73. Decision

ICE

"E quanto coraggio ci vuole  a lasciar andare  qualcosa che vorresti restasse per sempre? Non è forte chi trattiene ma chi capisce quando è arrivato il momento di lasciare la presa."
(Dal web)

Avevo ceduto. Mi ero promesso di non farle pressioni, ma non potevo rimanermene zitto, senza farle sapere che l'amavo ancora e che Dio solo sapeva quanto avrei voluto che si fermasse a Skyville.
Ember aveva dedotto che non fossi più innamorato di lei e non io potevo lasciarglielo credere. In seguito alla mia dichiarazione invece, sapeva esattamente cosa provassi e cosa mi aspettassi dalla nostra relazione. La resa dei conti era quindi arrivata e io non avevo chiuso occhio dopo essere uscito allo scoperto e aver messo tutte le carte in tavola
Continuavo a ripetermi che probabilmente l'avevo terrorizzata con il mio discorso, ma dentro di me coltivavo ancora una piccola ma ardente speranza, nonostante i miei sbagli terribili.
All'alba, non resistetti più. Mi infilai una tuta e, anche se era ancora troppo presto, uscii per andare a casa dei miei e preparale la colazione. Ero convinto che nessuno fosse sveglio a quell'ora, ma appena uscii di casa mi accorsi di un altra figura davanti al portone dei miei genitori.
Il cuore si fermò e la terra mi mancò sotto i piedi. Era come se fossi di nuovo dentro quella maledetta valanga, ma non era neve quella che mi stava investendo. Era un dolore crudo e sordo, causato dall'infrangersi delle speranze e dalla pungente consapevolezza di averne piena responsabilità.
Dall'altra parte della terrazza, speculare alla mia posizione, c'era lei. Lei e i suoi dannatissimi trolley viola.
Sapevo che il mio discorso avrebbe potuto portare ad un esisto poco positivo, ma non mi sarei mai aspettato che scappasse di nascosto da tutti in quel modo. Di nuovo.
La fissai negli occhi per un lunghissimo istante, ma dovetti distogliere lo sguardo in preda all'amarezza che mi stava deformato il volto.
Lo portai verso la pavimentazione, proprio nel punto di impatto di quel pino che aveva dilaniato l'intero terrazzo, ma che, allo stesso tempo, aveva causato la collisione dei nostri corpi in preda allo spavento.
Quell'albero ci aveva uniti, segnando l'inizio della nostra relazione, e proprio in quel punto, su quella terrazza, si infranse l'ultima possibilità di poterla recuperare.
Avrei dovuto stare zitto, ma la bile che mi stava risalendo la gola mi costrinse a sputare un po' di veleno.
«Non c'era bisogno che scappassi così, senza nemmeno salutare.»
«Non sto scappando. Ho semplicemente il volo molto presto. I tuoi gli ho già salutati ieri sera.»
«Già i miei...» come a dire che io non contavo molto e non meritavo di essere salutato.
«Ti avrei scritto un messaggio più tardi...»
Sbuffai una risata con la bocca impastata di amarezza.
«Ian, senti...» disse incamminandosi verso di me.
«Non serve che tu dica niente, Amber.. » la bloccai, ma lei continuò ad avvicinarsi imperterrita fino a raggiungermi.
Infilai le mani in tasca per combattere l'istinto di prenderla fra le braccia e implorarla di rimanere.
«Avevo già fissato il volo prima del tuo discorso di ieri sera.»
«Ok, si certo. Capisco.» E capivo davvero. Capivo che Ember aveva fatto la sua scelta. Lo aveva messo in conto, ma non per questo quello che stava accadendo faceva meno male.
Non sapevo se lo avrei mai accettato, ma i fatti stavano parlando davvero chiaro.
Fu l'attimo più umiliante della mia vita, forse ancore peggio di quando avevo creduto che se la facesse con Marcus, ma non avevo intenzione di farmi vedere così debole. Mi aveva rifiutato, ponendo fine ad ogni speranza, ma non volevo cedere al rancore. Anche perché non se lo meritava. Le avrei dimostrato fino alla fine quello che davvero provavo per lei, senza melodrammi o vittimismi.
In quel momento un taxi parcheggiò davanti alle nostre villette.
Ember inziò ad agitarsi, afferrò i trolley e io vi poggiai sopra la mano, per fermarla.
«Lascia almeno che ti accompagni io.» le dissi fissandola negli occhi con una risolutezza che smorzò ogni sua possibile replica. Lei richiuse la bocca come per rimangiarsi qualcosa, emise un respiro profondo. Scosse la testa da destra a sinistra e poi dall'alto verso il basso.
«Ok!» mi rispose energica, non capendo se in preda alla frustrazione e al sollievo.
Pe un attimo la scrutaii in cerca di risposte. Poi senza dire nulla scesi in strada a pagare la corsa a vuoto del taxista.
Una volta ritornato in terrazza, la trovai in preda all'imbarazzo. Passava il peso da un piede all'altro.
«Amber, va tutto bene. Ok?»
Annuii con un espressione triste che non riuscii a decifrare. «Aspettami un attimo qui, vado a prendere la giacca.».
Rientrai in casa e andai  in camera da letto, dove avevo riposto nella cassettiera il cofanetto che avevo portato a Bali.  Mi soffermai per un attimo e lo aprii.
Fu come se il luccichio del diamante mi stesse accecando, come se fosse troppo brillante per quel momento così buio. Era un gioiello dall'aria molto sofisticata, con il solitario attorniato da una montatura fatta di altri piccoli diamanti che a cascata si prolungavano sulla fascia. Tutta quella lucentezza aveva sempre rappresentato la felicità che avremmo potuto vivere. La celebrazione dell'inizio di una famiglia tutta nostra, mentre in quel momento stava mutando radicalmente significato.
Glielo avrei donato per ricordarle che l'avrei amata per sempre e per ricordarle che lei si meritava di brillare proprio come quel diamante, con o senza di me.
Una volta messo nel taschino della giacca, la raggiunsi in terrazza a ci dirigemmo in garage. Caricai i bagagli nel silenzio più completo.
Dio solo sapeva quanto odiassi quelle dannate scatole con le rotelle che avevano sempre permesso a Ember di impacchettare la sua vita e andarsene con tanta facilita. Per un brevissimo istante fui sollevato quando richiusi il bagagliaio e distolsi finalmente lo sguardo dal loro colore così angosciante.
Misi quindi in moto e mentre il portellone del garage si apriva, mi soffermai a scrutare il cielo in silenzio. Una coltre di nubi fitte non avrebbe permesso di far splendere il sole quel giorno, spegnendo talmente tanto i colori, da far sembrare il mondo un film in bianco e nero. Esattamente come sapevo sarebbe stata la mia vita, lontano dal calore del suo cuore.
Ember, seduta affianco a me, si rigirava continuamente le mani una dentro l'altra e guardava fuori dal finestrino.
Rimasi in silenzio a lungo, perché non avevo più idea di cosa dirle. Accompagnarla in aeroporto era qualcosa di straziante, ma volevo comunque prolungare, anche se di poco, lo stare con lei.
«Non ti rivedremo più? Non è così?» domandai di punto in bianco dopo più di venti minuti.
«Ian, Io sto rientrando perché un'altra maestra di inglese alla scuola elementare si è infortunata e non riescono a trovare nessuno che la sostituisca. Non mentivo riguardo al fatto che non stavano scappando.»
Mi irrigidì e mi voltai verso di lei cercandole negli occhi la più piccola pagliuzza di bugia. Avevo così paura a crederle, a sperare ancora. Intuendo la mia perplessità Ember mi rassicurò ulteriormente.
«Io non ho preso ancora nessun tipo di decisione. Come mi hai detto tu, devo pensarci bene. Quello che mi hai detto ieri sera non è una cosa di poco conto. Ne abbiamo passate tante e sono terrorizzata dal fatto che le cose tra noi non siano poi così recuperabili.
Mi aggrappai al volante in preda alla confusione. Non riuscivo a capire se quello che mi stava dicendo avesse una accezione positiva o meno.
Riflettei per un attimo riguardo la risposta, prima di iniziare a parlare.
«Lo capisco. Ma credo che noi due abbiamo passato momenti peggiori l'uno affianco all'altra. Dal mio punto di vista si tratta solo di tornare a guardare nella stessa direzione, perché insieme abbiamo attraversato l'inferno, perdendoci solo una volta quando le acque si sono calmate e siamo tornati a riva.
Se l'ostacolo pensi sia la mia professione, sto considerando di mollare tutto. Al momento non ho nemmeno più stimoli.»
«Ian, non dire sciocchezze! Non è quello. I problemi gli ho creati io perché non riuscivo io per prima ad affrontarli.»
«Devi imparare a fidarti degli altri, Amber. Devi imparare a fidarti di me. Non c'è niente che non farei per proteggerti e renderti felice. E devi toglierti anche dalla testa che tu sia la causa dei problemi. Ma soprattutto, qualora ne insorga una, ti devi rendere conto che non sei più sola. Non più. E non devi aver paura di questo.»
Rimanemmo in silenzio per il resto del viaggio. Amber riprese a guardare pensierosa fuori dal finestrino. I suoi occhi scorrevano veloci sulla distesa di pini innevati che costeggiava la statale. Sembrava fare incetta di quella vista e mi chiesi se davvero stava considerando di tornare o le sue erano state semplici parole diplomatiche per non appesantire la situazione.
Quando arrivammo davanti all'aeroporto, aprii in bagagliaio e tirai giù i suoi trolley cercando di nascondere un moto di irritazione, ma Ember sembrò registrare l'irrigidimento della mia mascella.
«Grazie, Ian», mi disse, mettendo una mano manico estraibile, «posso trascinarli da sola ora da qui.
La fissai ma non le risposi. Afferrai i bagli e iniziai ad incamminarmi verso l'ingresso dell'aeroporto.
Lei mi seguì titubante.
Sentivo il peso delle cofanetto dentro i pantaloni della mia tuta. Era come se mi stesse ustionando la gamba per ricordam che dovevo ancora prendere una decisione su cosa fare.
Una volta entrati, individuano il volo sul tabellone e con rammarico scoprii che era in perfetto orario. L'accompagnai al banco del drop off per lasciare il trolley più grande e lo fissai con odio, mentre se ne andava traballante sul nastro.
La mano di Ember sul braccio mi distolse dai miei tentativi di incenerirlo con lo sguardo e ci incamminano in silenzio fino ai controlli, dove avrei dovuto separarmi da lei, forse per sempre.
«Ian, credo che debba entrare ora... stanno già imbarcando.»
Ember iniziò a congedarsi mentre fissavo il pavimento ai suoi piedi. Non riuscivo ad accettare quel momento.
Avrei voluto dirle un milione di cose, ma non ci riuscii. Mi limitai a sollevare lo guardo, con la speranza che non facesse trapelare la sofferenza che mi stava soffocando e impedendo di parlare.
Annuii con il capo, come a dire che poteva andare, ma quando si voltò e mi diede la schiena, qualcosa dentro di me scattò.
Non poteva essere quello il nostro ultimo momento. Ci meritavamo entrambi qualcosa di meglio. Qualcosa che rappresentasse quello che c'era stato tra di noi.
Così la chiamai e prima ancora che si voltasse l'afferrai per un braccio e l'attirai a me.
Atterrò sul mio petto e io la strinsi ancora di più, mi precipitai sulle sue labbra e le divorai.
Inizialmente misi in quel bacio, tutta la frustrazione, il dolore, la nostalgia e i sensi di colpa.
Mi muovevo sulle sue labbra e dentro la bocca con talmente tanta disperazione che non respirammo per un tempo lunghissimo.
Poi rallentai e il bacio si fece meno aggressivo, ma più audace. Ricordava i nostri amplessi, quelli più dolci, ma anche quelli più spinti.
L'elettricità tra il mio petto e il suo seno stava diventando incandescente, come se ci stesse bruciando.
Con quel bacio stavo ripercorrendo institivamente a ritroso la nostra relazione, fino a rallentare piano piano e diventare delicato. La stessa delicatezza che avevo usato per avvicinarmi all'inizio al suo corpo, al suo cuore e alla sua anima, la stavo usando per lasciarla libera da tutte le conseguenze dei miei sbagli.
Il bacio si esaurì e rimanemmo a respirare uno sulle labbra dell'altro, fronte contro fronte.
Una voce dagli altoparlanti chiamò il suo volo e lei si distaccò leggermente dal mio volto e dal mio corpo, provocando immediatamente un vuoto freddo e insopportabile. L'afferrai per le braccia per non farla scappare e sollevai lo sguardo nel suo.
«Aspetta, ti devo dare una cosa.» dissi brusco, come a gettare fuori quelle parole prima di pentirmene. Estrassi il confanetto, le presi entrambe le mani e glielo posizionai sul palmo.. facendomelo richiudere con l'altra mano.
«Questo è per te. Voglio che tu lo tenga a prescindere da quale sarà la tua decisione. L'ho preso per te. Anche se non deciderai di tornare, è giusto che lo abbia tu.»
«Ian, ma cosa?»
«Shhhh. E giusto così. Anche se non mi vorrai. Anche se prenderai una strada diversa. Anche se vorrai costruire la tua vita assieme a qualcun'altro, voglio che lo abbia tu, perché rappresenta tutto quello che provo e proverò sempre per te. Forse la nostra relazione non sarà per sempre. Ma il mio amore per te sì.»
«Ian.... »
«Sssshhhh....»
Le ripresi le mani e appoggiai nuovamente la fronte sulla sua. Le tolsi la scatoletta dalle mani, la strinsi forte prima di estrarre l'anello ed infilarglielo al dito.
I nostri respiri si stavano allineando ed erano sempre più in affanno. Ember iniziò a piangere e anche i miei occhi si fecero lucidi.
Dagli alto pairlanti uscì ancora una volta l'ultima chiamata del suo volo e Ember appoggiò una mano tremolante sul suo trolley e si guardò l'anello. Il ritmo del suo respiro aumentò ancora di più, facendo scendere e salire vorticosamente il suo petto.
Poi si staccò e arretrò verso il controllo bagagli. E io rimasi lì con il suo sapore in bocca. Un sapore che avrei dovuto memorizzare e custodire per tutta la vita.
Un addetto del controllo bagagli la sollecitò e lei procedette sempre senza perdermi di vista e senza mai smettere di piangere.
Una volta sparita tra la folla, mi sedetti di fronte alla vetrata e rimasi lì finché il manicotto di
imbarco non si staccò dal suo areo, il quale si  allontanò con una lentezza straziante. Rimasi ancora lì per vederlo raggiungere la pista e in lontananza lo osservai decollare.
Non me ne andai subito. In realtà non ebbi nemmeno le forze per alzarmi perché quando le ruote dell'aereo si staccarono dal cemento, un vuoto profondo mi si creò in pancia fino a farmi girare la testa.
Anche se Ember non aveva escluso nessuna possibilità, il mio cuore sapeva di averla persa.

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