58. Non accumulare silenzi, ogni tanto grida

Udite, Udite!

Non ci credo nemmeno io, ma sono riuscita a terminare un capitolo (non sapete quanto tempo ci ho impiegato dovendo interrompermi spesso). Spero ne sia valsa la pena, vi prego però di aiutarmi con gli errori perché sicuramente me ne saranno scappati molti, ma non mi sembrava giusto lasciarvi oltre senza aggiornamento :)

Buona lettura ;)

  Melissa 

Insieme a Keiko raggiungo la sua auto rosa nel parcheggio dell'ospedale, davanti a essa, seduto sul marciapiede, ci troviamo Alex con la testa piegata tra le ginocchia. Mi basta un'occhiata per capire che il suo stato d'animo, anziché migliorare dopo essere venuto a conoscenza delle buone condizioni del fratello, è di gran lunga peggiorato. Senza nemmeno guardarci, si alza lentamente, facendo un ultimo tiro e lanciando lontano il mozzicone della sua Malboro. Le sue iridi chiare osservano l'asfalto, senza vederci realmente niente e la sua carnagione, di solito olivastra, è pericolosamente bianca tanto che temo possa vomitare da un momento all'altro.

Keiko aziona l'apertura della macchina con il telecomando, osservando perplessa il ragazzo davanti a noi che, senza proferire parola, spalanca la portiera e sprofonda nei sedili posteriori.

«Prego, accomodati pure.» Borbotta la mia amica, prendendo posto davanti al volante, mentre anche io mi siedo accanto a lei.

Ovviamente non riceve nessuna risposta, nemmeno l'usuale grugnito a cui spesso sono stata abituata; ci dirigiamo così verso casa nel più completo silenzio, Keiko non fa altro che fissare il passeggero nei sedili posteriori, preoccupata che possa sporcare gli interni da un momento all'altro. Fortunatamente questo non accade e finalmente arriviamo all'appartamento, dove ci saluta mentre noi cominciamo a salire le scale; Alex rimane dietro di me a debita distanza, rendendo vano ogni mio tentativo di approccio.

Varchiamo la soglia e lui va diretto a stendersi sul divano, coprendosi il viso con un braccio, ulteriore segno che non è pronto ad aprirsi con me e a parlare di ciò che lo tormenta. Non so bene cosa aspettarmi questa volta, così decido che forse è meglio lasciargli i suoi spazi, almeno per ora, e vado in camera mia con il buon proposito di non lasciare infruttuosa questa giornata iniziata con il piede sbagliato, tuttavia rimango bloccata sulla porta: davanti al letto c'è il mio portatile ancora aperto, le istruzioni che avevo stampato e altri fogli sparsi sul pavimento. Mi torna in mente la notte precedente e il mio piano di verificare le doti grafiche di Alex; incuriosita corro a sedermi per terra, appoggio il computer sulle gambe incrociate e lo accendo ricca di aspettative, visualizzo le immagini che ha salvato e, mano a mano che le scorro, rimango sempre più sconcertata; non tanto per la velocità con cui ha imparato l'utilizzo di tutti i vari strumenti del programma, ma per i soggetti che ha scelto: donne nude. Una donna nuda che balla la Lap Dance sulla Torre Eiffel, donne nude con le gambe aperte sdraiate sul Partenone, un'altra donna nuda che fa una doccia sexy mentre la Statua della Libertà, anziché mantenere la torcia, stringe un soffione e tante altre ragazze in pose sconce nei luoghi più famosi del mondo.

Richiudo il portatile con un colpo secco, indecisa se essere arrabbiata per il modo in cui è stato indegnamente usato o sorpresa per la precisione dei suoi fotomontaggi. Vista la situazione, opto per rimandare questo discorso in un momento più consono e di non perdere altro tempo a guardare quelle immagini sconce, così raccolgo tutti i fogli sparsi, mi siedo sulla scrivania, recupero un libro dalla tracolla, infilo i tappi per le orecchie e mi immergo nello studio, rimandando a più tardi tutti i problemi.

Quando si avvicina l'ora di pranzo, decido di tornare in sala ad affrontare Alex anche se non so ancora bene quale sia la strategia migliore da seguire, tuttavia non posso indugiare oltre e non credo gli faccia bene rimuginare troppo da solo. Alzandomi faccio cadere per sbaglio la pila di fogli raccolti poco prima che si spargono per tutto il pavimento, imprecando contro la mia mancata grazia, mi inginocchio a raccogliere tutto finché non mi capita tra le mani uno schizzo fatto a penna. Raffigura qualcosa che conosco molto bene, qualcosa che fa parte della nostra vita quotidiana: in primo piano due mani maschili asciugano un bicchiere sopra un bancone del bar con tutte le tipiche striature del legno, dietro si vedono una serie di tavolini con le ombre di alcune persone e, vicino a uno di essi, proprio al centro dell'immagine, la figura di una donna con un vassoio in mano e con una cascata di capelli ricci.

Sbalordita avvicino a me il disegno per osservarlo meglio: si, sono proprio io. Il bar è stato raffigurato nei minimi dettagli, la figura è scura, eppure il suo sorriso è stato lasciato bianco e ho come l'impressione che sia il punto focale del suo schizzo.

Senza pensare ad altro, mi alzo stringendo al petto quel foglio che mi sembra diventato la cosa più preziosa in mio possesso e mi dirigo di corsa dal suo autore. Quando arrivo in sala però mi rendo conto che non è più sul divano dove l'avevo lasciato, controllo in bagno, in cucina e anche sul balcone, ma di lui non c'è nessuna traccia. Recupero il cellulare e provo a chiamarlo, mentre nella mia testa prendono forma scenari poco rassicuranti su dove possa essere finito, il suo telefono comincia a vibrare sopra il tavolino: non l'ha portato con sé.

Non avrei dovuto lasciarlo da solo, è tutta colpa della mia vigliaccheria, avrei dovuto appiccicarmi a lui come una cozza e affrontarlo subito a costo di farmi riempire di insulti, ma almeno ora sarebbe qui con me.

Recupero la borsa e tutto ciò che mi serve per il lavoro, infilo il disegno nella tasca posteriore dei jeans prima di fiondarmi fuori casa e inizio a setacciare tutti i luoghi che di solito frequenta: ripercorro i tragitti che facciamo di corsa, entro nel bar malfamato con la barista da capelli viola e ogni altro locale nei dintorni. A ogni fallimento il cuore accelera i battiti, non so perché ma questa volta la sua sparizione è diversa, ho paura si sia innescato qualcosa di pericoloso in lui, qualcosa che potrebbero a spingerlo a fuggire lontano da me e suo fratello. Quando ormai è troppo tardi scappo al lavoro, con l'ultima speranza di trovarlo dietro al bancone, speranza che si dissolve non appena faccio il mio ingresso. Racconto alla signora Carola che Alex è stato male poco prima di uscire di casa e che non ce la faceva proprio a venire al lavoro, lei si mostra comprensiva anche se è evidente che saperlo così all'ultimo minuto la infastidisce molto. Mi chiede se mi sento bene anche io, visto il colorito del mio viso, la rassicuro e mi metto subito all'opera, se non avessi dei doveri sarei in giro per tutta la città, ma devo mantenere il posto di lavoro di entrambi. La signora Carola resta per coprire la prima metà del turno di Alex, mentre il marito ci raggiungere presto per coprirne il resto; consegno a lui le stampe per il volantino e quando mi chiede se ho avuto qualche idea scuoto la testa. Potrei mostrargli il disegno di Alex, ma è come se si trattasse di qualcosa di estremamente intimo, così decido di tenerlo solo per me, nella tasca dei miei jeans.

Finito il turno la mia preoccupazione raggiunge livelli da record, torno a casa impiegandoci la metà del tempo nella speranza di trovarlo lì, sdraiato in maniera scomposta sul quel divano ormai sfondato, invece ci trovo seduti Davide e Ashley.

Fingo che vada tutto bene e quando il mio coinquilino mi chiede del fratello, evito di dirgli che è sparito, mi limito ad alzare le spalle e a riferire che dopo il lavoro è andato a farsi un giro, bugia che non desta nessun sospetto. Ashley mi comunica che ha pensato lei alla cena, ordinandola dal suo ristorante vegano preferito e, mentre inizia farmi una lezione sul suo stile di vita e mi consiglia un nuovo supermercato biologico (dopo aver visto le "schifezze" che secondo lei teniamo nel frigorifero) mi viene un'illuminazione sull'unico posto dove non sono andata a cercarlo, così con una scusa mi dileguo interrompendo poco elegantemente il monologo di Ashley che rimane molto contrariata.

Ci metto pochi secondi a individuarlo all'interno del parco Sempione, sotto l'albero dove avevamo passato del tempo insieme e dove lo avevo ascoltato per la prima volta confidarmi un ricordo felice sul suo amico Diego. Forse l'unico posto nel quale io l'abbia mai visto rilassato, quasi sereno, oserei dire.

Lo raggiungo, è seduto per terra con un ginocchio alzato, l'altra gamba distesa sull'erba e le braccia dietro la schiena per sorreggerlo; gli crollo accanto e lui non sembra aver ancora notato la mia presenza, perso com'è a contemplare l'infinito.

«Un giorno di questi mi farai venire un infarto.» Esordisco, facendolo sobbalzare dallo sorpresa.

Si gira lentamente e mi fissa corrugando le sopracciglia confuso.

«Mi hai fatto preoccupare, ti ho cercato dappertutto.» Continuo e in risposta ricevo un verso di disapprovazione.

«Da quando devo rendere conto a te di dove vado?» Sputa irritato.

«Se mi avvisassi, invece di sparire nel nulla, sarebbe carino! Ho dovuto inventarmi una scusa per te al lavoro!»

«Nessuno te l'ha chiesto, ragazzina. Potevi dire che mi ero rotto il cazzo di quel posto di merda e sinceramente mi sono rotto il cazzo anche di te.» Ringhia tentando di alzarsi, ma lo afferro per un braccio facendogli perdere l'equilibrio e capitola nuovamente accanto a me.

«Sei tu che hai rotto con questa storia della ragazzina. Pensi che sia scema? Davvero credi che non abbia capito che ogni volta che ti senti ferito allontani le persone a cui vuoi bene? Se veramente non te ne fregasse niente di nessuno come vuoi far credere, ora non staresti soffrendo così.» Sbotto, stringendo più forte il suo braccio e guardandolo dritto in faccia.

Sostiene il mio sguardo restando impassibile, eppure lo vedo, dietro quegli occhi smeraldini si sta svolgendo uno guerra dentro di lui, tra il ragazzino impaurito che vuole scappare da ogni possibile fonte di sofferenza e Alex adulto che finalmente aveva trovato un suo equilibrio, precario, ma pur sempre meglio di come era prima.

«Spari una marea di stronzate.» La sua voce vacilla leggermente, cerca di alzarsi ancora, ma lo trattengo con tutte le mie forze.

«E' così e lo sai anche tu. La tua più grande paura è quella di perdere le persone vicine a te: quando oggi hai creduto che fosse successo qualcosa a Davide...»

«E a te...» Sussurra appena.

«...sei letteralmente impazzito. Però non è successo niente. Stiamo tutti bene, quindi ora puoi tornare in te! Le cose brutte accadono come quelle belle, ma se stai qui a rimuginare sulle prime non risolvi niente e soprattutto scappare via non ti aiuterà.» Continuo imperterrita. «Dovresti saperlo ormai, la solitudine non è una corazza con la quale proteggersi, è una prigione.»

Restiamo a fissarci per istanti interminabili. Vorrei tanto che la smettesse di cercare in tutti i modi di trasformare il dolore che prova in rabbia, dovrebbe affrontarlo una volta per tutte e imparare a conviverci, come facciamo tutti. Sono sicura possa essere più forte di così, ha solo bisogno di avere più fiducia in sé stesso e di qualcuno che magari creda in lui senza giudicarlo. Dovrebbe pretendere di più dalla propria vita e non lasciarsi trascinare dalla corrente degli eventi, provare a plasmare il proprio destino e se non ha intenzione di arrivarci da solo ci penserò io a ficcarglielo in quella testa dura.

«Tutti abbiamo delle paure, bisogna solo imparare a tenerle sotto controllo.»

Alex interrompe il nostro contatto visivo e si sdraia sull'erba incrociando le braccia dietro la testa. Restiamo in silenzio, anche se ho l'impressione di sentire il rumore delle rotelle del suo cervello che si mettono in moto, speriamo nel verso giusto.

«E quale sarebbe la tua?» Domanda, osservando il cielo che ormai comincia a prendere le classiche sfumature rossastre del tramonto.

«La mia?» Casco dalle nuvole, avendo perso il filo del discorso dopo la lunga pausa.

«La tua paura, qual è?»

Non rispondo subito, potrei dirgli che il mio era un discorso generico, oppure che ho la fobia dei ragni, ma sento di poter essere sincera con lui, che forse è in grado di capirmi più di chiunque altro.

«Di restare sola.»

Si alza di scatto, poggiando i palmi delle mani nella terra per sostenersi, allarmato dal tono spento della mia voce e avvicina il suo viso al mio per osservarmi con più attenzione.

«Di restare sola?»

«Si.» Deglutisco.

Ispeziona i miei occhi con estrema concentrazione, alla ricerca di qualcosa che non credo riesca a vedere.

«Com'è possibile? Sei circondata da persone! Certo, alcune di loro sono molto fastidiose, ma a te non sembra dispiacere.» Chiede ulteriori delucidazioni, senza mai perdere il contatto visivo.

E' la prima volta da quando lo conosco che mi rivolge uno sguardo così profondo ed è l'unica volta in vita mia che mi sento come sotto a un microscopio, come se mi volesse scavare dentro. Il suo eccessivo interesse mi mette in soggezione, non ho detto niente di così eclatante, quindi non capisco perché voglia approfondire questo discorso.

«Invece è possibile. Le paure sono irrazionali.»

Non è convinto della mia risposta, rimane a guardarmi in attesa che io gli dica di più, che gli spieghi il perché; sta indagando più di quanto avrei mai immaginato, di solito lo stesso interesse lo dimostra solo davanti a qualche bottiglia di liquore, mai per le persone.

E' palesemente incredulo che io posso avere questa debolezza, cosa pensava che fossi una tipa tosta e coraggiosa? Gli sembro forse senza macchia e senza paura? Lui conosce solo una parte di me, quella allegra e amichevole che con il tempo ho imparato a mostrare, non può conoscere tutto quello che è successo prima. Non sa quanto abbia faticato a circondarmi di persone, fastidiose o meno, quanto abbia sofferto quando venivo allontanata per errori che non avevo commesso, il timore che da un giorno all'altro chi mi stava vicino si rendesse conto della persona che ero veramente e mi guardasse con disprezzo. Non può sapere quanto sono stata male quando non venivo accettata, quando tutti credevano di sapere cose di me che nemmeno io conoscevo e che alla fine, per un periodo, ho assecondato solo per darmi un'identità. E poi c'è mia nonna, la mia famiglia, senza di lei mi sentirei persa, solo lei ha visto il peggio di me e mi è sempre rimasta accanto, una donna anziana che prima o poi...

«Ehi.»

La voce di Alex mi riporta alla realtà, il suo sguardo preoccupato mi fa capire come deve essere sembrato vacuo il mio mentre tornavo indietro con la mente. Scuoto la testa e chiudo gli occhi per scacciare via ogni pensiero e tornare alla vita che ho ora, la vita che mi sono duramente costruita mattone dopo mattone.

«Andiamo a casa.» Aggiunge il ragazzo.

Alex intreccia le sue dita alle mie e con delicatezza mi aiuta ad alzarmi, una volta in piedi mi tira verso di sé e mi avvolge con le braccia stringendomi al suo ampio torace. Lo lascio fare, beandomi del calore che irradia il suo corpo contro il mio e sentendomi immediatamente meglio.

«Tutti abbiamo delle paure, bisogna solo imparare a tenerle sotto controllo.» Ripete le mie parole e le sento vibrare nel suo petto.

Sorrido nascosta dal suo corpo, felice che mi abbia ascoltato almeno questa volta. Mi stringe ancora un po' e, anche se non emette alcun suono, la sento.

La sento mentre sovrasta il rumore del traffico cittadino nell'orario di punta, si mischia con il fruscio delle foglie dell'acero sopra di noi, diventando tutt'uno con i suoi sospiri vicino al mio orecchio... e la sento entrarmi sotto la pelle, scorrere nelle vene insieme al sangue dritta verso il cuore e da lì espandere il suo potere rassicurante, dal centro fino all'estremità del mio corpo.

Anche se non è mai stata pronunciata, sento la sua promessa avvolgermi e tenermi al sicuro: "Finché ci sarò io, tu non sarai mai sola"

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