51. Si impara più da un mare mosso che da una piscina

Alex

Sbarro gli occhi e annaspo alla ricerca d'aria. I ricordi che riaffiorano, sono così vividi, che provocano la sensazione di lame affilate conficcate nel torace.

La sirena e le luci blu. La corsa in ambulanza. L'operazione. La notizia che Diego era morto sul colpo. La disperazione devastante dei suoi genitori. La rabbia. Il dolore. Un'altra operazione. La fisioterapia. Il viso pallido del camionista. L'odio. Avvocati e tribunali. L'inizio degli incubi. Le urla durante la notte. La sofferenza. Gli attacchi di panico. Le sedute dallo psicoterapeuta. I farmaci. Le crisi violente.

Sono passati dieci anni, eppure è tutto ancora impresso a fuoco nella mia mente. Un marchio indelebile che non mi lascerà mai. Ed è giusto così, è la lezione che merito per le mie azioni meschine. Melissa mi fissa come a voler leggere i miei pensieri e mi stringe più forte la mano dentro la tasca della felpa.

«Lo sai che non è stata colpa tua.» Esordisce, dolcemente.

Scuoto la testa rassegnato. La solita frase di circostanza che dovrebbe farmi sentire meglio. Sapevo non avrebbe capito.

«Ho provato a dare la colpa a quel dannato camionista. Appena dimesso dall'ospedale ero anche riuscito a scoprire dove abitava e sono andato a dargli una lezione... più d'una volta in realtà. La maggior parte delle notti ero ubriaco marcio, quindi non ero nelle condizioni di potergli fare male quanto avrei voluto. Lui usciva di casa richiamato dalle mie urla, mentre moglie e figli restavano alle finestre spaventati. Me la prendevo con lui, ma in realtà non facevo altro che infierire su un uomo già finito. Nonostante alla conclusione del procedimento gli fu attribuita la colpa solo per metà, la ditta di trasporti per cui lavorava lo lincenziò e il rimorso di aver ucciso un ragazzo che poteva essere tranquillamente suo figlio, fece il resto. L'unica cosa che ottenni è una serie di denunce che mi obbligò a mantenere una distanza minima tra me e lui.» A fatica continuo il mio racconto, non ne capisco il motivo, ma voglio che lei sappia tutto.

Desidero che Melissa conosca il vero "me", che capisca che non sono un tipo raccomandabile e che, se sono solo, un motivo c'è. Dopo oggi sarà cosciente del fatto che sono rotto e che non c'è nessun modo per aggiustarmi.

«Quindi... la tua cicatrice sul ginocchio...» Asserisce lei titubante, indicando con un cenno del capo la mia gamba.

«Un promemoria dell'incidente.» Annuisco leggermente. «Da come era ridotto sembrava non potessi nemmeno riprendere a camminare normalmente, ma dopo due operazioni, tanta fisioterapia e... fatica, sono ancora in piedi.»

«Non capisco... se è già tanto che tu possa camminare, perchè vai a correre?» Chiede confusa.

Alzo le spalle con noncuranza. Deve aver sicuramente notato che, dopo ogni corsa mattutina, torno sempre a casa zoppicando dolorante. I medici infatti, mi hanno sempre proibito di praticare qualsiasi attività possa mettere sotto sforzo in modo eccessivo il mio ginocchio malandato, prima fra tutte correre. Questo, ovviamente, ha causato la fine della mia carriera calcistica, ancor prima che iniziasse.

«Tu... tu ti stai punendo?» Domanda perplessa, ritraendo la mano e provocandomi un brivido di freddo.

Rimango in silenzio, mentre la osservo distogliere lo sguardo da me e ragionare su tutto ciò che gli ho raccontato. Ho quasi l'impressione di sentire le rotelle del suo cervello girare frenetiche. Immagino che ora mi dirà che è dispiaciuta, ma che devo andare avanti, perchè Diego avrebbe voluto il meglio per me e la sua morte è stata solo una sfortunata coincidenza. Mi darà una pacca sulla spalla e concluderà convinta che con lo trascorrere degli anni starò sempre meglio e saremo tutti felici e contenti.

«Tu sei un vero idiota!» Sputa irritata, una volta giunta al termine delle sue considerazioni.

«Ma cos...» Ribatto allibito. E' impazzita?

«Io posso capire la sindrome del sopravvissuto. Ma questo è troppo!»

Si alza di scatto e gira i tacchi impettita. Si allontana velocemente scuotendo la testa in segno disapprovazione e borbottando irritata tra sè e sè.

Che diavolo sta succedendo? A questo punto le persone normali provano pena per me o compassione, non se ne vanno via arrabbiate dopo avermi dato dell'idiota. No, non lo posso accettare.

«Dove credi di andare!?»

Mi alzo anch'io e in poche falcate la raggiungo. Lei continua per la sua strada, così le afferro una spalla e la costringo a voltarsi.

«Lasciami!» Ringhia, scrollandosi la mia mano di dosso.

Faccio come dice, ma mantengo il contatto visivo. Rimaniamo l'uno di fronte all'altra a guardarci in cagnesco, i suoi occhi sono diversi dal solito: un'ombra scura, che non avevo mai visto prima, sembra essersene impossessata.

«Non puoi darmi dell'idiota e scappare via. Mi sono appena confidato con te e tu mi tratti così?» Dico a denti stretti.

«Si, hai ragione. E' per questo che me ne sto andando.» Spiega agitata. «Sono felice che tu mi abbia raccontato tutto e non voglio rovinare il tuo sforzo dicendo qualcosa che non vuoi sentire, ma quello che ho scoperto non mi è piaciuto per niente!»

«E sentiamo, cosa avresti scoperto?»

La sto perdendo... ha capito con che razza di persona ha a che fare. Ora sa che sono un assassino e non vuole più avere niente da spartire con me. D'altronde, era quello che volevo, no?

«Che sei un vigliacco!» Vomita la sua ira contro di me.

Rimango di stucco, non l'ho mai vista così fuori di sé per la rabbia.

«Sei un vigliacco! Quello che è successo a Diego nessuno poteva prevederlo o evitarlo, ma quello che stai facendo tu, con la tua vita, è tutto voluto!»

«Ma cosa diavolo c'entra?»

«Non sono stupida, l'ho capito. Tu credi di essere la causa della morte del tuo amico, solo perchè hai baciato la ragazzina per cui lui aveva una cottarella. Ti faccio presente che eri anche tu un ragazzino e che è salito lui su quel motorino, ha scelto lui di percorrere quella strada, non eri tu a guidare quel camion e soprattutto non sei stato tu a dire a quel semaforo di diventare rosso o verde in quell'esatto istante.» Inveisce contro di me, puntandomi l'indice dritto nel petto con decisione e enfatizzando ogni parola "tu" e "lui" per ribadire meglio il concetto.

«Ma per te è più facile dare la colpa a qualcuno, vero? Prima a quel pover uomo e poi a te stesso. Ti ricordo che anche tu hai perso qualcosa in quell'incidente, oltre a un amico: il tuo futuro è stato compromesso per sempre, non hai più potuto seguire il tuo sogno di diventare calciatore, ma invece di rimboccarti le maniche, cosa fai? Ti piangi addosso! Ti fa comodo colpevolizzarti, vero? Così non devi sforzarti ad andare avanti affrontando la sua perdita. Butti a puttane la tua vita solo perché hai troppa paura di tirare fuori le palle.» Urla tutto d'un fiato.

Nessuno aveva mai osato parlarmi così, tanto meno con questo tono accusatorio. Non era la reazione che mi aspettavo. Non era così che doveva andare.

«Inoltre, visto che non c'è limite al peggio, sei pure convinto che tutto questo sia giusto: una sorta di castigo. Non vorrei illudere le tue aspettative, ma non sei una qualche specie di divinità, quindi non puoi pensare di avere anche la benché minima influenza su queste cose... ti limiti a subirle, come tutti noi. Credi che Diego sarebbe felice di sapere quello che stai facendo in sua memoria?»

«Non nominarlo! Tu non sai niente di lui!» Sbraito, sta superando ogni limite.

«Stai zitto e ascoltami!» Mi interrompe, gli occhi improvvisamente lucidi. «Ho visto cosa fai! Ti stai aggrappando in tutti i modi a quella notte, credi di fare un torto al tuo amico se decidessi di proseguire con la tua vita? Che idiota! L'unico torto che stai facendo è solo a te stesso! Vai a correre quando sai perfettamente che non dovresti, facendoti del male e, come se non bastasse, da quando sei qui ti ho sempre visto rimorchiare ragazze bionde, credevo fosse questione di gusti, ma adesso temo che tu le abbia usate solo come promemoria. Non hai nessuna ambizione personale, te ne stai a marcire su quel divano ad aspettare che fuori faccia buio per proseguire con il tuo insano piano. I tuoi incubi non sono altro che il riflesso di ciò con cui ti tormenti tutto il giorno.»

«Complimenti, credevo studiassi economia e non psicologia.» La schernisco.

Cerco di rimanere fermo, ma in realtà le sue parole fanno vibrare qualcosa dentro di me. Non so esattamente di cosa si tratti, quello che ho udito non è niente che io non abbia già sentito o pensato, ma il modo in cui me lo sta dicendo lei è diverso: come se fosse una battaglia comune. Peccato che non abbia ancora capito che, quando non si ha niente per cui valga la pena combattere, si getta la spugna senza nemmeno provarci. Non si rende conto che sono una delusione continua, quindi qualsiasi cosa io tenti di fare sono comunque destinato a fallire, perché provarci dunque? Rimango coerente con me stesso e i miei insuccessi, confermando l'opinione della mia famiglia e di chiunque abbia avuto a che fare con me.

«Prenditi le tue responsabilità una volta tanto! Mi hai detto di essere stato geloso di Diego. Non te ne puoi fare una colpa: sei umano. Nessuno di noi è perfetto e spesso ci lasciamo guidare dai sentimenti, che possono essere più o meno dignitosi. Non puoi provare le cose a comando e non puoi nemmeno permettere ai tuoi genitori, o a chiunque altro, di condizionarti così tanto: solo perchè non hanno avuto fiducia in te non è detto che tu non ne sia degno. Allora eri un ragazzo, ma oggi che sei un uomo adulto, dovresti sapere che niente e nessuno può dirti chi sei e tanto meno cosa fare. Invece è più facile dire che sono gli altri che ti hanno tarpato le ali, quando in realtà sei tu che non ci hai voluto mettere il minimo impegno a dimostrare chi sei veramente. Ti rendi conto della stupidità della cosa? Dove credi ti porterà?» Lei non cede alla mie provocazioni, anzi continua il suo attacco facendo un passo verso di me.

Sembra inarrestabile, non l'ho mai vista con questo atteggiamento da guerriera, nemmeno quando avrebbe dovuto difendere se stessa da un torto subito.

«Credi di essere l'unico ad aver perso una persona cara? Se tutti reagissero come fai tu, dove andremo a finire?»

Improvvisamente mi viene in mente che Melissa è orfana. Mi rendo di conto di conoscere veramente poco sul suo passato e questo mi infastidisce parecchio.

«Non è la stessa cosa! Tu hai perso i genitori da bambina, nemmeno te li ricordi.» Le parole mi escono fuori, senza essere prima passate dal cervello.

«Ah, si?» I suoi occhi sono sempre più lucidi, sbatte più volte le palpebre come a ricacciare dentro le lacrime, ma la sua decisione è rimasta invariata. «Quindi io sarei stata fortunata ad aver passato solo cinque anni della mia vita con loro, a non aver nessun ricordo di famiglia, nessuna fotografia di noi. Secondo te quando vedevo gli altri bambini trovare fuori dalla scuola mamma e papà, io non mi sono sentita che mi mancasse qualcosa?»

«Non era quello che volevo dire.»

«Si, invece. Tu vuoi passare per la povera vittima della situazione, ma sei tu e solo tu, che hai deciso di passare la tua esistenza in uno stato di tormento continuo!»

Mi spinge con rabbia, mentre qualche lacrima sfugge al suo controllo. Tenta di asciugarla velocemente con la manica della felpa.

«Non posso permettere che tu butti nel cesso il tuo futuro per questo. Nessuno può cambiare il passato, ma quello che verrà dipende solo da noi...» Asserisce scuotendo la testa.

«E' giusto così, io sto bene così... non ho bisogno che tu...»

«Smettila!!!» Grida, prima di scoppiare a piangere a dirotto.

Il suo corpo è scosso dai singhiozzi, mi si stringe il cuore vederla così, ma il suo comportamento mi lascia spiazzato. Prima urla e mi spinge arrabbiata, poi comincia a piagnucolare disperata. Per di più, dopo qualche istante, si lancia inaspettatamente su di me.

«Devi smetterla, hai capito? Non c'è niente di giusto in tutto questo!» Singhiozza, chiudendo le mani a pugno e colpendo il mio petto ripetutamente ad ogni sillaba.

I suoi colpi non mi smuovono minimamente, non mi fanno alcun male, l'unico dolore che sento viene dall'interno. Dopo qualche minuto di assoluto silenzio, rotto solo dal suo pianto, afferra la mia felpa, stringendo la stoffa tra i pugni e nasconde il viso sul mio petto.

«Non meriti questo... devi reagire, ok? Fallo per te...» Riprende, tentando di controllare gli spasmi. «Fallo per me...» Sussurra, talmente piano che non sono nemmeno sicuro se sia o meno frutto della mia immaginazione.

Avvolgo un braccio intorno a lei, stringendola appena, appoggio l'altra mano sulla sua testa e comincio a carezzarle i capelli. Mi lascio cullare dalla sensazione piacevole che mi provoca la sua vicinanza e, se possibile, vorrei fossimo ancora più uniti.

Il mio dolore è il suo dolore, le sue lacrime sono le mie lacrime.

Pian piano, mentre la coccolo, mi sento sempre più svuotato, come se fossi io quello che si è lasciato andare a un pianto liberatorio, anziché lei. E poi accade. Una piccola stilla si forma nell'angolo di uno dei miei occhi, la sento scendere lungo le guance, attraversare la mascella ricoperta di barba, rimanere qualche secondo sulla punta del mento e perdersi tra i suoi ricci. Una sola lacrima che racchiude più cose di quante sarei in grado di spiegare. Lentamente sento che il gelo che mi ha tenuto immobile per questi anni, cominciare a sciogliersi come ghiaccio al sole, che nel mio caso è Melissa.

Mi sento come un pianeta senza orbita, il più piccolo e freddo della galassia, lontano anni luce da qualsiasi fonte di calore e impossibilitato a ospitare forme di vita. Viaggiando senza meta nel buio più assoluto, sono riuscito, senza rendermene conto, a trovare finalmente una stella abbastanza splendente da poterci girare attorno e nutrirmi della sua energia. Ma rimango comunque un parassita, vivendo solo di luce riflessa che non mi appartiene, senza niente da offrire, bensì tanto da togliere. La luce mi tenta, mi attrae, ma sono consapevole del fatto che non posso avvicinarmi troppo senza rischiare di bruciarmi e precipitare nell'oblio.

«Ti aiuterò a buttarti alle spalle questa storia una volta per tutte...» Esordisce all'improvviso, quando finalmente sembra essersi calmata. «Non ti permetterò più di farti del male. Tu sei molto meglio di così e, se non lo vuoi capire da solo, te lo farò entrare con la forza in quella tua testa dura!» Conclude, tentando di usare un tono minaccioso.

«Io sono così ormai e non c'è via d'uscita. Hanno provato ad aiutarmi i migliori analisti del paese, senza grandi successi. Cosa ti fa credere di riuscire tu dove loro hanno fallito?» Non voglio mi faccia un'altra promessa che poi si dimenticherà di mantenere.

Le sue dita sciolgono la presa dal tessuto della mia felpa, apre le mani, ma lascia i palmi appoggiati al mio petto dandosi una leggera spinta indietro, alza la testa, rimasta infossata tra le sue braccia e il mio torace e mi guarda dritto in faccia.

«E' vero io non sono un medico, ma ho qualcosa che a loro mancava.»

I suoi occhi sono arrossati dal pianto e i rimasugli del trucco sono colati lungo la pelle morbida delle guance, eppure per me è un visione meravigliosa. L'ombra che prima annebbiava la sua vista è sparita, ora le sue pupille scure sono luminose e alimentate da una nuova forza che fa nascere una fiammella di speranza in me.

«Io tengo a te.»



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Buongiorno,

ecco a voi un nuovo aggiornamento! Spero sia di vostro gradimento :)

Ora la storia di Alex è (quasi) al completo! Mi è venuto il dubbio che forse questi ultimi due capitoli siano troppo "pesanti", perlomeno in base agli standard di leggerezza che di solito ha la mia storia. Spero quindi di non avevi annoiato.

Fatemi sapere cosa ne pensare, anche se so già che vi aspettavate che venisse fuori la buona samaritana  che è in Melissa... e infatti così è stato :)

Buona giornata!

Rey

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