72. Never

EMBER

"L'amore è un fuoco. Ma non saprai mai se scalderà il tuo cuore o brucerà la tua casa."
Joan Crawford

Alla fine non ero riuscita a mantenere un equilibrio. Ero scoppiata a piangere come una scema e mi ero lasciata vedere da Ian completamente sconvolta.
Ma vederlo seminudo mi aveva lasciata interdetta e senza fiato. Il desiderio che avevo provato, però, si era trasformato in qualcos'altro. I ricordi di lui sul divano con un'altra, della hostess alle Olimpiadi, e di tutte le foto sui giornali di gossip con soubrette, presentatrici sportive o semplici fan, mi avevano ricordato a quante persone fosse appartenuto quel corpo che una volta avevo sentito mio. Con cui la mia anima si era fusa simboleggiando la mia vera casa.

Avevo sempre creduto che Ian sapesse che fossi venuta a Skyville quella sera e che avesse deliberatamente ignorato la cosa. Invece non era così. E la litigata furiosa tra fratello e sorella che avevo sentito nonostante mi fossi rifugiata a casa degli Egawa, ne fu la conferma.
Dovetti ammettere che tutta quella situazione mi stava destabilizzando, nonostante il comportamento diplomatico di Ian. Decisi che fosse giunto il momento di partire, mossa anche dal fatto che la preside della scuola aveva rifiutato la richiesta del prolungamento delle mie ferie, sollecitandomi a tornare il prima possibile per mancanza di personale. Tuttavia, la compagnia con cui avevo il biglietto di ritorno con data aperta non aveva combinazioni fattibili per il giorno successivo. Per tanto, mi rassegnai a trascorrere altre due notti a Skyville, nella speranza che gli animi si rasserenassero.
Quella sera, a cena, Ian sembrò cordiale e premuroso come il giorno precedente, ma gli leggevo una tristezza negli occhi che riusciva a penetrarmi il petto e a raggiungere dritta il cuore come una lama affilata. A volte si estraniava dai discorsi, fissando il vuoto. Altre volte, quando pensava che non lo vedessi, mi guardava come un cane bastonato. Le interazioni tra me e lui furono ancora più sporadiche e dopo cena si dileguò nel suo appartamento, così come la mattina successiva non si fece vedere a colazione.
Quando però uscii sulla terrazza, richiamata dal clacson del pick-up di Katy, rimasi sconcertata. Quattro uomini nerboruti stavano portando via il divano del salotto di Ian passando dalla terrazza. Rimasi a bocca aperta e seguii con lo sguardo il mobile fluttuare giù per le scale, verso il camion dei traslochi, parcheggiato davanti al'auto della mia amica. Nel frattempo, Ian chiuse casa e mi raggiunse sul terrazzo con l'aria leggermente imbarazzata.
«Ian, ma cosa?»
«Così ora, se ti invito a entrare per un caffè, non ti bloccherai sulla porta.» Mi sorrise anche se il velo di tristezza non aveva ancora abbandonato i suoi occhi.
«Mi dispiace per ieri, scusami. Mi sono lasciata prendere dalle emozioni.»
«Scherzi? Non sei tu quella che deve scusarsi. A Livigno mi sono comportato davvero come un imbecille, ed è stato già tutto sufficientemente squallido. Ma quello che mi hai raccontato ieri...» Scosse la testa, si morse il labbro e guardò verso le montagne. «Non avrei mai voluto che assistessi a una cosa simile, Amber. Mi dispiace, non ne sapevo nulla. Katy non mi aveva detto che eri venuta qui.»
«Ian... abbiamo fatto tanti sbagli. Entrambi.»
«Lo so, è che speravo di farti trascorrere serenamente questi giorni a Skyville, senza drammi e brutti ricordi. Invece ce n'era uno gigantesco proprio sotto il mio naso.» Trattenne il respiro per un attimo. «Ho agito così solo perché pensavo che tu e Marcus... beh, insomma, lo sai.»
«Già, e tante cose non sarebbero successe se ti avessi detto il mio vero nome fin da subito, ma le cose sono andate così. Non c'era bisogno di far portare via il tuo divano.»
Distolse lo sguardo dall'orizzonte e lo riportò su di me con una tale intensità che mi fece sobbalzare.
«E invece sì.» rispose secco.
Ci guardammo per un lungo istante, ma poi il suo telefono squillò. Rispose a monosillabi e poco dopo chiuse la conversazione, dileguandosi senza dirmi nulla.
Non avevo il diritto di sapere come stava impiegando le sue giornate, ma mi sembrò strano che non passasse nemmeno qualche ora con noi. Katy mi aveva spiegato che dopo le Olimpiadi si era preso una pausa e che, per il momento, non aveva intenzione di riprendere gli allenamenti agonistici.
Anche se l'ipotesi di una nuova fidanzata era in netto contrasto con la faccenda del divano, e quel pensiero si fece di nuovo strada dentro di me e mi accompagnò per tutto il giorno, nonostante l'entusiasmo di Katy, tra un giro sullo snow park e un pomeriggio alla spa.
L'idea di Ian con un'altra divenne un costante, doloroso sottofondo, e si trasformò in una certezza pungente quando non si presentò nemmeno a cena.
A tavola parlai pochissimo, alludendo al fatto che fossi troppo stanca e rilassata dopo il bagno turco e la sauna. Una volta aiutato Mari a sparecchiare, con la scusa di prendere una boccata d'aria, uscii in terrazza per vedere se Ian fosse in casa. Ero rimasta molto delusa dal fatto che non si fosse presentato a cena come le altre sere. L'indomani sarei tornata a Bali, e quella, di fatto, era la mia ultima sera a casa Egawa. L'ultima sera a Skyville. L'ultima occasione di vederlo.

Come richiamato dai miei pensieri, apparve sulla scalinata che portava al garage.
«Ehi...»
«Ehi...» risposi a bassa voce.
«Non ho fatto in tempo per cena, mi spiace. Lo shooting per gli igloo della Skynight è andato per le lunghe.»
«Hai comprato altri igloo?»
«Sì, altri cinque. Ormai è tutto pronto per la stagione.»
«Avrei potuto darti una mano, anche se non ho l'attrezzatura con me. Potevo noleggiarla o farmela prestare.»
«Non avrei mai approfittato. Dopotutto sei qui in vacanza.»
Mi riservò uno sguardo intenso, denso di significato.
Ian aveva sempre pensato che la cupola risvegliasse in me brutte sensazioni, quando in realtà ero riuscita a tenere stretto nel mio cuore solo il buono di quella notte.
Inoltre, il fatto che non mi avesse nemmeno accennato del servizio fotografico mi aveva fatto sentire quasi un'estranea. Aveva sempre voluto che fossi io a occuparmi della comunicazione di quel progetto, o quantomeno a supervisionarla. Invece, me lo aveva quasi tenuto nascosto, sparendo per tutto il giorno.
Che fosse perché aveva un'altra o perché mi vedesse come una storia ormai morta e sepolta,fu l'ennesima conferma che Ian fosse andato oltre e che tutti i miei dubbi a riguardo fossero solo delle stupide proiezioni del mio inconscio.
Mentre continuava a fissarmi, a proprio agio, crebbe in me una strana sensazione di inquietudine. Avevo bisogno di provocarlo, di sapere cosa gli passasse esattamente per la testa, perciò bluffai.
«Sono davvero contenta che siamo riusciti ad andare oltre tutto quello che è successo e che possiamo avere un rapporto civile.»
Ian non rispose, ma strinse i pugni. Il suo sguardo iniziò a vagare verso il bosco senza logica, passando da destra a sinistra con frenesia, mentre la testa oscillava leggermente seguendo la direzione. Non so cosa l'avesse fatto innervosire. Forse era solo stanco. Provai quindi a rincarare la dose in cerca di conferme, anche se mentire mi stava creando un groppo in gola, che rese la mia voce quasi rauca.
«Non pensavo che sarebbe arrivato davvero il giorno in cui saremmo andati avanti e ci saremmo lasciati tutto alle spalle.»
A quelle parole, Ian si bloccò. Il suo sguardo divenne cupo e tremendamente severo. Si girò di scatto verso di me e mi prese il volto tra le mani. Avvicinò improvvisamente le sue labbra alle mie, fermandosi a pochi millimetri, mandando in corto circuito ogni mia terminazione nervosa. Sentii il suo respiro caldo e avvolgente farsi irregolare sul mio viso. Ian aveva gli occhi socchiusi e leggermente contratti. Sembrava godersi quella familiare elettricità che solo i nostri corpi vicini riuscivano a creare.
Con una movenza impercettibile, appoggiò le sue labbra sulle mie, e io mi liquefai all'istante.
Quelle sensazione di morbidezza e calore mi travolsero, donandomi la certezza che non potevo più farne a meno. Non volevo passare nemmeno un istante senza essere baciata da lui. Il mio cuore era diventato come una calamita che spingeva il mio corpo sempre più verso il suo, in cerca di un abbraccio, in cerca di unione.
Ma probabilmente Ian non fu del mio stesso avviso. Quando il mio petto si appoggiò al suo, un verso strozzato gli sfuggì e si staccò da me, risucchiando via quel senso di benessere e lasciando un vuoto colmo di sofferenza. Le sue mani scivolarono lungo le mie braccia senza tuttavia afferrarle, né toccarle, come se io fossi un frutto proibito o velenoso. Il suo volto era contratto dallo sforzo, e gli occhi ancora chiusi.
Benchè non mi fosse chiaro il motivo per cui avesse preso le distanze, ero certa che l'interruzione di quel bacio gli causasse dolore almeno quanto ne aveva inflitto a me.
Rimase con gli occhi socchiusi ancora per qualche istante, come se stesse richiamando un briciolo di lucidità; poi li sbarrò e agganciò i miei. Parlò con una voce talmente bassa, calda e roca, che non avevo mai udito prima. Quel tono sapeva di sofferenza, di rimpianto, ma anche di amore.
«Non pensare mai, neanche per un istante, che io abbia smesso di amarti. Non l'ho mai fatto, nemmeno mentre commettevo gli errori più gravi della mia vita. Ti ho sempre amato e ti amerò sempre, Amber Keller. Qualunque sia il tuo nome. Ma...»
Si interruppe, perché la rigidità del suo corpo lo costrinse a emettere un sospiro tremolante.
«Non voglio baciarti, trascinarti a casa e fare l'amore con te. Sarebbe tremendamente bello, semplice e spontaneo, ma non sono sicuro sia quello che tu voglia davvero, anche se è ciò che il tuo corpo implora disperatamente in questo momento. Inspirò profondamente e trattenne il respiro. «Non voglio più essere quello che ti rende felice per qualche ora, giorno, settimana o mese, per poi vederti scappare di nuovo lontano e sparire dalla mia vita. Io voglio di più. Voglio dei progetti a lungo termine. Voglio tutto. Voglio che diventi mia moglie, voglio costruire una famiglia con te. Voglio invecchiare con te. Ma sono anche pronto a lasciarti andare se questo ti fa paura, perché in fondo non è quello che ti renderebbe davvero felice.»
«Ian, io...»
«Shhh...» mi zittì, posando l'indice sulla mia bocca e strizzando ancora gli occhi. «Ti prego, non voglio che tu dica niente ora. Sono risposte che richiedono tempo, e tu devi prenderti tutto quello che serve. Ti ho già fatto piangere ieri mattina e So che hai pianto anche la notte precedente. Ed è la prova che qualcosa di me ti fa ancora male, ma ci spero ancora, che tu un giorno possa essere felice con me.»
Le sue mani, che mi stavano ancora sfiorando le spalle, mi strinsero in un abbraccio che mi scaldò nuovamente l'anima. Poi alzò il volto e mi baciò la fronte con talmente tanta tenerezza che scoppiai a piangere.
«Mia piccola scoiattolina, se e quando sarai sicura di non voler più scappare, mi troverai qui ad aspettarti.»
Un groviglio nello stomaco fece eco al vuoto che si creò quando lentamente si staccò da me e camminò all'indietro verso quella che era stata casa nostra.
Volevo seguirlo, gettarmi di nuovo tra le sue braccia, baciarlo e fare l'amore con lui. Lo desideravo talmente tanto che faceva davvero male. Ma Ian aveva ragione. Avevo molto su cui pensare e ancora troppo da metabolizzare. Non ero sicura che il dolore che ci eravamo inflitti potesse essere superato e non ero sicura che diventare sua moglie fosse qualcosa di davvero possibile o che avrebbe sistemato le cose.
Mi resi conto solo allora che i miei sbagli erano stati ancora più grossi di quanto avessi ancora realizzato. Ian c'era sempre stato per me, mentre io non avevamo fatto altro che imprigionarlo in un tira e molla che si era inevitabilmente concluso nel peggiore dei modi.

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