56. Hide and Seek


EMBER

"La bambina si nascose dietro un albero inseguita dalle proprie risate.
Il signor Tempo si era fermato prima e la guardava da lontano, come chi non avesse più la forza di correrle dietro."
(Fabrizio Caramagna)

DUE MESI DOPO

«Vuoi un po' di caffè con i pancake?» Marcus mi sorrise affabile, mentre mi porgeva la brocca colma di caffè fumante. Mi ero ormai abituata a vederlo a torso nudo, come un giovane Apollo, nella mia cucina, mentre armeggiava con pentole e fornelli.
«Volentieri. Ho proprio bisogno di scaldarmi. Non sono calorosa come te!»
«Sempre Caliente per te, Baby! E non mi serve un caffè per esserlo.»
«Allen...!» lo rimproverai, un sorriso involontario affiorò sulle mie labbra.
«Ti ho portato quel formaggio di capra del Rench dei McPhill.»
«Oh, davvero? Allora ti perdono!»
Mi sorrise malizioso, ma subito dopo il suo viso si fece serio.
«Come ti senti, piccola newyorkese?»
«Ormai sei tu il vero newyorkese qui!»
«Non sto scherzando, Ember!» mi rimproverò, non cadendo nel mio depistaggio.
Come mi sentivo? Non sapevo nemmeno più come stavo realmente. Più che altro, facevo in modo di non avere tempo nemmeno per fermarmi a pormi quella domanda.
Per non dare nell'occhio nel settore, mi ero cercata un lavoro come semplice commessa in un negozio di abbigliamento sportivo, mentre di sera scrivevo sotto pseudonimo per una testata online dedicata allo sport. Mi avevano assegnato una piccola rubrica sul marketing.
Quando terminavo le ricerche o la stesura, ricorrevo a qualche sostanza che mi aiutasse a dormire. Avevo iniziato con dei semplici calmanti, ma non sortendo alcun effetto, ero passata presto alle benzodiazepine.
I sonniferi e il lavoro erano il mio unico modo di sopravvivere. Non solo per una questione economica, ma soprattutto dal punto di vista psicologico.
Non volevo lasciarmi andare del tutto. Avevo lasciato Ian e la mia vita a Skyville perché non volevo rivivere quello che avevo passato con mio fratello. Mi ero raccontata che aver scelto di rompere con lui fosse meno doloroso di perderlo per il fato o per qualche scelta stupida. Soccombere completamente, però, significava ammettere che avevo fatto tutto inutilmente. Per questo motivo, non mi ero mai lasciata andare del tutto a quella voragine di dolore sulla quale mi affacciavo ogni tanto, senza pensare a quello che avevo perso.

Erano passati più di due mesi da quando avevo lasciato Skyville. La mattina della valanga, subito dopo aver litigato con Ice, ero scesa a casa e avevo fatto le valigie. Avevo lasciato un biglietto per Tak e Himari, e avevo caricato i mie due trolley viola in macchina, pronta per partire alla volta di New York. I miei piani, però, sfumarono quando Kevin mi raggiunse per farmi ragionare, Tuttavia io ero ormai fuori controllo e alla fine si dovette limitare a convincermi a non mettermi alla guida in quelle condizioni. Mi offrì asilo a casa sua; inizialmente accettai con l'idea di avere un posto tranquillo dove potermi calmare, in modo da poter partire nel pomeriggio, ma quando Kev mi aggiornò sulle condizioni di Ian, non ebbi il coraggio di lasciare Skyville.
Così accettai la sua proposta di dormire nel suo monolocale e di non fare nessun gesto avventato, in cambio della promessa che non avrebbe detto a nessuno che stavo da lui. Continuava a ripetermi che a sangue freddo io e Ian avremmo risolto. Ma io non volevo risolvere un bel niente. Non ero arrabbiata con Ian, ma con me stessa e con mio fratello.
Rivivere tutto era stato troppo. La vista della lastra che si staccava, il boato che riecheggiava nella valle, la nuvola di neve che si ingigantiva man mano che scendeva. Le giacche rosse dei soccorritori che spalavano, simili a macchie di sangue sul manto bianco della neve.
Non avevo retto. Mi ero nascosta dietro la folla che guardava verso il punto nella valanga e avevo iniziato a tremare. Kev mi aveva trovata rannicchiata a terra e mi aveva portata ai tavoli del rifugio.
Il sollievo di rivedere Ian pochi minuti dopo, di poterlo riabbracciare, di poter sentire la sua voce, il suo profumo, non bastò a sedare la collera della me bambina che aveva ormai rotto le catene e lasciato andare tutta la rabbia repressa.
Razionalmente, potevo aver capito che i miei genitori non avevano colpe per quello che li era successo, ma mi ero sentita comunque abbandonata. Non avevo mai davvero superato l'accaduto e quando mancò anche mio fratello, la rabbia divenne insostenibile. Dal mio punto di vista infantile mamma e papà avevano scelto di non essere a casa con me quella sera. Poco importava se erano via per un viaggio di lavoro. Così come mio fratello aveva scelto la carriera di snowborder professionista, mettendo a repentaglio la sua vita.  Al mio inconscio non interessava che lo avesse fatto perché era l'unico modo che un ragazzino nemmeno ventenne avesse per guadagnare abbastanza soldi da pagare un grosso studio di avvocati e ottenere il mio affido.
Ad ogni modo, quella bimba non aveva potuto arrabbiarsi con loro. Semplicemente, perché loro non c'erano più. Mentre Ian era lì, si era salvato, ma allo stesso tempo aveva deciso di mettere sul piatto la possibilità di lasciarmi, proprio come aveva fatto mio fratello.
Si era preso cura di me, mi aveva difeso, protetto, se non addirittura salvato, ma anche lui avrebbe potuto sparire da un momento all'altro, e ci era andato davvero vicino. Troppo vicino.
Ero sicura che non sarebbe mai sceso, se solo avesse saputo la verità sul mio passato, ma la sua vita era quella, e un margine considerevole di rischio in quello che faceva ci sarebbe sempre stato.
La valanga mi aveva messo di fronte al fatto che non potevo convivere con quella percentuale, ma allo stesso tempo non volevo che Ian rinunciasse a qualcosa della sua vita per me.
Perciò lo avevo abbandonato prima che potesse farlo lui un'altra volta.
Avevo dormito così da Kev per tre notti, costringendolo sul suo divano scomodo. Solo una volta saputo che Ian stava bene e che era stato dimesso, nonostante le rimostranze del mio amico, risalii in macchina per partire alla volta del luogo che mi avrebbe permesso di sparire un'altra volta.
Ma anche quel vecchio catorcio della mia auto si coalizzò con Kev e mi abbandonò proprio quando ne avevo più bisogno.
Optai quindi per l'aereo, ma una volta a bordo scoprii un'altra insolita sorpresa, che sul momento non seppi definire se bella o brutta.
Due file indietro rispetto al posto assegnatomi, trovai infatti Marcus Allen, diretto verso la grande mela per dei provini per una pubblicità di un marchio di abbigliamento sportivo.
Quando lo vidi, scoppiai a piangere; lui chiese alla signora seduta accanto a me di scambiare il posto. Ero davvero troppo scossa ed esausta, e inevitabilmente durante il volo gli raccontai il motivo della mia fuga. Non avevo fatto il nome di mio fratello, ma avevo menzionato un incidente analogo.
Marcus ascoltò pazientemente senza dire una parola, poi mi chiese se avessi un posto dove andare a New York. Quando gli risposi che avrei dovuto cercarmi un hotel economico per qualche notte, prima che si liberasse la casa ereditata da mia nonna che avevo messo su Airbnb, mi caricò su un taxi e mi portò nell'appartamento che aveva affittato lui per quella settimana.
Condividemmo quello e successivamente anche casa mia. Per ricambiare infatti, mi offrii di ospitarlo ogni volta che sarebbe dovuto venire nella city per lavoro.
Dopotutto, Allen aveva reso il mio ritorno a New York meno traumatico e avere lui una volta al mese in giro per casa mi distraeva e mi rendeva in qualche modo un po' meno distante da Skyville.
Soprattutto, rendeva le mie giornate libere dal lavoro meno strazianti e mi permetteva di evitare di prendere i sonniferi anche di giorno, affinché il tempo passasse più velocemente.

Marcus non aveva smesso di fare battute maliziose, ma fin da quella sera in aereo, le aveva poste in modo diverso. Non erano volte a provarci davvero, ma piuttosto per tirarmi su il morale.
Inaspettatamente, era diventato la compagnia perfetta. L'odio reciproco tra lui e Ian, inoltre, giocava a mio favore.
Compariva ogni tanto per pochi giorni, facendomi sentire importante e desiderata, senza alcun pericolo o complicazione. Mi regalava un piccolo assaggio di Skyville con i suoi racconti, tutto questo senza mai sfiorare l'argomento Ice.

Quel giorno dopo colazione, mi trascinò sul set fotografico dei nuovi guantoni da sci di un noto marchio di abbigliamento.
Un'assistente gli stava spalmando l'olio su tutto il corpo, considerando che il concept del servizio prevedeva che indossasse solo quelli. Le fotografie sarebbero state in bianco e nero, mentre i guantoni blu petrolio sarebbero stati messi in evidenza con il colore in fase di post-produzione.
Mi rendevo conto che fosse uno dei servizi più sexy che avessi mai visto e che il corpo di Allen non aveva nulla da invidiare a quello di Ian e inevitabilmente, finii per immaginarmi Ice, nudo con indosso quei guantoni, che mi guardava con un'aria famelica, la stessa espressione che Marcus stava riservando alla ragazza intenta a massaggiare ogni singolo muscolo con la sostanza oleosa e brillante.
In preda alla nostalgia, come ero solita fare, verificai quali notizie circolassero in rete su Ian Colton Egawa.
Non volevo sapere nulla di personale da Marcus e non gli avevo mai chiesto come stesse davvero Ian, ma in quei mesi avevo controllato più di una volta gli articoli sportivi che lo riguardavano, per sapere come stava procedendo la sua riabilitazione.
Le ultime notizie parlavano di tempi di recupero molto buoni, che gli avrebbero permesso di partecipare comunque alle Olimpiadi, nonostante i traumi subiti nella valanga.
Ma proprio mentre stavo digitando le lettere I, C e E, una chiamata oscurò la schermata di Google.

Era Jack Wallace, il direttore della testata per cui scrivevo sotto pseudonimo.
«Ember, come stai?»
«Al solito, Jack. Dimmi tutto.»
«Ti chiamo per una questione un po' delicata. Riguarda una notizia che sta dilagando proprio in queste ore e di cui dobbiamo affrettarci a occuparcene anche noi.»
«Certo, sai che sono sempre pronta per i lavori che mi tengono sveglia anche la notte.»
«Beh... vedi, in realtà non so se te ne vorrai occupare, visto che riguarda il tuo ex.»
Se in negozio ero riuscita a passare inosservata perché i proprietari erano i classici ricconi dell'Upper East Side, che di certo non leggevano articoli di cronaca come quelli riguardanti il putiferio mediatico in cui mi avevano scaraventato Alan e Deamon durante il processo, Jack non era dello stesso avviso. Non appena gli avevo inviato i documenti per il contratto, aveva compreso chi fossi e dovetti spiegargli perché volevo scrivere sotto pseudonimo.
«Ember, ci sei?»
«Sì, scusa, ci sono. È solo che non capisco perché me lo stai dicendo. Avevano stabilito che non avrei scritto nulla su di lui, ma che ci avrebbe pensato Mary Finnick.»
«Sì, esatto. Questo, però, non sembra riguardare solo lui, ma anche te...» disse con voce sempre più incerta. «Ember, non hai ancora letto il comunicato stampa emesso dalla nuova società che gli sta seguendo la comunicazione?»
«No... Jack, non so di cosa tu stia parlando. Cosa hanno diramato?»
«Ice si ritirerà dalle Olimpiadi. Ha confermato che la guarigione è a buon punto e che riprendendo gli allenamenti adesso non ci sarebbero stati problemi, ma ha dichiarato che la decisione di mollare è motivata da ragioni personali.»
Non emisi una parola, impegnata ad assimilare quelle informazioni che le mie orecchie avevano appena ricevuto, ma che la mia mente era restia a metabolizzare.
«Ember... Ember, sei ancora in linea?»
«Sì, Jack, ti confermo che puoi farlo scrivere comunque da Mary. Scusami, devo andare ora.»
I miei occhi incrociarono quelli di Marcus e, dal suo cambiamento di espressione, compresi che dovevo avere un'aria sconvolta.
Quando presi borsa e giacca per andarmene, lui lasciò il set in modo brusco, sotto lo sconcerto di tutti, e soprattutto con la delusione della sua fan oleatrice.

«Ember, tutto ok?»
«No, non proprio. Tu lo sapevi?»
Rimase a guardarmi con aria smarrita per un attimo, facendo vagare gli occhi sul mio volto, così dovetti essere più specifica.
«Del suo ritiro dalle Olimpiadi...»
Abbassò lo sguardo con aria colpevole e fece un lungo respiro.
«Sì, ho sentito che ne parlavano a scuola. Non è molto in sé da dopo l'incidente, ma pensavo non volessi sapere certe cose.»
«È vero. Hai ragione. Ti ho chiesto di non farmi sapere niente perché non avrei resistito a chiamarlo, ma a quanto pare il suo malessere ora è di dominio pubblico e, invece di reagire, odiarmi e incanalare la sua rabbia negli allenamenti, ha mollato tutto.»
«Hai mai pensato che possa essere un modo per attirare la tua attenzione?»
Gli risposi con gli occhi ormai gonfi di lacrime. «Be', direi che ci è riuscito bene.»

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