45. L'attenzione è la più bella delle carezze
Melissa
Lo schermo del cellulare si illumina avvisandomi dell'arrivo di un nuovo messaggio. Lo prendo per leggere di cosa si tratti: Keiko mi avvisa che hanno appena finito di cenare. Rispondo velocemente con l'emoticon della mano che fa il simbolo dell'ok.
Alzo lo sguardo e incrocio le spalle di Alex voltato verso il lavandino. Ammetto che quando l'ho visto sparecchiare e cominciare a lavare i piatti, quasi non mi strozzavo con la mia stessa saliva. Sono rimasta immobile a osservarlo, non ci siamo detti niente, ma a ogni mio accenno di movimento lui mi fulminava con lo sguardo intimandomi di non muovere un muscolo. E così ho fatto, peccato che ora io debba andar via e un po' mi dispiace lasciarlo a casa da solo dopo tutte le sue premure.
Spegne l'acqua del rubinetto e si asciuga le mani su un canovaccio, prima di avvicinarsi al tavolo della cucina con il suo solito cipiglio.
«Devo andare, sei sicuro di non voler venire?» Domando titubante.
Sono sicura che non accetterà mai, ma come si suol dire: tentar non nuoce. In risposta sbuffa teatralmente e non tenta nemmeno di nascondere la sua disapprovazione.
«Aspettami qui.» Ordina prima di sparire fuori dalla stanza.
Non riesco a capire se la sua risposta sia negativa o meno. Cosa avrà in mente?
Dopo qualche minuto rientra in cucina con in mano la cassetta del pronto soccorso. Oggi questo ragazzo è una sorpresa continua, come faceva a sapere dove trovarla? La mia domanda deve essermi ben stampata in faccia perché la spiegazione non tarda ad arrivare.
«La notte che sono arrivato qua Davide mi ha fatto fare un tour della casa e me l'ha fatta vedere per l'evenienza. Credeva sarebbe servita con me.» Dice sarcastico.
Si siede davanti a me, appoggia la cassetta sul tavolo e comincia a tirar fuori tutto quello che gli serve.
«Non credo sia necessario.» Ribatto osservandolo.
Non lo dico per cortesia, mi sembra davvero esagerato. I piselli surgelati hanno fatto il loro dovere e ora va davvero meglio. Lui non sembra ascoltarmi e continua con i suoi preparativi.
«Fammi vedere quel polso.» Istruisce porgendo una mano.
Esito qualche secondo guadagnandomi altre occhiate di rimprovero. Alla fine decido di assecondarlo, dato che ho l'impressione che se non lo faccio non mi farà uscire di casa e non ho nessun intenzione di ritardare ancora.
Gli porgo il braccio destro e lui afferra la parte dolorante con delicatezza. Nonostante il tocco leggero, una scarica elettrica mi fa sobbalzare e, ovviamente, la mia reazione non sfugge ai suoi occhi attenti. Allenta ancora di più la presa, per quanto possibile e, con l'altra mano, mi spalma con movimenti circolari una crema per le distorsioni. Quando ha terminato prende una benda sterile e comincia ad avvolgerla sul rigonfiamento.
«Fatto.» Esclama una volta che ha finito.
Ritiro l'arto e lo osservo attentamente. La bendatura è perfetta, né troppo stretta, né troppo allentata inoltre i movimenti sicuri che gli ho visto fare non sembrano quelli di un principiante.
«Dove lo hai imparato?» Chiedo a bruciapelo.
Ripone con lentezza tutto nella cassetta e quando credo che ormai non mi risponda più, lui mi stupisce, ancora una volta.
«L'ho imparato quando giocavo a calcio. Spesso mi facevo male fuori dal campo, così per non far incazzare il mister mi medicavo da solo.» Confessa nascondendomi i suoi occhi.
Il tono della sua voce ha una sfumatura malinconica che non avevo mai sentito. Non deve essere stato facile rinunciare alla sua grande passione.
Chiude di scatto la cassetta, così decido che è il momento di togliere le tende.
«Ti ringrazio davvero, ora però devo andare.» Esordisco alzandomi in piedi.
«Ti passa a prendere qualcuno?» Domanda neutro.
«Sono già tutti là, andrò in autobus.»
«Vuoi andare in autobus da sola a quest'ora?» Mi fissa come se fossi una pazza.
«Certo.» E' capitato altre volte che dovessi raggiungere il gruppo con i mezzi pubblici eppure sono ancora viva e vegeta.
Alex continua a scrutarmi come se fossi fuori di testa, finché dopo un lungo sospiro e qualche esclamazione poco carina, non si alza in piedi anche lui.
«Vengo con te.» Borbotta infastidito.
«Non devi venire solo perché...»
«Ho detto che vengo con te.» Mi zittisce bruscamente. «A che ora passa questo autobus?» Aggiunge.
Non mi piace che si senta in obbligo di venire con me per un motivo così stupido, ma mi rendo conto che in fondo un po' lo desideravo. Inoltre è il compleanno di suo fratello, è giusto che partecipi anche lui, così magari faranno pace una volta per tutte.
Prendo il cellulare e consulto il sito dell'azienda di trasporti per controllare l'orario del servizio serale.
«Merda!» Esclamo.
«Che succede?»
«Ho dimenticato che oggi c'è lo sciopero dei mezzi.» Farfuglio imbarazzata.
«E cosa hai intenzione di fare ora?» Sbuffa lui.
«Potrei andare a piedi.» Oppure chiamare Keiko per chiederle di passare a prendermi e trascorrere tutto il tragitto a sentire lei ripetermi "Io te l'avevo detto".
Alex sembra sul punto di scoppiare. Non capisco perché se la deve prendere così tanto, in fondo è un mio problema.
«Resta a casa.»
«Non posso mancare al compleanno di Davide. Non me lo perdonerei mai, già crede che...» Mi blocco.
«Cosa crede?»
«Niente. Devo andarci punto e basta.» Concludo imperterrita. Quando potrà costare un taxi a quest'ora?
Altro sbuffo da parte di Alex.
Se osa anche solo provare a impedirmelo giuro che...
«Mettiti una giacca. Ti ci porto io.» Asserisce, ma sembra che le parole gli escano a fatica.
«Come?»
Una volta scesi nei garage del condominio, Alex si avvicina alla basculante accanto a quella che solitamente contiene l'auto di Davide. Fa scattare la serratura e apre il garage mostrando una moto nera e arancione al suo interno. Non sono abbastanza esperta da sapere che modello sia, ma sembra una di quelle da corsa che ho visto spesso gareggiare in televisione.
«Vuoi davvero andare con quella?» Chiedo.
Non credevo fosse possibile, ma rimpiango gli autobus milanesi in questo momento. Alex non emette un fiato, nonostante sia di spalle davanti a me, percepisco la sua tensione. Le spalle rigide, i pugni stretti lunghi i fianchi e una vena ingrossata sul collo non mi lasciano dubbi. Non credo voglia salire su quell'affare, ma allora perché siamo qui?
«Non lo devi fare per forza.» Mi sfugge dalle labbra.
Lui sembra riscuotersi e si avvicina al mezzo ostentando sicurezza. Monta sulla moto, la spinge fuori dal garage superandomi e si immobilizza. Recupero due caschi integrali e richiudo la basculante prima di raggiungerlo. Lui è ancora immobile e il suo respiro è leggermente affannato. Gli porgo un casco che indossa velocemente come a volersi nascondere da me.
«Ne sei sicuro?»
Sono davvero preoccupata sia per lui che per la mia incolumità, visto che ha intenzione di far salire anche me. In risposta accende il motore e da un paio di accelerate per ribadire il concetto.
Stavolta sono io a sbuffare irritata, ma faccio come vuole e salgo sul sedile posteriore della moto dopo essermi infilata il casco. Mi aggrappo ai suoi fianchi e sento che è ancora rigido come un tronco.
Passano attimi interminabili nei quali vedo le sue spalle alzarsi e abbassarsi irregolarmente e i muscoli delle braccia guizzare ogni volta che sembra voler partire, ma alla fine ci ripensa e restiamo fermi davanti al garage.
Nella mia testa, come tasselli di un puzzle, comincia a prendere forma qualcosa che possa dare una spiegazione a questo suo strano comportamento. Ricordo che durante la settimana in cui eravamo soli si era arrabbiato molto per una frase che avevo detto.
«C'è la moto di mio padre in garage. Potresti prendere quella.» Propone impassibile.
«Certo.» Rispondo in tono sarcastico. «Quella moto pesa più di me. Non voglio rischiare di morire solo per non fare quattro passi a piedi. E se anche sopravvivessi ci penserebbe tuo padre a farmi fuori poi.» Aggiungo.
Mi accorgo subito di aver detto qualcosa di sbagliato, perché Alex sposta immediatamente lo sguardo su di me e mi fissa con due occhi verdi pieni di collera.
«Fai un po' come ti pare.» Esclama furente. Poi si allontana ed entra in bagno sbattendo la porta con forza.
Il mio pensiero prende forma da solo con quei pochi elementi che ho: una carriera calcistica stroncata, una cicatrice sul ginocchio, un amico morto in un incidente stradale e, dulcius in fundo, degli incubi che gli ricordano ogni notte l'accaduto. Questo spiegherebbe molte cose, ma non tutto purtroppo.
Mi sento triste per lui, per quello che deve aver passato. Avrei voluto esserci per poterlo aiutare. Senza rendermene conto lo avvolgo da dietro con entrambe le braccia e appoggio la guancia sulla sua schiena stringendolo appena. Mi dispiace tanto, Alex.
Si gira appena per capire il motivo del mio gesto, ma non gli fornisco nessuna spiegazione e resto nella stessa posizione finché non lo sento rilassarsi leggermente. Torna a guardare dritto davanti a sé e finalmente le ruote cominciano a girare.
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