67. Chair lift

EMBER

A distanza di anni, le nostre ossa e le nostre anime si riconobbero e tremarono nel tentativo di ricongiungersi, ignorando la resistenza della nostra ragione.
(Bea Hawks)

Mi sistemai il passamontagna bene sul naso e infilai una ciocca di capelli sfuggita dal casco. Dopo quindici anni, ero finalmente pronta a partecipare alla commemorazione di mio fratello, ma decisamente meno a ritrovarmi in qualche altra situazione spiacevole con Ian.
Mi dispiaceva terribilmente non poter trascorrere del tempo con la sua famiglia, ma non ero ancora pronta a rivederlo. A Bali avevo trovato una sorta di equilibrio, ma non passava giorno senza che Ian mi mancasse. L'istinto di sopravvivenza mi aveva portato a rompere le catene definitivamente, ma ero ancora innamorata di lui. Sapevo che dovevo andare avanti, provare ad avere un'altra relazione, ma non ero riuscita nemmeno a baciare qualcun altro, nonostante le occasioni non mi fossero mancate nella fervida movida balinese.
Sapevo che interagire con lui avrebbe solo reso tutto più difficile, come gettare sale su una ferita mai del tutto chiusa.

Per questo, nonostante le temperature moderate di quella sera, mi ero coperta l'intero volto per non essere riconosciuta e avere modo di passare inosservata.
Non ebbi però molta fortuna. Era scontato che avrebbe partecipato, ma speravo almeno di vederlo solo in lontananza. Invece, Ian Colton Egawa fu la prima persona che incontrai non appena uscita dalla funivia.
Era in fondo alla pista d'arrivo, senza la sua tavola, e chiacchierava con due maestri della Warm Peak Academy. Il mio corpo si irrigidì all'istante, e dentro il casco iniziai a sentire martellare del cuore. Trattenni il respiro e gli passai davanti, tenendo la testa bassa. Una scarica di elettricità mi attraversò quando, per la calca presente all'arrivo, dovetti passare a meno di un metro e mezzo da lui. Nello stesso istante, lo vidi sussultare e smettere di parlare per un attimo, come se il suo corpo avesse avuto la mia stessa reazione.
Mi sentivo osservata, ma non alzai la testa per paura di attirare l'attenzione e mi affrettai verso la seggiovia.
Ripresi a respirare regolarmente solo una volta seduta sull'impianto di risalita. Man mano che mi avvicinavo alla vetta, il mio corpo iniziò a rilassarsi, all'idea di fare una o due piste prima della fiaccolata. Quando però la mia tavola toccò di nuovo la neve, quella sensazione di essere sotto il suo sguardo si impadronì nuovamente di me.
Scesi il più velocemente possibile senza guardarmi mai indietro, ma a metà percorso cedetti. Tagliai la pista in backside e diedi un'occhiata veloce verso monte. Ian era a poche curve dietro di me. Avrei dovuto fermarmi, lasciarlo passare per evitare di incrociarlo nuovamente a fine pista, ma fui presa dal panico e la mia tavola scivolò verso valle, accelerando ancora di più. In meno di mezzo minuto ero di nuovo in coda per la seggiovia, con la speranza di nascondermi in mezzo alla calca.
Le palpitazioni tornarono, e non ebbi il coraggio nemmeno di guardarmi attorno. Mi allineai con due ragazzini per essere sicura di prendere una seggiovia al completo, ma proprio quando fu il momento di attraversare il tornello, con la coda dell'occhio mi resi conto che i due non stavano avanzando. Procedetti trattenendo il respiro verso il punto di presa, e poco prima che la seduta mi colpisse i polpacci, una figura alta, massiccia comparve al mio fianco, e un'altra scarica elettrica, fin troppo familiare, invase il mio corpo.
Smisi di respirare. La seduta mi costrinse a sedermi e pochi istanti dopo Ian abbassò la sbarra di protezione.
Ci fu silenzio per tutto il tempo in cui la seggiovia percorse i primi due sostegni. Oltre al battito del mio cuore, le mie orecchie udivano solo il rumore del traballio della seggiovia ovattato da tutta la neve circostante. Per un attimo mi illusi che non mi avesse riconosciuta, ma poi udii un lieve fruscio della sua giacca, seguito da un sospiro e fu così che Ian iniziò a parlare, come se nulla fosse.
«Speravo davvero che venissi. Forse ho anche insistito perché la commemorazione si tenesse a Skyville quest'anno proprio per questo, se devo essere sincero.»
Silenzio.
«Amber... io...»
Sentire per la prima volta il mio vero nome pronunciato dalla sua voce profonda, fu come un coltello conficcato nel cuore. Cambiava così poco rispetto al nome con cui era solito chiamarmi, ma in quella minuscola sostituzione di vocale c'era tutta la fine della nostra storia. Eppure lui lo pronunciò con tanta familiarità, come se non mi avesse mai chiamata diversamente.
«Non voglio farti pressioni, lo so che ti stai nascondendo da me. Ma non devi.»
Mi mossi nervosamente, facendo oscillare la seggiovia e con un piede scrollai la neve dalla tavola.
«Vedi, quando ho capito tutto sono impazzito. Mi sono precipitato nell'hall dell' hotel per cercarti, poi in aeroporto, poi nel tuo appartamento a New York, poi ancora a casa di Allen, convinto che sapesse dove fossi. Alla fine ho ingaggiato due investigatori privati e, dopo mesi di buchi nell'acqua, ho ceduto a qualche piccola azione illegale, assumendo un hacker.»
Mi girai di scatto verso di lui. Aveva violato la mia privacy ancora? In che modo?
«No, no, Amber...» Ancora il mio nome, come se non mi avesse mai chiamata diversamente. «Non preoccuparti. Non sono entrato nel tuo computer o nel tuo telefono. Solo in quello della tua property manager.»
Sobbalzai e mi aggrappai alla sbarra di sicurezza.
«Sì, Amber. Ho sempre saputo dove fossi, e sette mesi fa ti ho anche raggiunto a Bali.»
A quella rivelazione, il cuore mi sembrò scoppiare, rimbombando dentro il casco. La mia maschera iniziò ad appannarsi per la crescente umidità al suo interno, ma continuai a fissarlo, nascosta dalla lente specchiata.
«Cavolo...» Distolse per un attimo lo sguardo, scosse la testa e un sorriso incredulo fece capolino sul suo volto. «Ero così felice di averti trovato e pronto a riportarti a casa a qualsiasi costo. Ho vissuto tutto l'anno in attesa di quel momento, ma quando ti ho vista così felice, mi sono limitato a osservarti da lontano. So che è da stalker, e me ne scuso, ma avevo bisogno di capire. Sapere se stavi davvero bene. Io...» La sua voce si incrinò per un attimo e i suoi occhi si fecero lucidi. «Io credo di non averti mai vista così felice e in armonia con te stessa, con le persone e con tutto quello che ti circondava. Per la prima volta ti ho vista...» Fece una pausa e si morse il labbro, «davvero serena, sorridente e soddisfatta. Credo di non essere mai riuscito a darti la pace che ho visto in una tua normalissima giornata a Bali. Per questo non ho avuto il coraggio di disturbare la tua felicità. In quel momento ho capito che chiederti di tornare qui, non ti avrebbe mai resa così serena come eri in quel momento. Non dopo tutto quello che ti ho fatto passare.»

Per un istante mi sembrò che la seggiovia sotto di me fosse svanita e che io fossi sospesa nello spazio e nel tempo. Quella rivelazione mi fece girare la testa, tanto che non riuscii nemmeno a capire il senso del suo discorso.
Mi ero illusa di aver posto fine a quella relazione, ma non era così: lo stava facendo Ian, proprio in quel momento. Realizzai solo allora che, nonostante tutto, la speranza che il mio futuro lo includesse era sempre rimasta viva, anche se nascosta dentro di me. Anche se non l'avevo mai ammessa.
Il leggero traballio dovuto alla rulliera della stazione di arrivo mi destó dal mio smarrimento.
Ian alzò infine la sbarra di sicurezza con estrema lentezza, come se non volesse che quella corsa finisse. Eppure scendemmo, proseguendo in perfetta sincronia, rallentando uno di fronte all'altro.

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