12. Come se fosse un dolore

XII

Come se fosse un dolore

Un Fiore così gaio
Disarma la mente
Come se fosse un Dolore -
È la Bellezza un'Afflizione - dunque?
La tradizione dovrebbe saperlo. [...]

(E. Dickinson)

«Basta così!»

Il richiamo del capitano giunse prima del previsto: la squadra si radunò al centro del campo e quando Scorpius smontò dalla scopa tutti lo imitarono. Il cielo era stato inclemente e l'ultimo allenamento prima della partita si era svolto interamente sotto la pioggia. Darlene avanzò di un passo, mentre con una mano si spostava dagli occhi i capelli bagnati.

«È già finita, capitano?»

Scorpius annuì, mentre gli altri lo osservavano in silenzio. «È inutile proseguire con questo tempo, rischiate solo un raffreddore.»

Albus scrutò il viso del suo migliore amico. Non gli era sfuggito che Scorpius aveva parlato alla squadra come se lui non ne facesse parte. Non lo faceva mai, nei suoi discorsi esisteva soltanto il noi.

«Ci siamo preparati a questo momento per settimane», iniziò, mentre la pioggia gli bagnava il viso e le gocce scivolavano lungo le guance fino ad arrestarsi sulle labbra, come le lacrime che non gli aveva mai visto versare. «Siete pronti, siete forti. E sabato lo dimostrerete.»

Tra i ragazzi iniziò a serpeggiare uno strano disagio. Darlene fece per dire qualcosa, ma Scorpius alzò la mano e la anticipò. «Non avete bisogno di me. Non ne avete mai avuto. Albus giocherà come Cercatore», disse rivolgendogli una rapida occhiata. «E voi tre», guardò i Cacciatori, «andrete alla grande, ne sono sicuro. Oliver, tu invece sarai il capitano. Sei il più esperto e so che farai un ottimo lavoro.»

Si voltò verso i gemelli. «Da voi mi aspetto una partita impeccabile. E questo significa che dovrete lavorare insieme, come avete sempre fatto. La vostra forza sta nella complicità che avete in campo, al di là delle differenze tra voi.»

Neil e Tom annuirono.

«Pete, Goldstein non è uno sciocco, avrà impostato il gioco puntando tutto sul fatto che tu sia il nostro punto debole.» Il ragazzino trasalì e guardò il capitano con un'espressione mortificata. Scorpius gli mise le mani sulle spalle e si abbassò per puntare gli occhi nei suoi. «Ma io so che non è così. Dimostragli che si sbaglia e che in te c'è quel talento che io ho visto quando ti ho voluto in squadra.»

Pete sembrò sul punto di piangere dalla commozione.

«Mark, conto su di te per dare agli altri una spinta nei momenti di difficoltà», aggiunse, guardando il diretto interessato. «E Darlene...»

«No», lo interruppe lei, scuotendo la testa. «Tu devi esserci. Valiamo la metà, senza di te!»

«Tu sei l'anima di questa squadra», proseguì Scorpius, come se non avesse parlato. «Non avete bisogno di me», ripeté. «Ho già dato tutto quello che avevo, ho fatto del mio meglio allenandovi al massimo delle mie capacità. Adesso mi aspetto che voi facciate altrettanto.»

Darlene rimase in silenzio, come tutti gli altri. Nonostante il disappunto generale, nessuno osò contraddire il capitano.

Scorpius si voltò a guardarlo proprio mentre Albus si convinceva che non gli avrebbe detto niente. «Strappa il Boccino a tuo fratello», gli disse in tono più basso, come se fossero stati soltanto loro due. «Facci vincere questa partita.»

Albus annuì, contagiato dal fuoco che soltanto lui sapeva accendere in tutti loro. Sebbene fosse entrato in squadra da pochissimo, anche lui desiderava quella vittoria come se fosse stato il suo unico obiettivo da sempre.

«Adesso filate a farvi una doccia. Se sentirò uno solo di voi starnutire mi toccherà maledire l'intero Ordine di Merlino.»

I ragazzi risero e si diressero verso gli spogliatoi, l'umore generale si fece improvvisamente più leggero nonostante la piega inattesa che aveva preso quel discorso prepartita.

Albus rimase a guardare l'amico che raccoglieva il materiale da allenamento.

«Sei sicuro di non voler giocare?», gli domandò quando furono rimasti soli.

Lui non si voltò. «Non ho scelta», rispose semplicemente, abbandonando la maschera di sicurezza che aveva mostrato fino a qualche istante prima. «Non sto volando bene. Ma sono certo che la squadra possa farcela anche senza di me.»

Albus non ebbe dubbi che ci credesse davvero. «Che ti succede?»

«Non riesco a mantenere il controllo della scopa», spiegò, mentre sigillava le casse e infilava le mazze dei battitori in una sacca. «Len pensa che sia colpa dello stress.»

«Lo hai detto a Len?», chiese d'istinto.

«Certo che l'ho fatto. Perché sei sorpreso?», fece Scorpius, voltandosi a guardarlo con un'espressione confusa.

«A me non lo hai detto.»

Aveva inteso rispondergli in tono neutro, ma quell'affermazione gli era sfuggita quasi come un lamento. Sperò che il suono scrosciante della pioggia avesse nascosto l'inflessione nella sua voce.

«Non te ne sei accorto da solo?»

«Sì», ammise Albus. «Ma non me ne hai parlato. Lo hai fatto con lei.»

Non rimase alcunché di equivocabile in quell'ultima replica, quindi Scorpius tacque e lui si rassegnò all'idea che il suo malessere sarebbe venuto fuori in quella conversazione. «Mi stai evitando», gli disse infatti.

Scorpius non negò, si limitò a rimanere in silenzio mentre tornava ad aprire una delle casse per assicurarsi che i Bolidi fossero a posto - superfluo, visto che erano già saldamente bloccati.

«Perché non mi tocchi più?», insisté Albus in un sussurro. Ne sentiva la mancanza con la stessa chiarezza con cui avrebbe avvertito un dolore fisico. Era il vuoto al centro del suo petto, scavato da una lontananza che non aveva conosciuto neanche nei momenti in cui erano stati separati da miglia e miglia. Gli formicolavano le dita per il desiderio di un contatto, la sua stessa pelle sembrava non appartenergli più da quando lui aveva smesso di sfiorarlo, abbracciarlo, osservarlo in quel modo carico di un'emozione a cui Albus non aveva mai avuto bisogno di dare un nome - perché c'era, e tanto bastava.

Scorpius sospirò. «Non voglio fare niente che potrebbe darti fastidio.»

Lui serrò le labbra per impedirsi di osservare a voce alta quanto trovasse stupido quel pensiero. «Mi dà fastidio che mi eviti.»

L'amico gli riservò un'occhiata perplessa, le gocce di pioggia che gli incorniciavano il viso. «Forse è il caso di mettere un po' di distanza tra noi.»

Albus fu scosso da un brivido. Il terrore di quella possibilità gli oppresse il petto. «Non serve.»

«Magari non a te», replicò lui, ancora impassibile. «A me serve.»

«È per questo che parli con Len e non con me? Perché hai bisogno di tenermi a distanza?»

«Magari volevo soltanto parlarne con lei e non con te», ribatté Scorpius, iniziando a mostrare i primi segni di irritazione. Aveva smesso di fingersi occupato con il materiale da allenamento e si era deciso a fronteggiarlo.

«C'è qualcosa tra te e Len?»

Albus si pentì di quella domanda nell'istante esatto in cui si sentì pronunciarla ad alta voce. Era un pensiero stupido, lo sapeva, ma aveva messo radici così profonde nella sua mente che non riusciva a liberarsene. Nemmeno esternarlo servì a sollevarlo da quel peso.

Scorpius apparve sconvolto. «Ma che... No», esclamò, mentre la rabbia gli inquinava lo sguardo argenteo. «Tu non puoi fare così! Non c'è niente tra me e Len, ma potrebbe! Ti ho detto che provo qualcosa per te, ma non sarà così per sempre, e tu non hai il diritto di essere geloso.» Serrò i pugni lungo i fianchi e gli rivolse uno sguardo incandescente. «Non sarà Len, ma prima o poi ci potrà essere un'altra persona e tu dovrai accettarlo.»

Una piccola parte di Albus provò vergogna, eppure a prevalere in lui fu il sollievo per averlo sentito smentire un pensiero che, pur senza alcun fondamento, era diventato doloroso.

«Potrebbe non essercene bisogno», mormorò, ormai privo di qualunque capacità di trattenersi.

«Che significa?»

«Potrei esserci io.»

Scorpius scosse la testa. «Non è la stessa cosa.»

«Sì, invece», insisté. «Se ci fossi io non avresti bisogno di nessun altro.»

«Non credo di capire.»

Sospirò, mentre gli sfuggiva un sorriso amaro. «Vuoi farmelo dire per forza?»

«Sono sinceramente confuso.»

Albus aprì le braccia in segno di resa e provò a immaginare come dovesse apparire in quel momento, vulnerabile e inzuppato di pioggia, mentre si apprestava a mettersi a nudo di fronte a lui più di quanto avesse mai fatto prima. «Potrei essere io, quella persona. Non voglio che ci sia qualcun altro. Potresti avere me.» Si avvicinò, mentre Scorpius apriva la bocca e la richiudeva in silenzio, a corto di parole. «Vorrei che avessi me», sussurrò ancora.

Lui tacque, sopraffatto dalla sorpresa. Albus lo osservò mentre cercava di riprendere il controllo di sé, ma quando ci riuscì il suo tono fu tanto duro da spezzargli il cuore.

«Tu non puoi dire queste cose», sbottò Scorpius, allontanandosi con uno scatto stizzito. «Pensavo che tu fossi diverso, che almeno tu mi risparmiassi la pietà!»

«Pietà?», ripeté Albus, incredulo. «Pensi che non dica sul serio?»

«Penso che faresti qualunque cosa per farmi sentire meglio. E che questo ti confonda.»

Un moto di indignazione lo travolse, interrompendo a metà il passo che stava facendo verso di lui. «Io non ho insinuato che tu fossi confuso, quando ti sei aperto con me.»

«Perché non lo ero.»

«Non lo sono neanch'io!», ribatté Albus, offeso.

«Sei vittima della stessa compassione che continuano a mostrarmi tutti», spiegò Scorpius, con un tono condiscendente che lo fece innervosire ancora di più.

«Non ti permetto di...»

«Vattene», disse Scorpius secco. La decisione nel suo sguardo impedì ad Albus di completare la frase. Lo vide voltarsi e tirare fuori la bacchetta per sollevare la cassa e la sacca con la magia. «Ho bisogno di stare da solo.»

Albus rimase immobile per qualche istante, uno strano ronzio nella testa lo aveva reso incapace di formulare un pensiero coerente. Osservò l'amico che gli dava le spalle e attese di capire cosa fare.

«Vattene», ripeté lui, ancora senza guardarlo.

Esitò solo un momento. Poi obbedì.

***

Aveva i capelli già bagnati per via della pioggia quando l'acqua calda della doccia lo investì. Scorpius teneva la testa sollevata verso il soffione e gli occhi chiusi contro il getto costante. Non aveva ben chiaro cosa stesse cercando di lavare via, se il sudore dell'allenamento o la moltitudine di pensieri che gli affollava la mente.

Aveva sempre considerato l'odio un concetto troppo forte, un sentimento velenoso da rifiutare con decisione. Eppure, in quel momento, era certo che fosse esattamente ciò che stava provando. Odiava i suoi compagni di Casa, che lo trattavano come se fosse fatto di vetro. Odiava il resto della scuola e le occhiate insistenti che gli riservavano. Odiava i professori e la loro indulgenza, odiava perfino la preside McGranitt, che non aveva battuto ciglio quando era rientrato a Hogwarts e si era limitata a dargli il bentornato. Odiava James il Perfetto - più del solito - perché quando si incrociavano nei corridoi lo ignorava con stoica indifferenza anziché attaccare briga.

Più di tutti, odiava se stesso. Si odiava per il dolore che non riusciva a celare agli altri, per quella fragilità che gli faceva guadagnare continuamente la compassione altrui. Si odiava perché era incapace di arginare qualsiasi emozione, perché era travolto da ognuna di esse - e perché la rabbia era quella che, alla fine, sovrastava tutte le altre.

Si odiava perché in qualche momento brevissimo aveva odiato perfino Albus. E lui sapeva, sapeva di non esserne capace, perciò se aveva creduto di odiarlo era solo perché il disprezzo per se stesso e la confusione - e la paura che a momenti sarebbe impazzito o crollato o entrambe - avevano preso il sopravvento.

Si passò una mano sul petto. Sotto la pelle bagnata, in uno spazio protetto da carne, ossa e sangue, il suo cuore batteva in maniera regolare. Come potesse essere così indifferente alle fitte che avvertiva appena più in basso, all'altezza dello stomaco, non gli era dato comprenderlo. A volte il dolore si propagava, gli circondava i polmoni, raggiungeva la gola e la serrava, togliendogli il respiro, e allora lui credeva che il suo corpo lo avrebbe sentito, che il suo cuore avrebbe perso almeno un battito, e invece no.

Ritmico, regolare. Lo squarcio al centro del petto era soltanto nella sua testa, ma non per questo era meno vero.

Eppure sapeva smettere la propria indifferenza, quel traditore. Sapeva accelerare di fronte a un sorriso, rimbombare nella cassa toracica e riempirgli le orecchie di un rumore insistente, solo per effetto di uno sguardo, una premura, una parola gentile - dall'unica persona che contava.

Traditore e ingenuo, aveva perso il ritmo in reazione a parole avventate, a cui non era giusto né opportuno credere.

Albus gli voleva bene, lo sapeva e ne era grato più di quanto fosse capace di esprimere. Era buono e gli voleva bene, e la combinazione delle due cose lo avrebbe portato a fare qualsiasi cosa per lui, a donargli tutto se stesso, senza fermarsi a domandarsi se era davvero ciò che desiderava per sé.

Scorpius sapeva di essere stato brusco, se n'era pentito non appena era rimasto solo con la scia delle parole appena pronunciate a bruciargli la lingua. Ma non aveva potuto fare di meglio, aveva realizzato di essere stato incapace di proteggerlo dal suo stesso altruismo e la rabbia per quell'ennesima dimostrazione della propria debolezza lo aveva fatto esplodere.

La doccia era bollente, ma non riusciva a prendere calore. Sfregò la pelle fino ad arrossarla, insaponandosi per lavare via almeno il sudore - perché con i pensieri non c'era riuscito.

Se avesse potuto estirpare l'immagine di Albus dalla propria mente - e dal cuore e dall'anima - lo avrebbe fatto. Ma si era rassegnato già da tempo a convivere con i suoi sentimenti per lui, un segreto che si concedeva di abbracciare soltanto nella sicurezza della solitudine. Rivelarglieli era stato un errore, ma cos'altro avrebbe potuto fare? Non era capace di mentirgli più di quanto fosse capace di difenderlo da ciò che provava.

Sospirò, mentre l'ultima traccia di sapone gli scivolava via lungo il corpo in una carezza che non somigliava affatto a quella che agognava.

Lo voleva. Lo voleva come non aveva mai voluto niente in vita sua. Voleva baciarlo, toccarlo in un modo che non aveva niente della purezza con cui Albus avrebbe toccato lui. Lo desiderava con un'intensità tale che ogni centimetro della sua pelle bruciava per l'assenza di un contatto con lui. Era un dolore sordo, diverso da quello che gli scavava il petto: più simile a un fastidio strisciante che gli accendeva tutte le terminazioni nervose e lo lasciava sempre costantemente insoddisfatto.

Lasciò vagare la mano destra sull'addome, poi scese verso il ventre, alleggerendo il contatto fino a sfiorarsi solo con la punta delle dita. Non erano sue, le mani che avrebbe voluto sentire su di sé. Non era la parete della doccia, che avrebbe voluto guardare, ma occhi familiari carichi di una dolcezza che conosceva bene.

Inseguì con lo sguardo le venature delle piastrelle, verdi di una sfumatura che agognava, e rammentò a se stesso che la solitudine era il crudele presupposto che gli consentiva di concedersi quella debolezza. Portò il palmo libero davanti a sé, per sostenersi. Affondò i polpastrelli nelle fughe sottili, affidando al tatto l'incarico di ancorarlo alla realtà.

Forse era disposto a offrirgli tutto se stesso, ma Albus sarebbe rimasto sconvolto dai pensieri che il suo migliore amico gli dedicava nell'intimità delle proprie fantasie. Non immaginava le cose che Scorpius avrebbe voluto fargli - e farsi fare -, e come avrebbe potuto? C'era sempre un fondo di innocenza in tutto ciò che proveniva da lui, come se ciò che lo riguardava appartenesse sempre a una dimensione eterea, che Scorpius non avrebbe mai potuto guadagnare. Aveva tentato di proteggere la loro amicizia dal tradimento che compiva ogni volta che se lo figurava in ginocchio davanti a sé, a replicare con la bocca ciò che lui faceva con la mano - una copia sbiadita di quanto avrebbe voluto davvero.

Eppure eccolo lì, pronto a offrire se stesso perché consapevole, anche senza conoscere la natura dei suoi desideri più profondi, di essere acqua fresca sull'incendio in cui si stava trasformando - perché lui bruciava, di dolore, di mancanza, di paura.

Scorpius si strinse con più forza e si mosse più veloce, ansimò contro la parete della doccia mentre posava la fronte contro le piastrelle. Non poteva averlo, non se lui si era fatto avanti soltanto per il suo bene. Non era così che lo voleva.

Si lasciò andare a un piacere a metà, graffiato dalla malinconia che gli si agitava dentro. Un gemito gli rimase intrappolato nella gola e ne venne fuori soltanto un sospiro pesante. Attese di riprendere il controllo di sé, mentre le spalle si sollevavano e si abbassavano rapide - e il cuore galoppava, traditore.

Passarono secondi, forse minuti, prima che il suo battito tornasse tranquillo. Scorpius si lavò di nuovo, stavolta senza riflettere su ciò che voleva cancellare con acqua e sapone.

Sarebbe tornato da lui e gli avrebbe sorriso. Avrebbe scompigliato i capelli di Albus e represso la scarica che avvertiva ogni volta che lo toccava, poi avrebbero parlato di qualsiasi cosa e sarebbero stati l'uno il migliore amico dell'altro, com'era giusto che fosse.

Era naturale; a costargli sforzo era soltanto la diga autoimposta con cui arginava i propri sentimenti, che erano di più, erano oltre. Non doveva fingere per stare bene accanto a lui. Non doveva mentire per dirgli che gli voleva bene. Non c'era alcun tradimento nei confronti di se stesso nell'essergli semplicemente amico.

Sigillò in un angolo sepolto della propria coscienza il barlume di speranza che aveva provato nell'ascoltare le parole di Albus, nell'istante brevissimo che gli era occorso per ritrovare il controllo di sé.

Vorrei che avessi me.

Che non lo avrebbe avuto era una consapevolezza con cui aveva convissuto per tanto tempo. Trasse un profondo respiro e si fece forza: poteva continuare a farlo.

***

La cena era iniziata da un pezzo quando Scorpius varcò la soglia della Sala Grande, rumorosa e caotica com'era sempre durante i pasti. Len fu la prima ad accorgersi della sua presenza, quando ormai era a pochi passi dal posto che occupava di solito. Albus seguì lo sguardo dell'amica e alzò gli occhi su di lui, fallendo miseramente nel proposito di rivolgergli un'espressione impassibile.

«Era ora», lo rimproverò Len. «Sei in ritardo, ti aspettiamo da un pezzo.»

«Non ho molta fame», si giustificò Scorpius, poi infilò le dita tra i capelli di Albus e li scompigliò in un gesto all'apparenza distratto. Gli lanciò una sola occhiata, una muta domanda nello sguardo. L'amico gli rispose con un sorriso debole.

Sapeva che avrebbe dovuto scusarsi, ma non aveva intenzione di riaprire la discussione, e al di là dei modi bruschi era ancora convinto delle proprie ragioni. Perciò si accontentò di quella fragile tregua.

«Meglio, così puoi prestarmi attenzione», fece Len, ignorando il loro scambio silenzioso.

Gli fece cenno di avvicinarsi e lui prese posto alla sua sinistra, in modo che lei sedesse nel mezzo. Teneva un libro aperto sul tavolo, i piatti semivuoti messi da parte per fare spazio.

«Ho trovato la soluzione ai nostri problemi», proseguì a voce più bassa, ma senza sussurrare, perché se l'avesse fatto avrebbe attirato l'attenzione dei loro compagni di Casa. Albus si sporse verso di lei, scrutando le pagine.

«Si tratta di una pozione in grado di trasferire un incantesimo a un oggetto.»

«Trasferire?», le fece eco Scorpius.

«Sì. Si immerge l'oggetto in questa pozione, gli si scagliano contro degli incantesimi e l'oggetto dovrebbe assorbirli.»

Impiegò qualche istante di troppo a comprendere che stavano parlando del progetto interdisciplinare. «Oh.»

«Che vuol dire "dovrebbe"?», chiese Albus.

Len scrollò le spalle. «È piuttosto vago. L'effetto dipende dall'oggetto in questione, ma la pozione è pensata per renderlo in grado di replicare l'incantesimo che subisce.»

Albus abbassò di nuovo lo sguardo sul libro. «E questo lo deduci perché tu capisci... lo spagnolo?», tentò.

Lei sbuffò. «È portoghese. E sì, lo capisco abbastanza, ho vissuto a Porto per tre anni quando ero piccola.»

Rammentò che il padre di Len lavorava come delegato del Ministero della Magia Britannico presso gli altri paesi europei e nel corso degli anni aveva viaggiato molto insieme alla sua famiglia, prima di separarsi dalla moglie.

«Sono un po' arrugginita, ma dovrei riuscire a tradurre tutto in un paio di giorni», disse Len, scorrendo con il dito lungo le righe. «La pozione però... Mi sembra complessa da realizzare. Non ci sono delle vere e proprie istruzioni, solo delle indicazioni generali. Qui parla di un accelerante, ma io non ho idea di cosa sia», concluse picchiettando con l'indice su una parola.

«Un catalizzatore», spiegò Albus. Entrambi si voltarono a guardarlo. «Per rendere il prodotto maggiore della somma delle parti, come nella preparazione degli antidoti complessi.»

Scorpius e Len lo fissarono come se fosse lui a parlare in un'altra lingua.

«La Terza Legge di Golpalott!»

«Abbiamo studiato qualcosa del genere?», mormorò Len rivolta a Scorpius, impressionata.

«Non che io ricordi.»

«Niente Galpalott

«Golpalott», la corresse Albus.

«Niente», confermò Scorpius.

«Ma non è questo il punto», intervenne di nuovo l'amico. «Non dobbiamo preparare un antidoto, solo scegliere un catalizzatore. Non sarà un problema insormontabile.»

«No?»

«No.»

Len scrollò le spalle. «Mi consola sapere che almeno uno di noi sarà in grado di preparare questa pozione.»

«Tu non preoccuparti», fece Scorpius. «Pensa soltanto a tradurre questa roba, poi toccherà ad Albus il piccolo Alchimista metterla in pratica», scherzò.

Lui provò a fingere disappunto, ma gli sfuggì un sorriso.

«Domani dopo le lezioni inizierò a lavorarci», promise lei, sollevando il libro per guardarlo più da vicino. «Sabato c'è la partita, quindi direi che saremo pronti per domenica.»

Albus approfittò dello spazio vuoto davanti a lei per spingere un piatto di patatine fritte. «Domenica non passeremo la giornata chiusi nel Castello a preparare pozioni. È il compleanno di Scorpius.»

Lui fece un sorriso sarcastico, poi lanciò un'occhiata al cibo che l'amico gli stava passando.

«Premuroso», fece in tono divertito, senza specificare a cosa si riferisse.

Albus sbuffò. «Idiota.»

Len li guardò a turno entrambi. «Avevo quasi dimenticato perché non mi siedo mai in mezzo a voi due.»

«Possiamo studiare nelle vacanze», proseguì Albus, ignorandola completamente. «Avremo un sacco di tempo libero.»

«Oppure potremmo sfruttare le vacanze per non fare niente», suggerì Scorpius.

«E restare indietro proprio nell'anno dei G.U.F.O.? Scordatelo.»

«Secchione.»

«Sfaticato.»

Si punzecchiarono scambiandosi occhiate divertite, finché Len non alzò un sopracciglio. «Se volete restare soli basta dirlo.»

Il sorriso di Albus gli morì sulle labbra. Scorpius lo vide provare a nascondere l'improvviso cambio di umore, senza successo. Rimase in silenzio, mentre la leggerezza che aveva provato fino a un attimo prima lo abbandonava.

«Devo dire a James, Rose e Hugo che resterò qui per Natale», annunciò l'amico di punto in bianco. «Ci vediamo dopo.»

Si alzò in piedi e Len gli rivolse un'occhiata interrogativa, che lui ignorò.

«Mangia», aggiunse soltanto, accennando con il capo al piatto di fronte a Scorpius. Poi si allontanò a grandi passi in direzione del tavolo dei Grifondoro.

***

«Che gli hai fatto?», domandò Len, pronta a fare a Scorpius l'ennesima lavata di capo.

Aveva considerato per un momento l'ipotesi di restarne fuori, perché intromettersi tra lui e Albus richiedeva una quantità di energie che lei non era certa di essere disposta a spendere. Eppure non aveva potuto fare a meno di offrire la propria saggezza al servizio della pace tra i suoi amici.

«Dai sempre per scontato che io gli abbia fatto qualcosa», brontolò Scorpius, la risposta che dava ogni qualvolta lei gli muoveva quella stessa accusa. Sembrava aver perso completamente il buonumore ritrovato negli scambi di battute con Albus. «Sei stata tu a fare un commento fuori luogo, l'hai messo in imbarazzo.»

Len non si scompose. «Non era in imbarazzo, era... triste», replicò, più preoccupata di quanto le piacesse ammettere.

«Non so di che parli.»

«Solo tu riesci ad alterare così il suo umore. Eppure stavolta è diverso, di solito lo fai arrabbiare, invece stasera sembrava ferito

Scorpius si voltò di scatto, parole dure pronte a fuoriuscire dalle labbra schiuse, ma all'ultimo istante si trattenne.

«Che gli hai fatto?», ripeté Len, e stavolta non c'era alcuna accusa nella sua voce.

«Ho rifiutato la sua compassione per il bene di entrambi», rispose lui. I suoi occhi rintracciarono l'amico, impegnato a chiacchierare con Rose, in mezzo ai Grifondoro. «Gli passerà.»

«E nel frattempo cosa pensi di fare?»

Scorpius lasciò correre lo sguardo lungo il tavolo, soffermandosi all'altezza di un gruppo di studenti del sesto anno. «Magari qualcosa di stupido.»

Len individuò l'oggetto della sua attenzione. «Oh, Dominique è abbastanza stupida, vuoi farti lei?»

Alzò gli occhi al cielo.

«O magari James, in quel caso sarebbe davvero un casino.»

Una smorfia di disgusto deformò l'espressione di Scorpius, che tuttavia seguitò a rimanere in silenzio.

«Oppure Cassidy, se vuoi spezzare il cuore di Rose. Anzi», si corresse Len, affinando il proprio suggerimento. «Luke sarebbe la scelta migliore. Faresti incazzare tutti in un colpo solo. Io però approverei.»

«Len...»

«Hugo non te lo propongo, è piccolo, sarebbe troppo anche per te.»

«Smettila.»

«Tanto non fa differenza, no?», lo provocò con un sorriso.

«No», ribatté Scorpius, glaciale. «Non fa alcuna differenza.»

Len gli rivolse un'espressione severa, sfidandolo ad aggiungere altro.

«Che importanza vuoi che abbia, se non è lui?»

Lo aveva detto in un tono appena sussurrato, quasi parlasse a se stesso anziché a lei. Riportò lo sguardo sul tavolo dei Grifondoro, verso Dominique, poi lasciò perdere e Len vide con chiarezza il momento in cui mise da parte qualunque piano stesse elaborando in quel momento. Sembrava esausto.

«Non me lo avevi mai detto esplicitamente», gli fece notare con delicatezza.

Lui non si scompose. «Lo sapevi.»

«È diverso.» Gli posò una mano sul braccio e attese finché lui non si voltò a guardarla. «Tu sei diverso.»

Scorpius le rivolse un mezzo sorriso beffardo. «Credi che comincerò a vomitarti addosso tutti i miei sentimenti?»

Len scosse il capo, decisa a non raccogliere la sua provocazione. «Credo tu abbia realizzato di non essere più disposto a soffrire.»

«Non penso sia un ragionamento consapevole.»

«Forse sei solo stanco.»

«Da morire», confermò lui, in un'ammissione che doveva essergli sfuggita contro la sua volontà.

«Allora non sprecare forze a fare la guerra con il tuo migliore amico», suggerì Len. «Sistema le cose con lui. In un modo o nell'altro.»

Scorpius gettò un'occhiata ad Albus, impegnato in un'animata discussione con James, e sospirò. «Me ne vado a letto», disse alzandosi in piedi.

Len non provò neanche a fermarlo.

***

«Cosa ti aspettavi che dicessi, di preciso?»

Albus sbuffò all'indirizzo di suo fratello, seduto dall'altro lato del tavolo. «Non lo so, James, magari sarebbe stato meglio se fossi rimasto semplicemente zitto

Rose gli mise una mano sul braccio per calmarlo. Cassidy, accanto a lei, sembrò farsi sempre più piccola.

«Perché ce lo hai detto, se non possiamo esprimere neanche la nostra opinione?», protestò James.

Albus serrò i pugni. Si era seduto al tavolo dei Grifondoro con l'idea di sostenere una conversazione tranquilla con i suoi familiari, ma avrebbe dovuto aspettarsi l'ennesima discussione con il fratello.

«Non ti stavo chiedendo il permesso, James, non sei papà. Per quanto a volte ti piaccia pensare di esserlo.»

«E questo cosa vorrebbe dire?»

«Sai perfettamente cosa voglio dire.»

«Be', se fossi papà ti direi di piantarla con queste stupidaggini. Il Natale si passa in famiglia!»

«James», intervenne Rose. «Dovremmo calmarci tutti.»

«E invece indovina un po'», replicò Albus, come se lei non avesse parlato. «Papà non lo ha fatto.»

«Non sto dicendo che devi tornare a casa», sbottò suo fratello. «Non sono io a potertelo imporre. Ma avresti dovuto capirlo da solo, che era la cosa giusta da fare!»

«La cosa giusta è quella che faresti tu?», lo provocò Albus. «Il perfetto primogenito che non sbaglia mai un colpo? Congratulazioni per la tua infallibilità, James, nessuno di noi può sperare di emularti!»

«Albus.» Rose gli strattonò una manica sotto il tavolo. «Basta così.»

«Sei un idiota! Qui non si tratta affatto di me!»

«Davvero? Strano, mi era parso il contrario.»

«Si tratta di passare del tempo insieme», gli spiegò irritato. «Con mamma e papà, ma anche con noi», abbracciò con un gesto se stesso e Rose, ma anche Lily e Hugo che, seduti più lontani, guardavano nella loro direzione e non si erano persi neanche una parola della discussione, come qualunque altro Grifondoro a portata d'orecchio. «È un'occasione per stare insieme, visto che durante l'anno...»

«... sono lontano dalla mia famiglia perché sono finito nella Casa sbagliata?», provò a concludere per lui.

Rose si irrigidì. «Non ha detto...»

«Sei un idiota», ripeté James, infervorandosi ancora di più. Aveva le orecchie di un rosso così acceso che si intonavano allo stemma sul suo maglione. «Se vuoi continuare a fare la vittima fa' pure, ma non mettermi in bocca parole che non ho pronunciato.»

«Non potresti giurare di non averle pensate, però.»

«È un dato di fatto che sei lontano da tutti noi per la maggior parte dell'anno.»

«E tu senti la mia mancanza, non è vero, James?», lo canzonò con un sorriso amaro. «Non c'entra niente la tua missione di tenerci tutti uniti e al sicuro e...»

«Fottiti.»

«Non ti sei neanche fermato a domandarti perché è così importante per me rimanere», proseguì, senza dare segno di averlo sentito.

James sbatté un pugno sul tavolo. Accanto a lui Luke Goldstein, che non era mai intervenuto nella discussione, gli mormorò di calmarsi.

«So benissimo perché vuoi restare e non dico che non sia un valido motivo...»

«Ma i tuoi motivi sono più validi», lo interruppe. «Perché sono i tuoi

Mani gentili si posarono sulle sue spalle. Albus si voltò e vide che sua sorella si era alzata per raggiungerlo e gli stava rivolgendo un'occhiata ammonitrice.

Si arrabbierà. Perché lui è incapace di affrontare ciò che sfugge al suo controllo con qualsiasi emozione diversa dalla rabbia.

«Sei così testardo che è inutile parlare con te. Fa' come ti pare», tagliò corto James. «E visto che il nostro parere non ha alcun impatto sulle tue decisioni, la prossima volta non disturbarti neanche a comunicarcele.»

Albus fu sul punto di fargli notare che non aveva il diritto di parlare per tutti loro, che Rose, Lily e Hugo non avevano battuto ciglio e che soltanto lui aveva alzato un polverone. Non lo fece perché sua sorella serrò la stretta sulle sue spalle.

Ma sarà perché sentirà la tua mancanza. Ricordatelo quando avrai voglia di prenderlo a pugni.

«Sai una cosa? Forse passare il Natale separati aumenterà le probabilità di entrambi di trascorrerlo con serenità», dichiarò alzandosi in piedi, sfuggendo alla presa di Lily e allo sguardo preoccupato di Rose.

«Puoi ben dirlo.»

Trattenne una smorfia e si allontanò dal tavolo, senza mai voltarsi indietro. «Buona serata a tutti.»

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Note

Le leggi di Golpalott, che riguardano la preparazione degli antidoti ai veleni, sono oggetto di studio al sesto anno a Hogwarts. Tuttavia, essendo Albus appassionato di pozioni, ho supposto plausibile che avesse già letto qualcosa a riguardo: in particolare fa riferimento alla terza legge, che afferma che "l'Antidoto per un veleno complesso è maggiore della somma degli antidoti per ciascuno dei singoli componenti", ovvero prevede l'utilizzo di un catalizzatore, o accelerante, che completi l'antidoto. Si tratta di un componente da scegliere basandosi soltanto su intuito ed esperienza, e Albus è fiducioso di riuscire a trovare quello giusto per la pozione che intendono preparare lui e i suoi amici, che è di mia invenzione.

Alla prossima!

Futeki

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