianca di macabre pennellate scarlatte. Graffi, ematomi, ferite pulsanti si diramarono tra le costole e la spina dorsale. Ogni dolore inferto era atroce, non la smetteva di bruciare, di sentire il dannato fischio della cinghia fendere l'aria e colpire la sua candida carne. Il vestito strappato era l'unico ricordo di un momento felice, rimasto incastrato in un tempo dimenticato.
Tremiti di paura, angoscia, pianti soffocati da lacrime, saliva e muco usciti fuori per alleviare ecchimosi cresciute sul suo volto avevano modellato fiumi di sofferenza solo per aver sfiorato un'anima dal cuore spezzato. Capelli di un nero intenso, simile all'inchiostro, si districavano sugli zigomi e sulle tempie. Tentacoli umidi macchiati di cruore vermiglio.

Pregava di smetterla, di lasciarla in pace e malediceva al tempo stesso l'assenza dell'unica persona la quale poteva placare torture immonde. Christian non era lì a salvarla, avrebbe potuto girarsi, prendere la cinghia del padre e annodargliela attorno al grasso collo: vederlo soffocare con le sue stesse mani, ma non ne aveva le forze. Immagini di piacevole supplizio si diramarono tra le pieghe del cervello della giovane, mentre dall'altra parte Alberto le urlava contro, ubriaco e violento.

«Il peccato si lava solo in questo modo, mia cara Tilde. Non ti è bastato perdere tua madre per causa sua?» gridò così forte quasi da rompere i timpani della minuta figura, aggrovigliata tra sfilacci di stoffa e pezzi di carne penzolanti.

Qualcosa dentro di lei cercò di uscire, un ricordo, un'immagine rimasta assopita nel buio di un buco nero, ingranditosi all'interno di nervi e materia grigia. Il volto di sua madre le annebbiò la vista: capelli lunghi fino a metà schiena, neri come l'oscurità delle profondità terrestri. Un viso dolce e un sorriso colmo di speranza, di calore materno: una carezza gentile dopo aver fatto un brutto sogno. Unici istanti di vita di una donna troppo giovane per aver vissuto un'esistenza semplice, fatta di lavori casalinghi e raccolte di camomilla nei boschi. Era il suo passatempo preferito e Matilde l'aiutava sempre durante le lunghe passeggiate nei campi con cesti di vimini pieni di fiori profumati, poggiati sul bacino e tenuti fermi da braccia determinate. Quel giorno però, non tornò mai più a casa.

«Mamma!». Le sue parole squarciarono il tempo, annullandolo tra vocali pesanti come macigni. Urlava il suo nome per essere cercata, provava a chiedere al cielo in tempesta di riportarla in vita per un istante e salvarla dalle sudice dita di Alberto. «Non lasciarmi sola, mamma!» piagnucolò, guardando la foto appesa al muro del salotto.

In quel momento, il braccio del padre si fermò a mezz'aria non appena sentì sua figlia invocare colei che avrebbe alleviato ogni dolore, ogni eterno patimento. Il silenzio ritornò a fare da padrone tra le mura della casa e il respiro affannato di Matilde si sciolse in gemiti strozzati. I polmoni si muovevano a scatti sotto la sua pelle sottile, creando spasmi involontari per trovare un briciolo di aria, un antidolorifico al suo perenne bruciare. Le unghie si erano spezzate a contatto col pavimento piastrellato, scavavano il terreno per trovare una vana salvezza. Tremavano per lo sforzo disumano e il dolore rimasto ancora in superficie.
«Sparisci dalla mia vista, non voglio vederti fino a domani mattina» disse sibilando, prendendola per i capelli e avvicinando il viso alle labbra piccole nascoste dalla folta barba intrisa di alcool, odore acre di un uomo abbandonato a se stesso.

La lasciò andare, la vide correre come una preda spaventata dopo essere sfuggita dalle trappole di un sadico cacciatore. Raggiunse le scale a grandi falcate, dalla stanchezza non si reggeva più in piedi. Le ultime rampe di scale si inginocchiò carponi, ma il terrore era ancora vivo tra le sue vene. Il sangue circolava inarrestabile, lo sentiva pulsare nelle arterie fino a soffocarle la carotide. Movimenti irrequieti di muscoli frementi si affrettavano ad arrivare alla salvezza tanto agognata, mentre l'anima di Matilde provava in tutti i modi a leccarsi le ferite, pregne di fuoco ardente.
Si rintanò in bagno, sbattendo la porta. L'unico rifugio asettico dove avrebbe potuto trovare attimi di tranquillità e morire nel rumore della pioggia estiva, tra le scariche elettriche di tuoni, tempeste interiori di un corpo fatto a pezzi.

Alberto aveva assistito alla rivelazione di emozioni terrificanti, una figlia priva di espressioni era esplosa in un pianto disperato. Le urla e la preghiera alla madre erano la prova tangibile di un'afflizione talmente profonda da far esplodere cuori disgraziati, cervella tinte di nera pece avvelenate dalla rabbia, dolore represso per anni. Cianuro tossico, divoratore di organi e vite distrutte.
Si portò le mani sul volto, impresse le dita tra i capelli brizzolati, radi e sudici. Il respiro era pesante, il ventre grasso si alzava e si abbassava a ritmi sussultori a causa di un pianto sommesso. Buttò con violenza la cinghia a terra e dopo aver represso ogni sorta di debolezza, ogni ricordo del corpo marcio della moglie tra le pieghe della terra, corse verso la porta per andare all'allevamento. Afferrò la sua giacca e uscì di casa, lasciando una figlia in balia di pensieri immondi, demoni tentatori che sibilavano atti impuri, sangue lungo le fughe di pavimenti troppo puliti.

La pioggia cadeva imperterrita, ma le gocce piccole e sottili simili ad aghi si divertivano a punzecchiare un corpo snello, gementi labbra erano schiuse a causa della lunga corsa. Le sue carni erano ancora scosse dall'incontro inusuale con Marie Sophie, una strana sensazione dentro di lui aveva preso piede fin dentro organi pieni di bile in procinto di fuoriuscire. La nausea si faceva sempre più forte a ogni falcata, ma i polmoni gonfi d'aria comprimevano viscere annodate, in continui spasmi involontari.

Era arrivato a casa di Matilde bagnato fradicio, piccole perle di sudore si mischiavano con l'umidità della pioggia, rimasta impigliata sui pori della pelle. Si era fermato per riprendere fiato davanti al cancello, ma non appena provò a farsi coraggio ed entrare, notò da lontano una grossa figura dirigersi verso il furgone.
Alberto aveva una faccia cupa e seria, incuteva timore a ogni passo. Provò a chiamarlo, ma l'uomo non rispose neanche una volta, non lo degnò di uno sguardo e provò ad affrettarsi, mettendo in ordine il retro dell'auto così da poter partire indisturbato.

«Alberto,» lo interpellò di nuovo il giovane, avvicinandosi sempre di più per sapere dove fosse la sua amica «Matilde è in casa?» domandò titubante.
«Vattene via, mia figlia è in castigo» rispose con una nota amara di becera ironia.
Lo vide accendere i motori e andarsene, sfrecciando nel vialetto brecciato pieno di erbacce e foglie morte. Non comprese del tutto le sue parole, ma una sensazione di terrore si materializzò nei muscoli tesi del collo e gli angoli della mascella. Sapeva fin dove poteva spingersi Alberto e se fosse successo qualcosa dopo averla vista in lacrime la sera della sagra, non se lo sarebbe perdonato una seconda volta.

Si diresse all'interno e non appena mise piede sull'uscio rimasto semiaperto dalla troppa fretta di movimenti scomposti di un padre ingombrante, anaffettivo, un silenzio straziante si fece spazio tra le poche rampe di scale. Separavano le cupe stanze dalla tempesta estiva, come una bambina capricciosa si divertiva ancora ad annegare strade e tetti spioventi.
Guardò di sfuggita ogni angolo buio, notando della cenere caduta dalla pipa di Alberto vicino al divano. Poco lontano, una cinta era abbandonata sul pavimento e la fibbia in metallo era macchiata da schegge di sangue.

Christian ebbe come un'illuminazione, la paura si vece viva all'interno dei suoi organi; voleva vomitare, un nodo stretto come un cappio di una corda si era formato in mezzo alle interiora, ma per non aggravare la situazione andò diretto su per le scale del piano di sopra. Chiamò a squarciagola la sua amica, un'anima in procinto di distruggersi. I suoi occhi si riempirono di lacrime, sclere piene di ramificazioni scarlatte si intinsero di liquido salato, pungente, fino a inglobare ogni sfumatura. Non era arrivato in tempo a salvare la sua dolce Eva. Annebbiato da immagini demoniache, atti di puro sadismo e una lussuria talmente vivida da accendere tizzoni ardenti tra le vene iliache.

Trovò la porta della camera aperta, il letto in disordine, come la sua mente contorta, vecchi oggetti trovati nel bosco e pezzi di scacchi abbandonati sulla scrivania erano l'innocente essenza di una ragazza sofferente di un abbandono precoce, un dolore nascosto tra l'inespressività del volto.
Un mugugno si fece strada nelle orecchie del giovane, l'unica serratura rimasta chiusa era quella del bagno. Bussò, la implorò di aprire la porta, ma neanche un filo di voce uscì dalle fughe del legno diventato troppo spesso.
Senza pensare ad altro, spalancò l'uscio e si ritrovò un'immagine raccapricciante, al limite della sopportazione umana.

Umidi capelli corvini tentavano di coprire una candida pelle scalfita da graffi, ferite aperte e sanguinolente. Dune vermiglie riempivano la schiena di Matilde, mentre la nuda spina dorsale era piegata in avanti. Somigliava a una scogliera in mezzo al mare, solida nella sua precaria delicatezza, si sforzava di non cedere alle onde di polmoni tremanti, pieni di muco e dolore. La vasca nascondeva il corpo della giovane fino a poco più sotto delle spalle, mentre il viso era rivolto verso il basso per la vergogna e il bruciore insistente di una carne violata.

«Giocare a nascondino non mi è mai piaciuto» sibilò Matilde, sforzandosi di far uscire parole ironiche tra un singhiozzo e l'altro.
Christian non rispose, si limitò a togliersi la maglietta fradicia e a entrare nella vasca per darle tutto il calore, il conforto mancato. La schiena piena di lividi si scontrò con la pelle liscia e morbida di un petto scarno, nervoso per le lunghe corse contro il tempo per giungere dall'unica persona alla quale avrebbe dedicato ogni suo respiro. L'abbracciò con la sofferenza impressa nel volto, voleva urlare, ma dalle sue labbra dischiuse non uscì neanche un piccolo sussurro. Ciglia folte aggrottate formavano rughe evidenti sulla sua fronte.

«Mi dispiace così tanto». Soffrì nel dire tali parole, la gola pizzicava a ogni sillaba, mentre dalla doccia uscivano piccoli rivoli d'acqua che bagnavano le loro candide epidermidi.
La cullò con dolcezza, mentre provava ad alleviare le ferite e gli ematomi. Affondò il viso tra le ciocche corvine di Matilde e assaporò la dolcezza ferrosa di icore scarlatto, accogliendolo nella sua bocca come uno dei nettari più dolci mai creati dall'essere umano. Le dita affondarono nella carne, senza essere inopportune. Carezzavano fianchi e dipingevano curve come un pittore impressionista.

La vasca si riempì d'acqua, cullandoli in un mare fatto di terra, polvere e sangue. «Giuro su Dio che questa volta non la passerà liscia» aggiunse qualche secondo più tardi.
Il corpo della minuta figura si irrigidì di colpo, il volto contratto in una espressione neutra era l'inizio di una discesa verso la pura follia. Si girò con cura verso Christian, senza far strabordare liquido torbido, occultatore di nudità colme di brividi.
I loro sguardi si unirono in una danza di quiete imperfetta, iridi glaciali si persero nelle profondità di un pozzo senza fine. Ammaliava più di mille demoni, tentava più di Marie Sophie.

Prese con cura le sottili e affusolate mani del malcapitato, le appoggiò dietro la sua schiena. Dita curiose si districarono lungo un intricato groviglio di cicatrici fresche, inibendo ogni senso. I suoi seni piccoli e sodi sfioravano il petto del ragazzo, ogni carezza era un battito del cuore accelerato.
«Giuri su Dio, quindi?» sussurrò Matilde a fior di labbra, alito leggero stuzzicava la bocca morbida di Christian. Piccole falangi si posizionarono sul collo del giovane e provò l'emozione di ascoltare vene piene di sangue comprimere con i polpastrelli. Spinte leggere di un essere vivente dalle pupille dilatate di piacere.

All'improvviso i muscoli delle braccia si tesero e spostò la sua violenta forza verso i polsi. Con una forte pressione mandò sott'acqua il volto di Christian fino a far scomparire ogni lineamento. Bollicine d'aria si dimenavano scomposte sopra la sua testa per trovare un'uscita, uno spiraglio di salvezza, ma in mezzo a quegli spasmi incontrollati non ci sarebbe stato nessuno ad aiutarlo. Matilde aveva inglobato la pazzia del padre, ribolliva nelle sue arterie, nei suoi palmi stretti intorno al collo del giovane alla ricerca folle d'aria, una dolce e lenta asfissia. Le sue gambe si dimenavano e si attorcigliavano sotto al corpo nudo di una figura rotta, spezzata in milioni di pezzi.
Lo sentiva sbraitare, riempirsi i polmoni d'acqua, urla attutite da molecole liquide. Matilde, però, non provava nessun rimorso. Si era sentita abbandonata, spaventata, senza un appiglio a cui aggrapparsi e l'unica cosa a farla sentire ancora viva era poter rappresentare la morte in tutte le sue sfumature.

In quel momento pensò di morire, di potersene andare per sempre. Non fece resistenza, non si sforzò più di tanto per tornare in superficie, rimase a piangere sotto strati di nebbia fitta. Sarebbe morto tra le sue braccia, l'unica carezza gentile prima di poter marcire tra le fiamme dell'inferno. Le unghie di Matilde penetravano la carne, le sentiva sfiorare muscoli, vene ingrossate dalla paura e dall'adrenalina, un macabro piacere di una sadica falciatrice di esistenze.

Qualche secondo più tardi, però, si sentì tirare su per i capelli. Il capo uscì dall'acqua e rantoli gracchianti, misti ad attacchi di tosse isterica riempirono l'aria circostante di un sapore di rancido, amaro.
La ragazza era ancora sopra di lui ad attenderlo, con il volto contratto. Si poteva osservare la mascella farsi sempre più spigolosa, ma le sopracciglia e le palpebre erano morbide, prive di rughe di rabbia, contorni vuoti, amorfi che avrebbero messo paura anche a un insano mentale. «Avrei potuto ucciderti, lo sai?» sussurrò con un minuscolo sorriso a fior di labbra «Dimmi, dov'è il tuo Dio, adesso?»

La sua domanda lo fece spaventare più delle parole macabre di Marie Sophie. Se avesse avuto ragione? Non poteva farsi abbindolare così facilmente.
Voleva fargli capire quanto la sua assenza avesse influito nel corso di eventi delicati, ma non poteva saperlo. Se solo fosse andato via da quel luogo maledetto pochi minuti prima, forse avrebbe avuto l'opportunità di fermare Alberto. L'idea di sporcarsi le mani di sangue ancora attanagliava gli angoli bui del cervello, ma aveva fatto una promessa e doveva mantenerla a qualsiasi costo.

«Ho commesso un errore, mi dispiace, avrei dovuto essere presente», l'assecondò senza replicare. Non sapeva il motivo della moltitudine di percosse subite da Alberto, ma qualcuno nei suoi occhi color dell'ambra si muoveva furtivo tra iridi piene di sterpaglia infuocata.

«Forse è meglio se ti rinfresco di nuovo la memoria» ringhiò, mentre riportava sott'acqua il corpo fremente di Christian. Questa volta le urla erano ancora più strazianti, gocce liquide si divertivano a uscire fuori dalla vasca, bagnando il pavimento lucido e roseo. Le mani sottili, affusolate, si aggrappavano al corpo pieno di brividi della sua carnefice, colei che aveva tra le dita la sua dipartita, era diventata lei il suo dio. L'unica persona capace di togliere la vita o lasciarlo alla sua mera esistenza. Un ghigno divertito spuntò in mezzo all'arco di cupido pronunciato, le piaceva vederlo piangere, implorare pietà per le troppe assenze. Avrebbe voluto odiarlo, ma era troppo presto per poterlo rivelare.

Immagini, simili a scatti rubati di macabre fotografie, colme di uno sguardo dai lineamenti simili a quelli di un cervo, movimenti sinuosi di un fuoco ardente tra i capelli, occhi allocroici di una composizione di colori mai visti prima si erano impossessate delle pupille di Matilde. All'interno del nero più assoluto si nascondeva la bellezza proibita di un essere incompreso, di un angelo caduto al quale era stato proibito di vivere nella pace. Corpo martoriato da torture e violenza, sguardo colmo di urla soffocate da un sadico silenzio. Non sentiva più i graffi, le unghie di Christian intrappolate nella sua carne morbida e liscia, martoriata da scottature inferte alla schiena da un padre disgraziato.

Amava osservare esistenze nel momento esatto tra la vita e la morte, quel secondo che le separavano dalla terra al cielo, sempre se ci fosse stato un paradiso. L'aveva incuriosita l'atto più estremo di un essere vivente appeso per la corda, mentre fili di canapa stringevano vene, tendini e carne fin quasi a dividere di netto la testa dal corpo. Il dondolio sconnesso di piedi a pochi centimetri dal suolo, gorgoglii soffocati di bava erano diventati dolci melodie per le sue piccole orecchie.

La sua forza era quasi disumana, Christian scivolava sotto di lei, non aveva controllo del proprio corpo e quando lo riportò in superficie sputò tutta l'acqua stagnata nelle sue cavità respiratorie. Saliva, muco e gocce salate erano l'unica fonte di percezione della realtà. Si sentiva la testa leggera e la gola bruciare come un fuoco ardente, aveva paura di prendere fuoco da un momento all'altro.
«Basta, Matilde, ti prego» biascicò, tra rantoli e sospiri. Era spaventato, colmo di un terrore mai percepito prima di quel momento. «Non riesco a respirare, fammi spiegare, fammi capire cosa è successo»

«Ho dimenticato tutto, ogni istante della mia maledetta vita per proteggere ciò che siamo diventati, prenditi le tue responsabilità d'ora in poi. Se io ti dico resta, tu resti. Se ti dico uccidi, tu uccidi. Senza fare domande. È così che si vince nel gioco degli scacchi contro la vita. Dipende tutto da che parte vuoi stare» dichiarò ad alta voce, con il fuoco ardente della ribellione rimasto a incendiare ogni suo organo.

«Voglio stare con te, Mat, qualsiasi cosa succeda». Pianse lacrime trasparenti, si confondevano con l'acqua dolce rimasta impigliata tra ciocche di capelli e guance scarne. Non vennero ignorate dallo sguardo affilato della presenza, illuminata dai raggi incandescenti di un sole morente, ritornato dopo un violento acquazzone. Erano le sue certezze più perverse, godette a tal punto da volersi divertire al solo pensiero di farlo di nuovo e altre volte ancora.
Christian era diventato la sua pedina, colui che proteggeva la regina da attacchi esterni, mentre il re guardava da lontano la scena di una battaglia all'ultimo sangue. Doveva avere la sua protezione, solo così avrebbe potuto attuare la sua rivincita. Lei odiava perdere e non l'avrebbe fatto nemmeno con Samaele. Era il suo Re da salvare e a Matilde servivano molti pezzi sulla scacchiera, in modo da poter fare scacco matto alla prima svista dell'avversario.

Nessuno l'avrebbe più fermata, nemmeno se glielo avesse implorato Dio stesso.

«Perché proteggere un essere dai colori dell'autunno è così doloroso?» domandò, sibilando parole criptiche, troppo effimere per comprendere un significato nascosto.
«Non capisco, spiegati meglio» rispose il giovane, a pochi centimetri di distanza nello sfiorare labbra morbide e umide di acque dolci, ma al tempo stesso territorio perfetto dove poter morire, soffocato da mani simili a cappi di corde spesse.

«La sua pelle ha lo stesso colore del latte, un cielo bianco dipinto di stelle, le ciglia hanno le sfumature delle foglie d'acero in autunno, mentre le sue ciocche somigliano a enormi pozze di sangue e le lacrime» si fermò per un istante, nel tentativo di lasciarsi sfuggire un gemito «Dio, sono perle in mezzo a un mare in tempesta». Le pupille si dilatarono a tal punto da non riconoscere quasi più l'iride ambrata, mentre Christian rimase sconcertato dalla perfetta descrizione di colui che non avrebbe mai dovuto incontrare. Marie aveva previsto tutto. Non poteva fare nulla per fermare il corso degli eventi, ma nella sua testa si stavano già formando milioni di situazioni in cui il corpo del rosso si sarebbe decomposto tra vermi e melma, l'unica coperta per potersi riscaldare le quattro ossa. Non l'avrebbe mai avuta, a costo di bruciare all'inferno.

Rimasero intrecciati l'uno all'altra per interminabili minuti, mentre l'acqua ormai fredda della vasca li cullava verso un'oscurità senza una via d'uscita. Si sarebbero persi entrambi nelle loro sadiche follie, solo per poter dare una parvenza di felicità alle loro tristi e dimenticate anime.

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