Capitolo 13.

Il vento soffiava forte tra le strade ciottolose e piene di sampietrini del piccolo paese di Monteluna. Ululava nelle vie deserte e faceva sbattere con insistenza alcune persiane in legno, scrostate e divorate dalle intemperie. Il cielo grigio rendeva i vecchi mattoni delle facciate ancora più sporchi e cupi, avevano un'aria malinconica come se attendessero la pioggia da un momento all'altro. Le ombre allungate, l'oscurità dei vicoli si impregnavano nelle fessure delle fughe e nelle imposte. Le rondini volavano impazzite sopra i tetti in cotto, garrivano con insistenza: cercavano senza sosta cibo per i loro piccoli prima che arrivasse la tempesta. Si affrettavano a tornare nei loro nidi e tenere al caldo piccoli senza piume, ciechi alla nascita, assidui divoratori di bile già digerita.

Molte donne si sbrigavano a portare dentro i panni stesi per non farli inumidire dall'acquazzone imminente. Alcune imprecavano per dei calzini volati via troppo in fretta, altre invece bestemmiavano per qualche vaso caduto dal secondo piano frantumandosi in mille pezzi. La terra scura si sparse sul pavimento sporco di cicche di sigarette, un rivolo di scolo bagnava le foglie verdi di tenere piante dove qualche scarafaggio attendeva la notte per sbucare fuori dalle fogne. Le finestre vennero chiuse, serrate con cura per non far passare un filo di vento. Tutti a lamentarsi per la grande calura per poi nascondersi, mettersi al riparo a causa di un innocuo temporale estivo. La solitudine di quel pomeriggio si poteva tagliare con un coltello, tutto era rimasto immobile, attonito, come se la gente del posto fosse sparita all'improvviso. Le macchine ferme sul ciglio della strada, i banchetti vuoti vicino all'entrata di antiche porte in legno e fiori selvatici, nascosti sotto attrezzi da lavoro lasciati incustoditi davanti ad alcuni garage aperti, erano gli unici stralci di una vita rimasta immobile.

Qualche edificio più avanti, con la facciata riempita dai violacei petali di una bouganville, una vecchia biblioteca si stagliava lungo la via, in tutta la sua imponenza. Diversi infissi erano rimasti a mezz'aria per far passate frizzanti carezze e inondare di coni di luce l'unica finestra spalancata di una stanza grigia, piena di scartoffie e segreti celati. Pagine di libri ancora aperti danzavano a ritmo della frescura dal sapore dolce: sintomo di uno scroscio di pioggia in avvicinamento. La polvere svolazzava tra uno scaffale e l'altro, come se cercasse di ripulire l'inchiostro sbiadito dall'abbandono. Poca gente veniva in quel luogo dimenticato da Dio, soprattutto di sua spontanea volontà. Uno tra i pochi era proprio Christian.

Se ne stava in disparte, su uno sgabello tra i tanti appunti rimasti a terra, dopo essersi inciampato con un paio di mattonelle rialzate dall'umidità. Non aveva voglia di rimettere a posto, così iniziò le ricerche in mezzo a una coltre di vecchi libri negli stretti corridoi della stanza. La luce fioca e tetra illuminava il viso spigoloso, concentrato nella lettura di testi in cui avrebbe potuto trovare qualche stralcio di prova riguardo alle parole di Marie Sophie. Doveva essere lì dentro da qualche parte, ne era sicuro. Leggeva con assidua costanza, i capelli scuri abbandonati verso il basso gli coprivano la fronte come le onde di un mare notturno. Assorbivano la luce e la intrappolavano all'interno lasciandosi dietro una lucentezza bluastra, piume di un giovane corvo pronto a spiccare il volo. Atomi leggeri di pulviscolo si posavano sulle sue guance scarne e sulle ciglia lunghe, ogni tanto si stropicciava gli occhi per la stanchezza. Non avrebbe lasciato quell'angolo di storia finché non avrebbe trovato il libro giusto.

Chiuse di scatto pagine ingiallite piene di scritte e immagini religiose. Tutte parlavano della Cacciata dall'Eden, di Adamo ed Eva, ma nessuno faceva cenno alla teoria della giovane dagli occhi pieni di libidine. Doveva esserci, però, uno scaffale di libri proibiti, ma dall'ultima volta in cui ci aveva messo piede non era riuscito più a trovarlo. Forse, la bibliotecaria li aveva spostati o nascosti del tutto al pubblico.

Si alzò dalla sedia e andò di nuovo a gironzolare tra le teche di lunghi ed enormi mobili in legno di noce. Scrutava i titoli scritti in uno stampato antico, usurato, su ogni dorso che incontrava. Era nella zona giusta della biblioteca, lì erano custoditi tutti i libri che parlavano di cristianesimo e paganesimo, ma oltre a Dio e le sue schiere angeliche nessuno faceva cenno a vecchie leggende. Aveva sfogliato un tomo in cui raccontava delle inquisizioni durante il diciassettesimo secolo in Italia, descrizioni di torture e lamenti, un altro invece del vecchio monastero abbandonato vicino alle mura medievali del paesino, ma a Christian non interessavano. Era alla ricerca della fonte principale dei deliri incontrollati di Marie.
Doveva aver letto per forza qualcosa tra i laterizi ammuffiti e il soffitto affrescato, non poteva esserselo inventato di sana pianta.

Stava per perdere la testa, le tempie gli pulsavano incontrastate. Martellavano le meningi fino a farle scoppiare, il caldo distruggeva le sinapsi e il sudore gli annebbiava la vista. Era lì da molte ore, il suo cervello vagava tra immagini di occhi dorati macchiati da ombre scure e lingue biforcute di vipere con il volto dall'aspetto di una giovane donna con l'accento francese.

Dentro il suo corpo, tra organi e sangue, stava avvenendo una rivoluzione. Si contraevano, si dimenavano senza sosta fin quasi a sentire la bile tornare verso l'esofago. Le pareti spesse divennero la sua prigione, un pazzo all'interno di una cella di un manicomio. Il respiro si fece più affaticato, non aveva la minima idea di cosa gli stesse succedendo, dei forti boati di tuoni lontani smorzarono il soffocante silenzio della biblioteca. Appoggiò le mani sul primo tavolino di legno per non perdere i sensi a causa di un forte capogiro.

"Eva e Lilith sono sempre state la stessa persona."

"Un angelo ribelle che prova sentimenti."

"Era stata privata di tutto, anche dei sentimenti, e si sarebbe vendicata per l'eternità."

Frasi ripetute così tante volte, incastrate nel sistema nervoso di una materia grigia in sovraccarico di informazioni e pensieri astratti. Non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine di Matilde spoglia di emozioni: il suo volto impassibile, occhi persi nel vuoto e le labbra morbide stese su un letto di fiori appassiti carezzavano con dolcezza ricordi indelebili. Cercò di scacciare troppe informazioni dalla testa, non poteva essere vero. Era solo una stupida coincidenza.

«Tutto bene?». La voce della bibliotecaria esplose improvvisa all'interno dei suoi timpani. Sussultò spaventato, indietreggiando di qualche passo, e per non perdere l'equilibrio si appoggiò allo schienale di una vecchia sedia in legno. La scrutò con uno sguardo terrorizzato, non l'aveva sentita arrivare. Due occhi piccoli e scuri lo giudicavano da dietro occhiali spessi come il fondo delle bottiglie di birra del padre di Matilde; le vedeva sparse quasi sempre in giro per casa, soprattutto nel salotto.

Rughe piene di macchie, di anni trascorsi a prendersi cura di migliaia di archivi e a tenere a bada gente troppo chiacchierona. Il tintinnio dei suoi pendenti dorati aveva lo stesso suono delle campanelline tubolari appese sulla veranda di casa. All'interno della stanza tutto sembrava amplificato, rimbombavano anche le frenetiche ali di una mosca apparsa lì per caso. Ancora non riusciva a darsi una spiegazione di come fosse entrata senza neanche spostare un filo d'aria, forse era già lì da un po' di tempo o la mente confusa del povero ragazzo provava di continuo a sabotare la realtà con vivide allucinazioni.
«Oh, certo, non si preoccupi,» proferì titubante, cercando di ritornare in sé, «il solito calo di zuccheri» concluse ironico, con un finto sogghigno stampato sulle labbra tremolanti.

«Devi mangiare di più, mio caro, sei troppo magro. Tutte le volte che ti vedo correre tra le strade con il borsone del pane, mi viene da pensare: dove la trovi tutta quell'energia? Dovrai avere una fame terribile». Parlò con apprensione la donna, accennando a un piccolo sorriso. Si avvicinò al giovane per vedere se stesse bene, lo conosceva da quando sua madre lo portava in grembo. Era il suo vicino di casa, lo aveva visto crescere e prendere le forme slanciate di un ragazzo dall'aspetto sano: mascella serrata, occhi di un oceano sconfinato e onde nere di riccioli ribelli. Aveva perso i lineamenti gentili del bambino timido di una volta, Agnese era come una nonna per lui. Nel paese si conoscevano tutti e ognuno si aiutava come poteva.

Ricordava le volte in cui si era presa cura di lui nei lunghi pomeriggi invernali, quando i suoi genitori erano indaffarati con la panetteria e il mulino poco distante dalle mura secolari piene di storie medievali, intrecciate tra le fughe di ogni mattone. Era la nonna da sempre desiderata, ma il suo spirito solitario lo rendeva più indipendente.
«Non abbia pena per me, ormai so badare a me stesso» rispose imbarazzato, dondolando in avanti, indietro, un gioco goliardico di punte dei piedi e talloni consumati.

«Allora, dimmi, cosa ti porta qui da solo? Non vedo la tua amica, come mai non è venuta con te?» domandò con un luccicore stampato nelle cornee macchiate di cataratta. Conosceva Matilde, l'aveva vista spesso al suo fianco; quando la piccola presenza si faceva sentire, il viso di Christian aveva un'altra luce. Il suo sorriso splendeva tra gli enormi scaffali impolverati. Venivano quasi ogni fine settimana a leggere in biblioteca, qualche volta si divertiva a spiarli e spesso il suo sguardo si soffermava sulle iridi del colore del miele, aveva uno strano brivido lungo la schiena per quanto erano vuoti. Era taciturna, parlava poco e il viso sembrava sempre perso in chissà quale universo. Rispondeva solo se interpellata in una discussione, alle volte le sue frasi erano talmente criptiche da non riuscire a comprendere a pieno il loro significato. Era una donna umile e di poche pretese, si divertiva a spettegolare con le abitanti situate nella parte opposta alla via. Quando la biblioteca era vuota, si portava una sedia in vimini e si metteva a sedere in strada vicino all'uscio della porta a cucire col tombolo. Con lei, si riunivano tutte le altre per aggiornarsi su chi avessero visto a messa e quale nuovo taglio di capelli fosse più giovanile, in modo da nascondere gli anni trascorsi troppo in fretta.

«Aveva delle faccende da sbrigare» mentì, cercando di portare la conversazione su un altro argomento. Non era ancora andato a trovarla, ma prima doveva scoprire cosa si celasse dietro le parole di una vanitosa strega. «Sono qui perché...» esitò per un momento. Non poteva raccontargli il suo vero scopo, lo avrebbe subito cacciato di corsa. «Volevo sapere di più sul passato della nostra cittadella, da un po' di tempo mi affascina la storia medievale e mi sarebbe piaciuto approfondire l'argomento». Si inventò sul momento una scusa credibile, senza sapere cosa stesse realmente facendo.

«Non ti facevo un ragazzo così curioso, dovrei avere qualcosa nell'ala opposta. Vieni, prendiamo la scorciatoia». Ciondolò tutta contenta di poter essere utile a qualcuno, dopo ore rimasta seduta su una sedia scomoda e cigolante. Aveva cura dei suoi libri, ma a Monteluna non c'era gente con la voglia di immergersi nei libri. Di solito venivano a curiosare i figli del farmacista, si divertivano a leggere libriccini di vecchie fiabe e a osservare copertine rigide piene di disegni fatati.

Si incamminarono verso una parete, non molto lontana da dove si erano fermati a parlare. A causa della luce fioca, il giovane dalle iridi glaciali non si era accorto della porta raso muro, mimetizzatasi con il color panna della tinteggiatura. Entrarono in una sala simile a quella precedente, tavoli in legno in mezzo alla stanza, scaffali pieni di tomi, enciclopedie e biografie di opere rimaste ancora nascoste al resto del mondo. Le lettere dell'alfabeto incise nel legno avevano forme allungate, sembravano gambi di edera rampicante. Spiccavano molto di più rispetto a tutto il resto.

«Deve essere da queste parti, ricordo di aver visto qualche volume in italiano» sussurrò la donna, mentre la gonna lunga, decorata con fiori rossastri su fondo scuro, si muoveva leggiadra accompagnata da passi scomposti: era sintomo di un dolore alla schiena divenuto una costante nel tempo.
Christian guardò con attenzione ogni singolo libro, non era mai entrato in quella zona. Era pieno di testi antichi scritti in lingue che non conosceva, alcune erano latino e greco altre in francese o in tedesco. Non essendo portato, aveva preferito non immischiarsi a leggere parole a lui sconosciute e prive di senso.

Qualcosa, però, alla fine del corridoio prese la sua completa attenzione. La dicitura incisa nel legno chiaro, pieno di buchi creati da tarli affamati, incuteva nel giovane un brivido di terrore su tutta la spina dorsale. Elenco libri proibiti.

Rimase immobile a guardare la sottile grata in ferro che tentava di nascondere il suo contenuto. Dorsi strappati, poco curati, abbandonati come cani sulla strada. Nessuno si degnava di loro, come se fossero invisibili al resto del mondo: un luogo in cui tutte le storie venivano dimenticate.
«Azzardati a leggere uno di quelli e ti bandisco dalla mia biblioteca». Alzò di qualche tono la voce roca e severa. «Sono racconti che un ragazzino non può sapere. C'è il male lì dentro e non credo vorresti saperlo. Ancora non capisco perché a mio marito piacevano così tanto» proferì, andando incontro a Christian per allontanarlo da eventuali curiosità.

«Allora, dovrebbero censurare tutti i libri di storia e anche la Bibbia» rispose sarcastico, un ghigno soddisfatto si formò sulle sue labbra. Parole dure come il piombo si riversarono dentro la stanza, Agnese rimase inorridita. Era una donna di Chiesa e sentirsi dire tali abomini le fece accentuare tutte le rughe profonde della fronte.
«Dovresti sciacquarti la bocca col sapone per la bestemmia che hai detto, vergognati!». Voleva picchiarlo, dargli una lezione, dopotutto non era suo figlio e se lo avesse fatto, avrebbe interrotto il lungo silenzio assopitosi all'interno di mura fredde e antiche. Una donna di fede non doveva abbassarsi a tale livello di ignoranza.
Il ragazzo non rispose all'accusa, era concentrato nel trovare un modo per poter rimanere da solo e dare una sbirciata dentro. Lo attirava come una calamita, dei sibili soffocati da un'eco lontano gli penetrarono i timpani. Il cervello vibrò al suono cupo e ripetitivo, una grancassa colpita da bacchette in continuo movimento ritmico quasi tachicardico.

D'un tratto un suono metallico, squillante e meccanico inondò ogni centimetro delle stanze. Agnese era una delle poche ad avere già un telefono fisso. La tecnologia e i nuovi sviluppi arrivavano molto più in ritardo rispetto alle grandi città. Era un piccolo paese di poche anime e quasi tutti avevano ancora l'abitudine di incontrarsi tra le vie o irrompere nelle case altrui per fare visite di cortesia.

«Dannazione, quel telefono è insopportabile. Torno tra cinque minuti, intanto ti ho lasciato un paio di libri su quella scrivania laggiù,» la indicò con un lungo ricurvo indice pieno di vene e capillari rotti, «ci sono delle cose interessanti sulle mura e sul monastero. Dagli un'occhiata e quando torno, dimmi quale vorresti portarti via» disse sbrigativa, senza più degnarlo di uno sguardo. Il suono del telefono era troppo fastidioso, le parole si perdevano nell'aria e il giovane non ascoltò neanche una frase. Quell'ammasso di carta non gli serviva, voleva soltanto rimanere con i suoi pensieri.
«Stia tranquilla, me ne occupo io dei suoi libri». Urlò nel lungo corridoio, scrutando la schiena dell'anziana farsi sempre più lontana. Non appena la vide girare l'angolo, si fiondò come una freccia scoccata da un bravo arciere verso l'angolo dei racconti maledetti.

Forzò la serratura con un forte scossone, il pomello era talmente arrugginito da sgretolarsi nelle dita. Si era impregnato le unghie di ruggine rossastra, gli tornò in mente il sangue della lucertola rimasto tra le pieghe delle sue falangi per un giorno intero. Se lo sentiva ancora addosso, non riusciva a togliersi le piccole urla e il suo corpo andare in fiamme, fondersi con la cartina e il tabacco.

Con avidità scorse le mani su pelli antiche, cuciture sgualcite e rifiniture ammaccate di angoli smussati. Perse le speranze quando notò che ogni titolo era in francese o in tedesco. Qualche parola la comprendeva, ma il suo vocabolario era molto limitato. Tralasciò alcune stampe provenienti dalla Germania e si concentrò su quelle in francese, per trovare qualche indizio sulle parole di Marie. Non passò molto tempo dal momento in cui i suoi occhi vennero rapiti dal colore scuro, nero carbone, di una copertina senza titolo. Lo trascinò a sé e aprì alla prima pagina. Il titolo scritto in maiuscolo con un inchiostro sbiadito tendente al marroncino pronunciava le parole più macabre mai state lette: "Rites sataniques et ésotériques." seguito subito dopo da un sottotitolo "Mystères et cultes païens du XVIème siècle."

Sfogliò le pagine ingiallite dal tempo con cura, la sua curiosità sfociò in uno sguardo di puro terrore. C'erano molte scritte in latino, testi incomprensibili e illustrazioni da togliere il fiato. In alcuni angoli erano stati presi appunti a matita, dovevano essere recenti e qualcuno era riuscito a leggerlo prima del suo arrivo. Pensò a Marie immersa nella lettura da sola a dilettarsi con tale abominio, non riusciva a comprendere come avesse fatto a sfuggire dalle grinfie di Agnese. Forse, il marito prima di morire aveva fatto qualche eccezione nel selezionare chi poteva leggere la sua collezione di libri proibiti. La ragazza sapeva come rendersi dolce e ingenua al tempo stesso, avrebbe addirittura sedotto il diavolo pur di arrivare ai suoi scopi.

Andando avanti nell'osservare simboli e immagini mefistofeliche, una in particolare lo paralizzò sul posto. Le sue pupille si dilatarono dalla paura e dalla bellezza macabra di un disegno realistico.

Angelo dalle ali di pipistrello, corpo scultoreo di nudità perfetta, volto gemente di un dolore impossibile da comprendere, urla soffocate, occhi colmi di perle argentee, precipitava verso un baratro fatto di roccia, spuntoni ardenti e terra dura. Una donna dai lunghi capelli e una veste trasparente lo guardava cadere, bloccata dalle forti braccia di un uomo anch'esso privo di indumenti. Voleva oscurargli la visuale con il proprio volto ruvido di una barba incolta, ma la scena era bloccata nell'istante in cui la giovane donna allungava un braccio verso la creatura nel tentativo vano di salvarlo. Lineamenti gentili, tondeggianti, di una purezza sovrumana andavano in contrasto con il suo sguardo triste e rassegnato, come se avesse perso le sue emozioni nell'attimo più atroce della sua miserabile vita. In alto, invece, un cavaliere piumato spiegava la propria spada lucente contro un suo simile, ribellatosi a Dio.

Il cuore di Christian perse un battito nell'osservare curvature di muscoli contratti, volti colmi di rabbia, capezzoli piccoli, morbidi al tatto di dita affondate nella carne, e membri nascosti da gambe toniche di un'anatomia studiata con minuzia. Sotto all'illustrazione una piccola scritta in corsivo dava il titolo all'opera di un anonimo autore: "Âmes oubliées. Invocation à Lilith".

Le mani del giovane tremavano come foglie in autunno rimaste ancora aggrappate ai rami da poco addormentati.
«Cosa diavolo è?» sussurrò a se stesso, come se la sua anima lo stesse interrogando delle proprie azioni proibite e illegali. L'aria iniziò a essere pesante e malsana a causa delle finestre rimaste chiuse per troppo tempo, insieme alla polvere che campeggiava sugli infissi in legno. A rendere tutto più cupo, la fioca luce gialla del lampadario di cristallo, accompagnata dai raggi deboli di un pomeriggio colmo di nuvole scure erano le uniche fonti di illuminazione, per riuscire a studiare parole antiche impregnate di sangue. Nessuno era così deviato da leggere tale assurdità, tranne una persona: Marie Sophie.
Era l'unica a sapere il francese, ma non sarebbe mai riuscito a nascondere il libro e portarselo via. Non si era nemmeno portato dietro la sacca, dove di solito portava il pane alla gente del paese. Avrebbe potuto nasconderlo all'interno e rimetterlo a posto una volta letto, senza passare per un ladro.

Scivolò con cautela una mano sull'immagine in bianco e nero, fissando sulle impronte digitali ogni rilievo, curvature sensuali di un quadro rimasto nascosto per anni. Sembrava disegnata con la china; il gioco di luci e ombre era ammaliante, suggestivo, difficile da dimenticare. Voleva saperne di più, ma andare da Marie per avere informazioni significava tornare nella tana della strega. Dopo l'ultima volta, non avrebbe voluto mettere mai più piede tra mura fredde, per niente accoglienti. Sentire le dita sottili della ragazza raggiungere le sue parti più intime e sensibili aveva creato in lui una reazione primitiva, animalesca. Voleva togliersela dalla testa, ma l'eccitazione era tanto forte da placarla solo con la morte di un essere indifeso, inconscio di come il mondo stesse sprofondando in un oceano di oscurità.

Un rumore di piccoli tacchetti lo ridestò dalle sue letture, alzò la testa per concentrarsi sui passi di Agnese. Labbra semichiuse e tremolanti stavano per proferire qualcosa, ma la paura di essere scoperto lo bloccò all'istante. Se lo avesse beccato a leggere parole pregne di perversione, lussuria e malocchio, non sarebbe mai potuto tornare.

Così, prese la decisione più drastica, meschina, ma efficace. Appoggiò il libro su uno scaffale ancora vergine del peso del sapere, alzò la sottile pagina con impresso il disegno e con tutta la sua forza strappò il lembo come quando sua madre usava vecchi fogli di carta per appuntarsi le ordinazioni. Il suono sfrigolava, urlava dal dolore, come se quel gesto avesse provocato una ferita indelebile; amputazione di un secolo di stoia.
Nascose il proprio operato tra l'elastico delle mutande e la camicia, aderendo la fredda celluloide sulla liscia pelle del giovane. Chiuse il libro e lo ripose nella propria sezione e si affrettò a sedersi sulla sedia della scrivania dove erano rimasti i tomi consigliati dalla donna.

Nello stesso istante, entrò con passo svelto e cadenzato come se avesse trovato gusto nel lasciare nell'eco delle stanze il suo odioso ticchettio delle scarpette, un orologio svizzero che scandiva un tempo illusorio, rimasto incastrato tra milioni di racconti.
«Allora, hai deciso quale libro prendere?» domandò, mentre un brivido percorse la schiena rigida di Christian, complice di un furto imperdonabile.

«Ecco...» non sapeva cosa dire, voleva solo andarsene senza essere scoperto. Il cuore pompava così forte da riuscire a intravedere i battiti incessanti farsi strada tra le pieghe del morbido tessuto. «Prendo questo, ho notato che accenna a qualcosa di interessante sui monaci e mi ha incuriosito». Mentì, non aveva letto neanche una frase, aveva fatto in tempo a notare solo vecchie foto del monastero prima di sentire l'antica presenza al suo fianco.

Agnese lo guardò con occhi inquisitori: il sorriso tirato del ragazzo, occhi abbassati e vaghi le davano una sensazione di smarrimento. Qualcosa nel suo cervello frullava come un tornado in piena tempesta, ma non indagò oltre. Fece solo un cenno di dissenso e sospirò, voltandogli le spalle.
«Sei proprio strano, lo sai? Potevi girovagare per la stanza, ma ti sei limitato solo ai libri che ti ho consigliato. Di solito, fai sempre di testa tua» proferì, mentre tornava indietro verso il bancone delle prenotazioni, seguita da un'ombra alta e slanciata. Il silenzio e il volto adombrato da ciuffi ribelli di capelli corvini erano la risposta ai suoi dubbi. Aveva già capito tutto senza neanche aprire bocca, ma lasciò al tempo l'ardua sentenza. Non appena mise il timbro e la firma, le lunghe mani di Christian si affrettarono a prendere il libro. La salutò con un dolce sorriso e cominciò a camminare a grandi falcate verso l'uscita.

Gocce di pioggia si infiltravano nelle fessure dei camini, nei tetti in cotto e inumidiva la strada piena di sampietrini rendendo scivoloso il cammino verso casa. Il temporale aveva la capacità di fermare il tempo, la gente se ne stava dentro casa come i ratti che aspettavano la notte per poter sgranocchiare tra i rifiuti. Le macchine piene di rugiada fresca erano abbandonate sul ciglio del marciapiede, davano una sensazione di oggetti dimenticati. Stava tornando alla panetteria per portare il libro in un posto asciutto, era fradicio dalla testa ai piedi. L'acqua dolce colava lungo le gote, appiattiva i capelli sulla fronte e inumidiva l'epidermide di perle brillanti.

Il foglio strappato, rimasto dentro uno strato leggero di cotone ormai umido, aveva aderito i suoi secoli di storia sulla pelle di Christian. Aveva paura di trovare l'inchiostro sbiadito, una macchia nera su celluloide ingiallita e bruciata da dita curiose di sapere. Doveva affrettarsi se voleva risposte concrete, così allungò il passo e in poco tempo raggiunse il negozio di Teresa. Non appena il campanellino appeso alla porta d'ingresso suonò al suo passaggio, una coltre scura di capelli neri si affacciò dall'oblò dell'anta scorrevole in legno di noce. Occhi stanchi di una donna in continuo movimento e con le mani a lavorare lieviti madre, farine di ogni tipo, pagnotte ancora grezze dal forte profumo agrodolce di microrganismi in stato di lievitazione.

«'Stian, tesoro, sei tornato. Mi ero preoccupata con questa pioggia» proferì la donna, mentre si apprestava a uscire dal suo laboratorio di creazioni fatte di crosta e morbida mollica. I suoi occhi chiari come quelli del figlio studiarono le condizioni pietose in cui versava, gli accarezzò una guancia per togliere l'acqua dalla pelle. Christian non fiatava, era immobile con il volto abbassato a guardare le fughe delle piastrelle color sabbia, irritato dal nomignolo infantile. Lo chiamava spesso in quel modo, da piccolo non riusciva a pronunciare bene le prime lettere e alla fine rimase un vizio di famiglia. «Mio Dio, guardati. Sei fradicio dalla testa ai piedi, lo sai che ti puoi ammalare. Mi servi sano o mi ritroverò con un milione di ordinazioni arretrate» continuò, accennando a un dolce sorriso.

«Mi ha colto di sorpresa» sussurrò il giovane, dando la colpa al temporale improvviso.
Teresa notò il libro stretto al petto magro della figura alta e slanciata davanti a sé. «Sei stato di nuovo in biblioteca, vero?» chiese con tono scocciato, incrociando le braccia sotto al seno coperto da una giacca e un grembiule bianco, sporchi di farina e legna carbonizzata.

Il volto pallido e magro si incupì di colpo, non la guardò neanche. Odiava sentirsi giudicato, Teresa voleva l'attenzione sul lavoro perché un giorno sarebbe stato il suo futuro e non avrebbe avuto scelta. Il desiderio di andare in università era scemato quando comprese le spese da fare e mantenere. I suoi genitori non avevano abbastanza soldi per poter dare lui un sostentamento, bastava solo per non morire di fame e assicurarsi un tetto sulla testa. La vita era dura anche per un ventenne con una mentalità rimasta troppo spensierata, giovane e piena di meraviglie. Sarebbero morte alla presa di coscienza dell'illusione in cui era sprofondato per anni. Lui, però, era testardo: voleva realizzare il suo mondo ideale, fatto di poche pretese e tra quelle c'era anche Matilde. Un giardino idilliaco dove poter vivere per l'eternità, senza più soffrire una vita in cui il peso delle ingiustizie e delle violenze gravavano sulle loro gracili anime.

«Scusami, ma devo portare il libro in camera e poi esco di nuovo». La liquidò con facilità, scostandosi da lei con passi felpati, umidi. Impronte bagnate si impressero nel pavimento, resti di una presenza stanca del suo continuo vagare.
«Aspetta, vai da Matilde?» lo fermò, prendendolo per il gomito con una presa decisa e apprensiva.

Il giovane girò appena il viso per osservare con la coda dell'occhio la figura della madre e i capelli neri macchiati da fili argentati cadere morbidi sulle spalle. Annuì senza fiatare, era una mezza verità, non poteva rivelare la sua destinazione. Teresa non sopportava la famiglia di Marie, troppo criptica e impossibile da decifrare. Erano persone intelligenti, sapevano scavare nei punti deboli delle persone e trarne profitto. Amavano il denaro e quello bastava per renderli tranquilli. Sophie era un insieme letale di veleno e perfidia. All'inizio potrebbe sembrare una dolce ragazza, ma sotto i suoi occhi verdi e ciocche di lunghi capelli, simili alle spighe di grano bruciate dal sole, si celava qualcosa di oscuro, malato e perverso.

La donna sospirò, prese il libro dalle mani del figlio e con un grande sospiro disse: «Te lo porto io, con la pioggia non si presenterà nessuno per un bel po', quindi una pausa me la prendo. Vai da Matilde, vedi se le serve qualcosa, se ha bisogno che domani mattina le porti del pane fresco. Glielo dirai, non è vero?». Si preoccupava spesso della ragazza dagli occhi color dell'ambra, aveva un debole per lei. Saperla sola, tra le mani di Alberto non la rincuorava affatto. Solo la moglie, con i suoi gesti gentili, comprendeva i suoi stati d'animo per poterlo calmare.

Le mancava da morire la sua unica migliore amica. La sua presenza riempiva il paese di una luce diversa e alla sua morte tutto era diventato più spento, senza vita.
«Glielo dirò, sta' tranquilla». La ringraziò con un bagliore di felicità. Le pupille si dilatarono appena, mentre le sclere e le iridi riprendevano vigore, una lucidità riesumata dalle profondità di capillari impazziti.

«Fai attenzione, portati l'ombrello!» gridò, vedendolo uscire di fretta dal negozio, ma la sua foga di andarsene, di essere libero e poter riavvicinarsi a Matilde lo rese sordo delle ultime parole della madre. Teresa, da dietro il vetro della vetrina, lo guardò correre sotto la pioggia, mentre un sorriso divertito, complice di sentimenti inespressi, si disegnò sulle sue guance segnate dal tempo e dai ricordi di un'adolescenza spensierata, dimenticata.

Note:
"Rites sataniques et ésotériques.": Riti satanici ed esoterici.
"Mystères et cultes païens du XVIème siècle.": Misteri e culti pagani del sedicesimo secolo.
"Âmes oubliées. Invocation à Lilith".: Anime dimenticate. Invocazione a Lilith.

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