71. Block
ICE
"Certe occasioni perdute ti scrutano a lungo prima di trasformarsi in rimpianti crudeli."
(Fabrizio Caramagna)
Averla a Skyville per qualche giorno era più di quanto avessi mai potuto immaginare. Facevo di tutto per non essere invadente o incalzante, cercando di lasciarle i suoi spazi. Non volevo che scappasse di nuovo e, soprattutto, non volevo che si sentisse costretta.
Amber desiderava trascorrere del tempo con la mia famiglia, e io non potevo essere un ostacolo a qualcosa che la rendeva felice.
Il mio autocontrollo mi era d'aiuto, ma sapevo che, quando si trattava della mia scoiattolina, diventavo la persona più impulsiva del mondo.
Per questo avevo evitato di tornare con loro. Avevo paura di tradirmi, vedendola entrare in casa dei miei anziché nella mia, o ancora meglio nella nostra, come era sempre stato.
Aspettai nel parcheggio un quarto d'ora, poi tornai alle villette e mi addormentai con una strana sensazione. L'indomani l'avrei rivista a colazione, come quando viveva nella dépendance. Segretamente non vedevo l'ora di trovarla nella cucina di mia madre, con quell'aria assonnata, le labbra leggermente imbronciate, e le pieghe del cuscino ancora sulle guance.
Quella mattina uscii presto per fare jogging nei boschi e rientrai poco prima che Katy dovesse passare a prenderla, ma la casa dei miei genitori era immersa ancora nel silenzio più assoluto. Pensai che fossero già partite per le piste. Entrato in cucina, però, mi resi conto che tutto il necessario per la colazione era ancora in bella vista. Ember non avrebbe mai lasciato tutto così, senza sistemare. Dopo qualche istante, sentii una suoneria assordante provenire dalla camera di Katy: la sua sveglia. Mi si formò un groviglio nello stomaco all'idea di rivederla, ma qualcosa non quadrava. La sveglia continuava imperterrita a strillare, e per un attimo ebbi paura che Ember fosse scappata di nuovo, che avesse lasciato lì il telefono per non essere più trovata, come aveva già fatto in passato subito dopo la valanga.
Mi precipitai in camera di mia sorella, con un groppo in gola, ma lei era lì, avvolta in una nuvola bianca di piumone. Indossava uno dei suoi soliti completi: pantaloncini e canottiera di raso e pizzo, che lasciavano intravedere la morbidezza delle sue curve. Mi chinai davanti a lei, presi il cellulare dal comodino e spensi la suoneria.
Dormiva così profondamente che mi concessi di restare lì a guardarla, senza dover controllare le mie espressioni. Lì, nella penombra di quella stanza, potevo infatti lasciarmi andare e osservarla senza nascondere il turbinio di sensazioni che mi suscitavano il suo corpo caldo, i suoi seni che si alzavano e abbassavano cadenziati da un respiro profondo, le sue labbra dischiuse, pronte per essere baciate, i suoi capelli arruffati, come se avessimo passato tutta la notte facendo l'amore. Era una visione che mi era mancata così tanto da farmi smettere di respirare per qualche istante.
Ero sicuro che, se mi fossi spogliato e infilato nel letto accanto a lei, non mi avrebbe respinto. Lo sapevo dal modo in cui mi aveva guardato la sera prima, da come reagiva il suo corpo non appena le ero vicino. Da quell'energia che si sprigionava tra noi, quell'attrazione magnetica, era ancora lì. Non era cambiata, né si era affievolita.
Avremmo potuto fare l'amore, e forse lei sarebbe anche rimasta. Ma poi? Ci sarebbe sempre stato qualche motivo per cui la mia scoiattolina avrebbe sentito l'istinto di scappare. Un'incomprensione, un litigio, uno sbaglio, qualcosa di non detto. La paura di essere un problema o di non essere accettata.
Amber era sempre stata attratta dalla mia famiglia e aveva sempre voluto farne parte. Con loro stava bene, si sentiva a casa, ma dentro di sé si era sempre ritenuta un'intrusa, una presenza che poteva creare problemi o diventare un peso. Non ne aveva mai parlato apertamente, ma tra le righe dei suoi articoli avevo intravisto quel senso di colpa. Ero sicuro che la sua sempre mente attenta agli altri, le avesse fatto credere che Kris fosse andato su quelle piste rischiose solo per guadagnare abbastanza da poterla tenere con sé.
Per questo, non appena si sentiva di intralcio, lasciava tutto e scappava. E poi, non sapeva cosa fosse una famiglia perché le era stata strappata troppo presto. Io volevo darle proprio quello. La mia di origine, ma anche una tutta nostra. Non ero però sicuro che fosse davvero quello che l'avrebbe resa felice, e di certo non potevo imporglielo.
Una risata sommessa alle mie spalle mi scosse dai miei pensieri.
«Cavolo, fratellone, sei davvero inquietante! Sembri uno dei peggiori stalker.»
Mi alzai, roteando gli occhi al cielo e Katy si fece improvvisamente seria quando si accorse che erano velati di lacrime.
«Lasciamola dormire. Non ha nemmeno sentito la sveglia», le dissi, raggiungendola alla porta e chiudendola alle mie spalle, dopo aver fatto incetta di quella visione.
«Se vuoi posso inventarmi una scusa e lasciarvi soli oggi.»
«No, Katy. Grazie, ma non è necessario.»
«Almeno vieni sulle piste con noi oggi?» mi chiese mentre ci dirigevamo verso la cucina.
«Non posso, ho delle cose da sistemare su alle cupole.»
«Mi prendi in giro? Amber è qui, ci hai impiegato mesi a farla tornare e tu pensi di sparire tutto il giorno?»
«Amber non è qui per me, è qui per voi.»
«Non capisco come pretendi che possa restare, se non le fai capire che la vuoi ancora. Sei stato muto quasi tutta la sera, ieri.»
«Non voglio forzarla, Katy.»
«C'è una bella differenza tra forzarla e farla sentire come se ti fosse del tutto indifferente.»
Rimuginai sulle sue parole. Forse ero risultato troppo distaccato? Volevo solo farla sentire a suo agio, farla stare bene.
«Forse hai ragione, ci penserò. Ma oggi Amber è tutta tua! Ci vedremo a cena...»
Conclusi il discorso e rimasi a chiacchierare con mia sorella in cucina, aspettando che Amber si svegliasse.
Nel frattempo preparai gli ingredienti per la sua colazione preferita. Se dovevo essere più carino, era meglio iniziare dalle piccole cose, da quei gesti che anche mia madre avrebbe fatto.
Quando finalmente comparve sulla soglia, sconvolta, capii che le cose non stavano andando bene. Ember aveva gli occhi rossi: sapevo cosa significava. Aveva pianto, e tanto. Stare qui non la faceva stare bene. Dal modo in cui mi guardava capii che, ancora una volta, il motivo del suo tormento ero io.
La salutai cercando di farla sentire il più possibile a suo agio, mentre mia sorella la prendeva in giro per il suo aspetto stravolto, pensando che fosse semplicemente per il jet lag.
Le preparai una spremuta e il suo bagel preferito. Ember sembrava confusa dai miei gesti, come se li trovasse contraddittori.
Tornai a pensare che forse Katy non aveva tutti i torti. Magari le avevo dato segnali confusi.
Quando, in un lapsus divertente, dichiarò di voler fare la doccia con me, il suo viso si fece paonazzo e portò entrambe le mani alla bocca per la sorpresa.
Le sorrisi teneramente in quel momento, ma per tutto il tempo sotto la doccia non avevo fatto altro che desiderarla, immaginandola tra il mio corpo e le piastrelle della parete. Volevo sentirla ansimare, riempirle la bocca dischiusa con la mia lingua, divorarle le labbra e farla scivolare sul mio corpo su e giù fino a lasciarla senza forze.
Avevo mantenuto il controllo per tutto il tempo, e alla fine dovetti rimediare da solo sotto l'acqua scrosciante della doccia. Il risultato, però, fu davvero deludente: quando ebbi finito, il desiderio per lei bruciava ancora più intenso di prima.
Quella situazione fu la conferma che non sarebbe stato saggio passare la giornata con Ember e Katy sulle piste. Dovevo prima riprendere il controllo.
Quando uscii dalla doccia, però, sentii dei rumori provenire dall'ingresso. Mi legai un asciugamano in vita, sperando che la mia erezione scemasse presto con il freddo fuori dal bagno.
Trovai Katy all'ingresso che armeggiava con la porta. La guardai confuso e la spalancai con aria interrogativa.
«Ma hai cambiato la serratura, fratellone?»
«Sì, Katy. L'ho cambiata l'anno scorso. Esiste anche il campanello, comunque.»
«Non volevo disturbarti mentre eri sotto la doccia. Volevo solo andare giù in palestra a vedere se c'era la tavola di Amber. In garage non l'ho trovata.»
Mi scostai di lato per farla entrare e aspettai che lo facesse anche Ember, ma lei non avanzò. Mi voltai verso di lei. Aveva gli occhi sbarrati, e il suo sguardo stava scandagliando il mio corpo dal basso verso l'alto. Era paonazza in volto, e il pensiero che mi volesse riaccese in me il fuoco del desiderio.
Mi schiarii la voce, cercando di riportare lo sguardo al pavimento.
«Ehi, non entri?»
Scosse la testa.
«Non ti mangio, Ember, puoi entrare.»
Il suo sguardo tornò sulla mia erezione, e mi sistemai meglio l'asciugamano.
«Dai, entra. Vado a mettermi qualcosa,» la rassicurai.
«No, non è per quello.» Gesticolò nervosamente, poi notai che il suo sguardo finì sul nostro divano e sulla copertina di cachemire che non avevo mai avuto il coraggio di mettere via.
«Ti fa effetto entrare qui?»
La vidi iniziare a tremare.
«Ehi piccola, va tutto bene.» Feci per prenderle la mano, ma lei arretrò e guardò ancora nella direzione dell'area living.
«Amber...?» domandai, sempre più confuso.
«Scusami, è che...» tentennò un istante, come se non fosse convinta di parlarmi. «Vedi, quando sei venuto a New York, io ti ho cercato per giorni. Poi ho deciso di venire qui a parlarti di persona, visto che non rispondevi alle mie chiamate e ai miei messaggi. Così ho preso un aereo, e Katy mi è venuta a prendere all'aeroporto. Ti abbiamo cercato al pub, ma non c'eri più. Così lei mi ha accompagnato qui a casa tua. Solo che tu...» la sua voce era ormai spezzata, e le guance rigate di lacrime. Un serpeggiante presentimento si impossessò di me poco prima che lei diede voce alla conferma. «Tu... tu non eri solo.»
Chiusi gli occhi nel tentativo di assorbire la bomba che aveva appena sganciato, e lasciai cadere le braccia lungo il corpo. Non potevo crederci; pensavo di averne già combinate abbastanza. Infilai le mani tra i capelli, sconvolto, poi chinai la testa, barcollando di fronte alla consapevolezza del dolore che le avevo causato.
«Cazzo, Amber. È per questo che avevi smesso di cercarmi?»
Abbassò lo sguardo e si morse il labbro, cercando di nascondere un dirompere di lacrime copiose.
«Scusami, Ian. È meglio se aspetto Katy di là, dai tuoi.»
E fece nuovamente quello che le era sempre riuscito meglio. Scappare.
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